Oltre la battaglia

Redazione

Cancellare il potere politico e militare di Hamas dalla Striscia con una campagna infernale, combattuta palmo a palmo, fin sui tetti e giù dentro le cantine, è possibile. E dopo? Israele ha alcune opzioni davanti, alcune più realistiche altre meno. La meno desiderata è l'amministrazione militare permanente.

    Cancellare il potere politico e militare di Hamas dalla Striscia con una campagna infernale, combattuta palmo a palmo, fin sui tetti e giù dentro le cantine, è possibile. E dopo? Israele ha alcune opzioni davanti, alcune più realistiche altre meno. La meno desiderata è l'amministrazione militare permanente. Il governo di Gerusalemme guarda con orrore a un'occupazione a lungo termine della Striscia e ha già escluso questa strada più volte e a chiare lettere. L'ultimo a farlo è stato il presidente Shimon Peres. “Il nostro obbiettivo non è l'occupazione di Gaza”. Anche lo stato maggiore è d'accordo, per ragioni concrete – e agli israeliani non servono altre ragioni in più. Accettare il controllo del territorio significa accollarsi la madre di tutti i problemi di sicurezza, un rettangolo allungato affollato da un milione e duecentomila persone, in cui ogni civile che si presenta davanti a un checkpoint è un potenziale terrorista in missione suicida.

    Restare a Gaza più del necessario sarebbe fare l'opposto di quanto ha fatto Israele fino a oggi: tagliare fuori gli estremisti, cercare di isolare le fonti di guai, consegnare i duri alla loro solitudine. Resta il dilemma politico – “Chi comanderà adesso?” – che poi è il centro di tutte le guerre contro il terrore. Gli americani in Iraq possedevano molte volte il potenziale militare necessario a cacciare Saddam Hussein dai suoi palazzi di Baghdad: ma hanno fallito a redistribuire il potere politico a partire dalla fine delle ostilità, e ci hanno messo quattro anni per recuperare. A Gaza City non arriverà un improbabile Paul Bremer israeliano. Il governo lavora sull'ipotesi più solida: l'operazione Piombo fuso dovrebbe concludersi con un accordo politico fondato su un nuovo sistema di controllo del territorio, più stretto, e di prevenzione del contrabbando di armi attraverso il confine fra Gaza e l'Egitto.

    Un accordo politico con chi, con Hamas? Nemmeno per idea. “Noi non riconosceremo Hamas come interlocutore – dice al telefono Miri Eisin, colonnello dell'esercito, analista nella direzione dell'intelligence militare – non tratteremo con Hamas, un'organizzazione di terroristi che ha preso il potere a Gaza con la violenza”. L'obbiettivo è il regime change, sradicare il potere di Hamas e sostituirlo con quello di Fatah, che dimostra di essere più disposta a trattare? “No, niente regime change con l'Anp – dice Eisin – Israele con Hamas ha soltanto un obbiettivo militare: bloccare la sua capacità di esportare il terrore con i razzi, gli attacchi suicidi, il contrabbando di armi e militanti attraverso il confine sud”. Eppure, il nuovo sistema di controllo su Gaza sarà diretto da un comitato già esistente, con rappresentanti di Israele e dell'Autorità nazionale palestinese, e anche di Egitto e Stati Uniti. Hamas non sarebbe ovviamente rappresentata all'interno del comitato, ma l'aspettativa – realistica – è che continuerebbe per ora a mantenere il suo controllo sulla Striscia di Gaza.

    Secondo Martin Kramer, analista mediorientale solitamente ben informato, la guerra contro Hamas aprirà anche la strada al cambio di potere politico. “L'obiettivo di Israele è riportare Gaza sotto il controllo dell'Autorità palestinese, anche se in modo graduale: il messaggio ai palestinesi è chiaro, ‘Hamas è un vicolo cieco'”. I modi per favorire il cambiamento sono tanti. Per esempio l'Anp può essere di nuovo incaricata di controllare il valico di Rafah con l'Egitto, come già richiesto dal Cairo. Il nuovo accordo di controllo avrà come obbiettivo più importante proprio il sud della Striscia, il lato che confina con l'Egitto. Oppure – sostiene ancora Kramer – all'Anp potrebbe essere dato il controllo esclusivo sul budget per la futura ricostruzione di Gaza, per riparare i ministeri, le infrastrutture, le case e le moschee danneggiate: nella Striscia non ci sono materiali per la ricostruzione, e anche il cemento deve essere trasportato su camion da Israele. Se dopo la guerra Gerusalemme volesse sollevare le sanzioni economiche oggi in vigore, potrebbe infine decidere di farlo soltanto attraverso i canali dell'Anp.

    Secondo i giornali di Gerusalemme questa soluzione politica – il comitato a quattro, Anp inclusa – è stata proposta dal primo ministro Ehud Olmert fin dalla fase preparatoria dell'operazione e poi è stata approvata durante lo stesso incontro – partecipanti  il ministro della Difesa, Ehud Barak, e il ministro degli Esteri, Tzipi Livni – che ha dato il via all'offensiva di terra cominciata sabato sera. Per ora il piano è nelle mani dell'ufficio del primo ministro, con uno staff misto di funzionari di Esteri e Difesa. L'Amministrazione Bush si tiene in contatto con telefonate e mail, ma rifiuta di mandare rappresentanti anche soltanto di basso livello nell'area. Ovviamente, lascia il compito di nominare i rappresentanti di parte americana al presidente entrante Barack Obama.

    L'accordo in lavorazione assomiglia all'intesa che governava il cessate il fuoco tra Israele e il Libano dopo l'operazione militare “Grapes of Wrath” della primavera del 1996. Un gruppo di controllo che includeva israele, Libano, Siria, Francia e Stati Uniti fu formato per decidere su ogni violazione dell'accordo che proibiva il fuoco sui civili. Hezbollah, la versione nord di Hamas, non era parte dell'accordo, ma tutti erano tacitamente d'accordo nel considerare la Siria come patrono ufficiale. Oggi, a Gaza, Israele non vuole una risoluzione del Consiglio di sicurezza che obblighi le parti a una tregua forzata – come è accaduto con la 1.701 dell'agosto 2006 nel sud del Libano – perché non vuole dare ad Hamas il rango di avversario legittimo permettendogli di essere firmatario di un patto. Piuttosto, a Gerusalemme vogliono che l'Anp impersoni il ruolo del Libano nel 1996 – ovvero quello di comunità più grande che ha la sfortuna di ospitare un gruppo estremista e belligerante al suo interno – e torni a rappresentare tutti i palestinesi. Per questo, per bloccare il ritorno di Fatah dopo la guerra, Hamas ha dichiarato la “terza intifada” contro Abu Mazen in Cisgiordania e sta chiedendo alle ali più intransigenti di unirsi alla lotta. Chi non ci sta, è ucciso, o ferito, come negli ultimi dieci giorni è accaduto ad almeno un centinaio di uomini di Abu Mazen a Gaza.