Il fascino del marchio palestinese

Redazione

Il marchio palestinese si porta ancora molto, l'usura del tempo e la sua metamorfosi fondamentalista non hanno attenuato la generale simpatia riscossa dalla promozione pubblicitaria dei successori di Arafat. Nella destra estrema, nella sinistra arrabbiata e nel comune giudizio di superficie.

    Il marchio palestinese si porta ancora molto, l'usura del tempo e la sua metamorfosi fondamentalista non hanno attenuato la generale simpatia riscossa dalla promozione pubblicitaria dei successori di Arafat. Nella destra estrema, nella sinistra arrabbiata e nel comune giudizio di superficie indotto dall'utilizzo mediatico di numerose e seducenti foto di giovani donne e bambini palestinesi, pare sopravvivere quel tratto leggendario di lotta per l'emancipazione che ha sempre caratterizzato i socialismi nazionali o panarabi. Con o senza kefiah, quello palestinese rimane un dagherrotipo classico cui attinge con facilità la retorica terzomondista e liberatrice dalle ingiustizie che cadono sugli “ultimi della terra”. La radicalizzazione islamista impressa da Hamas, il fatto che il tradizionale patriottismo mediorientale sia diventato un progetto di guerra all'occidente in nome del califfato globale, viene tutt'al più ascritto alle colpe delle democrazie colonialiste.

    Ovvero accade qualcosa di più estremo. Come un tempo per la rivoluzione khomeinista – incubo oppressivo confuso con un'alba di liberazione anche da tanti attuali segugi del nazislamismo – il sottofondo irrazionale dell'occidente stordito si lascia intrigare dall'estetica guerriera dei talebani, dal fascino primitivo del pastore indoeuropeo islamizzato che vive di nomadismo indomito e implacabile sharia. Dietro queste infatuazioni, c'è un rapporto d'attrazione sottaciuta paragonabile a quello che può intercorrere tra un corpo anemico e una riserva impetuosa di sangue.