La vita d'Israele è disponibile

Redazione

Nei giorni delle festività natalizie Benedetto XVI è intervenuto più volte contro la guerra che ha per epicentro Gaza. Ma le sue parole sono cadute nel vuoto. Insuccesso non nuovo per le autorità della Santa Sede, ogni volta che si confrontano con la questione di Israele.

    Dal Foglio di mercoledì 7 gennaio

    Pubblichiamo un'analisi di Sandro Magister disponibile anche sul sito www.chiesa.espressonline.it

    Nei giorni delle festività natalizie Benedetto XVI è intervenuto più volte contro la guerra che ha per epicentro Gaza. Ma le sue parole sono cadute nel vuoto. Insuccesso non nuovo per le autorità della Santa Sede, ogni volta che si confrontano con la questione di Israele. In più di tre anni di pontificato, Benedetto XVI ha innovato in ciò che riguarda i rapporti tra le due fedi, la cristiana e l'ebraica. Ha innovato anche a rischio di incomprensioni e contrarietà, sia tra i cattolici sia tra gli ebrei. Ma nel frattempo poco o nulla sembra essere cambiato nella politica vaticana nei confronti di Israele. La sola variante, marginale, è negli accenti. Fino a un paio d'anni fa, con il cardinale Angelo Sodano Segretario di stato e con Mario Agnes direttore dell'Osservatore Romano, le critiche a Israele erano incessanti, pesanti, a tratti sfrontate. Oggi non più. Col cardinale Tarcisio Bertone la Segreteria di stato ha ammorbidito i toni e sotto la direzione di Giovanni Maria Vian l'Osservatore Romano ha cessato di lanciare invettive e ha allargato gli spazi del dibattito religioso e culturale. Ma la politica generale è rimasta la stessa.

    Di certo le autorità della chiesa cattolica non difendono l'esistenza di Israele – che i suoi nemici vogliono annientare ed è la vera, ultima posta in gioco del conflitto – con la stessa esplicita, fortissima determinazione con cui alzano la voce in difesa dei principi “innegoziabili” riguardanti la vita umana. Lo si è visto nei giorni scorsi. Le autorità della chiesa e lo stesso Benedetto XVI hanno levato la loro voce di condanna contro “la massiccia violenza scoppiata nella Striscia di Gaza in risposta ad altra violenza” solo dopo che Israele ha iniziato a bombardare in quel territorio le postazioni del movimento terroristico Hamas. Non prima. Non quando Hamas consolidava il suo dominio feroce su Gaza, massacrava i musulmani fedeli al presidente Abu Mazen, umiliava le minuscole comunità cristiane, lanciava ogni giorno missili contro le popolazioni israeliane dell'area circostante.

    Nei confronti di Hamas e della sua ostentata “missione” di cancellare lo stato ebraico dalla faccia della terra, di Hamas come avamposto delle mire egemoniche dell'Iran nel vicino oriente, di Hamas come alleato di Hezbollah e della Siria, le autorità vaticane non hanno mai acceso l'allarme rosso. Non hanno mai mostrato di giudicare Hamas un rischio mortale per Israele, un ostacolo alla nascita di uno stato palestinese, oltre che un incubo per i regimi arabi dell'area, dall'Egitto alla Giordania all'Arabia Saudita.
    Su l'Osservatore Romano del 29-30 dicembre, in un commento di prima pagina firmato da Luca M. Possati e controllato parola per parola dalla Segreteria di stato vaticana, si è sostenuto che “per lo stato ebraico la sola idea di sicurezza possibile deve passare attraverso il dialogo con tutti, persino per chi non lo riconosce”. Leggi: Hamas. E sullo stesso numero del giornale vaticano – in una dichiarazione anch'essa concordata con la Segreteria di stato – il patriarca latino di Gerusalemme, Fouad Twal, dopo aver deplorato la “sproporzionata” reazione militare di Israele, ribadiva lo stesso concetto: “Dobbiamo avere l'umiltà di sederci attorno a un tavolo e di ascoltarci l'uno con l'altro”. Non una parola su Hamas e sul suo pregiudiziale rifiuto di accettare la stessa esistenza di Israele. Nessun rilievo, invece, ha dato l'Osservatore Romano alle contemporanee dichiarazioni del capo del governo della Germania, Angela Merkel, secondo cui “è un diritto legittimo di Israele proteggere la propria popolazione civile ed il proprio territorio” e la responsabilità dell'attacco israeliano a Gaza è “chiaramente ed esclusivamente” di Hamas.

    Affermando ciò, il cancelliere tedesco ha rotto il coro di deplorazione che si è levato puntualmente anche questa volta da molte cancellerie – e dal Vaticano – dopo che Israele aveva esercitato con le armi il suo diritto all'autodifesa. In Italia, l'esperto di geopolitica che più ha dato risalto alla presa di posizione di Angela Merkel, sul quotidiano la Stampa, è stato Vittorio E. Parsi, professore di Politica internazionale all'Università Cattolica di Milano e fino a pochi mesi fa commentatore di punta di Avvenire, il giornale della Conferenza episcopale italiana. Su Avvenire, Parsi aveva scritto due anni fa, all'epoca della guerra in Libano, un editoriale dal titolo “Le ragioni di Israele”, nel quale diceva: “L'amara realtà è che, nella regione mediorientale, la presenza di Israele è ritenuta ‘provvisoria', e la garanzia della sopravvivenza dello stato ebraico è riposta – per quanto sia amaro dirlo – nella sua superiorità militare”.

    Il problema è che la “provvisorietà” dello stato di Israele è pensiero condiviso da una parte significativa della chiesa cattolica. Ed è questo pensiero a influire sulla politica vaticana nel vicino oriente, a bloccarla su vecchie opzioni prive di efficacia e a impedirle di afferrare le novità che pur sono divenute evidenti in questi giorni, tra le quali la crescente, fortissima avversione ad Hamas dei principali regimi arabi e degli stessi palestinesi dei Territori, oggettivamente più vicini oggi alle ragioni di Israele di quanto non lo sia il Vaticano. Sul concetto della “provvisorietà” di Israele e sul suo influsso nella chiesa cattolica è illuminante un libro-intervista uscito in questi giorni in Italia con il Custode della Terra Santa, il francescano Pierbattista Pizzaballa.

    Padre Pizzaballa, in carica dal 2004, è assieme al nunzio e al patriarca latino di Gerusalemme uno dei più autorevoli rappresentanti della chiesa cattolica in Israele. Ed è anche quello che si esprime con più libertà. Ebbene, premesso che i cristiani in Terra Santa sono oggi solo l'uno per cento della popolazione e sono quasi tutti palestinesi, padre Pizzaballa ricorda che “i cristiani sono stati protagonisti fino a pochi decenni fa delle cosiddette lotte risorgimentali arabe” in Palestina, in Libano, nella Siria. Oggi essi “non contano più nulla, politicamente, nel conflitto israelo-palestinese”, dove hanno molto più peso le componenti islamiste. I cristiani hanno però conservato quel “rifiuto ad accettare Israele” che persiste in una larga parte del mondo arabo.

    Una prova di questo rifiuto, aggiunge Pizzaballa, è stata l'opposizione agli accordi fondamentali e allo scambio di rappresentanze diplomatiche stabiliti nel 1993 tra la Santa Sede e lo stato d'Israele: “Non è stato facile per la chiesa locale accettare la svolta. Il mondo cristiano di Terra Santa è prevalentemente arabo-palestinese, quindi non era così scontato il consenso. E questo rende il gesto della Santa Sede ancor più coraggioso. Ricordo molto bene i problemi che ci furono, le paure, i commenti che non erano affatto entusiastici. Sembrava quasi un tradimento delle ragioni dei palestinesi, perché da parte palestinese si è sempre vista la storia di Israele come la negazione delle proprie ragioni”. E ancora: “Nel febbraio 2000 c'è stato l'accordo della Santa Sede anche con l'Autorità palestinese, che ha un po' calmato quella paura”. Ma un'idea di fondo è rimasta: “Quando si dice che se Israele non ci fosse non ci sarebbero tutti questi problemi, sembra quasi che Israele sia la fonte di tutti i mali del medio oriente. Non credo che sia così. E' un dato di fatto, comunque, che Israele non è ancora stato accettato dalla stragrande maggioranza dei paesi arabi”.

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    Se Israele non ci fosse, o se comunque non agisse come agisce… Va tenuto conto che simili pensieri corrono non soltanto tra i cristiani arabi, ma anche tra esponenti di rilievo della chiesa cattolica che vivono fuori della Terra Santa e a Roma.

    Uno di questi, ad esempio, è il gesuita Samir Khalil Samir, egiziano di nascita, islamologo tra i più ascoltati in Vaticano, che in un suo “decalogo” di due anni fa per la pace in medio oriente ha scritto: “La radice del problema israelo-palestinese non è religiosa né etnica; è puramente politica. Il problema risale alla creazione dello stato d'Israele e alla spartizione della Palestina nel 1948 – a seguito della persecuzione organizzata sistematicamente contro gli ebrei – decisa dalle grandi potenze senza tener conto delle popolazioni presenti in Terra Santa. E' questa la causa reale di tutte le guerre che ne sono seguite. Per porre rimedio a una grave ingiustizia commessa in Europa contro un terzo della popolazione ebrea mondiale, la stessa Europa, appoggiata dalle altre nazioni più potenti, ha deciso e ha commesso una nuova ingiustizia contro la popolazione palestinese, innocente rispetto al martirio degli ebrei”. Detto questo, padre Samir sostiene comunque che l'esistenza di Israele è oggi un dato di fatto che non può essere rifiutato, indipendentemente dal suo peccato d'origine. Ed è questa anche la posizione ufficiale della Santa Sede, da tempo favorevole ai due stati israeliano e palestinese.

    In subordine all'accettazione di Israele, permane tuttavia, in Vaticano, una ulteriore riserva. Non sull'esistenza dello stato, ma sui suoi atti. Tale riserva è espressa nelle forme e nelle occasioni più varie e consiste nel ripetere, ogni volta che scoppia un conflitto, il giudizio che gli arabi sono vittime e gli israeliani oppressori. Anche il terrorismo islamista è ricondotto a questa causa di fondo: “Molti problemi attribuiti oggi quasi esclusivamente alle differenze culturali e religiose trovano la loro origine in innumerevoli ingiustizie economiche e sociali. Ciò è vero anche nella complessa vicenda del popolo palestinese. Nella Striscia di Gaza da decenni la dignità dell'uomo viene calpestata; l'odio e il fondamentalismo omicida trovano alimento”. Ad esprimersi così – ultimo tra le autorità vaticane – è stato il cardinale Renato Martino, presidente del Pontificio consiglio della giustizia e della pace, in un'intervista all'Osservatore Romano del 1° gennaio 2009.  Non una parola sul fatto che Israele si è ritirato da Gaza nell'estate del 2005 e che Hamas vi ha preso il potere con la forza nel giugno del 2007.

    di Sandro Magister

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