Cloni intellettuali e politiche internazionali di mr O.

Perché anche Condi Rice si sarebbe trovata benissimo nel team di Obama

Redazione

Si è già scritto moltissimo sul “team di rivali” che Barack Obama ha riunito per dirigere la politica estera della sua Amministrazione. Sul piano politico, forse, questo ha un significato.

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    Si è già scritto moltissimo sul “team di rivali” che Barack Obama ha riunito per dirigere la politica estera della sua Amministrazione. Sul piano politico, forse, questo ha un significato. Sul piano strategico, le differenze sono altrettanto nette di quelle che passano tra l'acqua del rubinetto e quella in bottiglia. Ecco un assaggio: “Non è opportuno rinviare un dialogo politico con l'Iran fino a quando non siano state risolte le profonde divergenze sulle ambizioni nucleari iraniane e sul suo coinvolgimento nei conflitti regionali”. Parole di Obama, che esorta ad avviare colloqui con l'Iran senza porre alcuna precondizione? Nient'affatto: sono parole tratte da una raccomandazione proposta da un gruppo di studio sull'Iran sponsorizzato dal Council on Foreign Relations e diretto da Zbigniew Brzezinski e dal suo ex pupillo Robert Gates. Si tratta dello stesso Robert Gates che è stato per vari mesi membro dell'Iraq Study Group (Isg), che aveva consigliato di non inviare nuove truppe in Iraq. Per una non piccola ironia della storia, Gates è stato prelevato dall'Isg e messo alla guida della Difesa (prendendosi il merito del successo del “surge”), appena qualche settimana prima che fosse pubblicato il rapporto dell'Isg. Non è nostra intenzione attaccare Bob Gates, che si è dimostrato un ottimo e determinato segretario alla Difesa. Vogliamo soltanto sottolineare che Gates – l'esponente repubblicano che apparentemente si trova più lontano dal nuovo presidente americano – non è affatto così distante dalle sue posizioni, perlomeno su due importanti questioni.

    Ed ecco un altro assaggio: “Sebbene non dobbiamo rinunciare a far pressioni per una democrazia più concreta in Russia, dobbiamo anche collaborare con questo paese negli ambiti di comune interesse”. Questa è la politica russa di Obama o di Hillary Clinton? Difficile a dirsi, perché anche l'altro candidato è della medesima posizione: “E' un errore… considerare la Russia soltanto come un minaccia… Dobbiamo collaborare con la Russia in modo selettivo, su questioni di grande rilevanza nazionale”. Un altro membro del team di Obama è l'ex comandante dei marine James Jones. Non si sa molto sulle opinioni del prossimo consigliere per la Sicurezza nazionale, tranne che, a quanto si dice, abbia scritto un rapporto (apparentemente cestinato dall'Amministrazione Bush) estremamente critico nei confronti delle misure di sicurezza adottate da Israele in Cisgiordania. Al Hunt ha riferito che Jones non è “mai stato un fan” della guerra in Iraq e che appoggi una linea relativamente conciliante nei confronti della Russia.

    Allora, dove sono le rivalità? Quali sono le aspre contese che Obama dovrà mediare e conciliare, sul genere di quelle che hanno diviso Colin Powell e Donald Rumsfeld, Paul Wolfowitz e Richard Armitage, John Bolton e Nicholas Burns? In effetti, Obama ha riunito un team di cloni intellettuali. Di più: si tratta di un team che si adatta perfettamente alla stessa impostazione di politica estera che ha caratterizzato il secondo mandato del presidente Bush: ripresa del “processo di pace” arabo-israeliano, aperture diplomatiche all'Iran, concessioni alla Corea del nord (senza alcuna seria aspettativa di un contraccambio), rinuncia a quella che un tempo era definita l'agenda della libertà. Quanto all'Iraq, tutte i contrasti che potevano esserci sono ora sopiti, grazie al successo del “surge” e all'accordo raggiunto la settimana scorsa con le autorità irachene.

    Si osserva con sorpresa come anche Condoleezza Rice, se fosse stata confermata, si sarebbe adattata benissimo. Senza dubbio vi sono diverse differenze sulla politica estera tra l'attuale segretario alla Difesa e il suo successore designato (sebbene entrambi abbiano appoggiato l'invasione dell'Iraq e poi si siano opposti al “surge”). Ma si tratta soltanto di differenze sul ritmo con cui si deve procedere. Così, se Rice stava indirizzandosi verso un diretto coinvolgimento con l'Iran, l'Amministrazione Obama sembra decisa a giungere rapidamente a una normalizzazione dei rapporti. Se la riapertura di relazioni con la Siria era in qualche modo sull'agenda di Rice, è probabile che sarà concretizzata sotto la guida della signora Clinton. Se un terzo mandato di Bush avrebbe significato un ritiro dall'Iraq entro due o tre anni, il team di Obama riporterà probabilmente a casa le truppe con sei mesi d'anticipo.

    Alcuni osservatori, compresi molti conservatori, considerano rassicurante questa continuità. Tuttavia, fatta eccezione per il “surge”, è opportuno ricordare come questi ultimi anni siano stati un periodo estremamente lugubre e difficile per la politica estera statunitense: la capitolazione del Libano alle forze di Hezbollah; il fallito tentativo di interrompere o rallentare il programma nucleare iraniano; la sostanziale acquiescenza statunitense di fronte all'intervento russo in Georgia; il tradimento di attivisti democratici come l'egiziano Ayman Nour, che è stato messo in prigione per avere contestato le elezioni presidenziali. Sì, è questo il resoconto finale della presidenza Bush. Ma non è quello neocon contro il quale si sono scagliati Obama e Hillary durante la campagna elettorale e che sarebbe in teoria responsabile della difficile situazione nella quale ci troviamo ora. Al contrario, è il risultato di quel “realismo” della politica estera che Rice ha fatto progressivamente suo e che il team di Obama ora intende portare avanti, con soltanto qualche piccolo ritocco.
    Ecco a cosa si riduce il cambiamento in cui possiamo sperare. E altrettanto si dica per il secondo avvento dell'Amministrazione Lincoln. Dite pure quello che volete sul team di Obama, ma è senza dubbio un team conformista e tradizionale. Fatta eccezione, naturalmente, per Joe Biden, la Cassandra di questa nuova Amministrazione.
    di Bret Stephens


    © Wall Street Journal
    per gentile concessione di MF
    (traduzione di Aldo Piccato)

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