Nostre signore di Allah

Redazione

Quando, dopo gli scontri poltici e culturali seguiti alla strage dell'11 settembre, le loro vite sono state messe sotto la lente dei mass-media, erano quasi tutti adolescenti.

di Cristina Giudici e Diana Zuncheddu

    Quando, dopo gli scontri poltici e culturali seguiti alla strage dell'11 settembre, le loro vite sono state messe sotto la lente dei mass-media, erano quasi tutti adolescenti. Immigrati di seconda generazione, nati o cresciuti in Italia. Incastrati dentro categorie sociologiche, definiti un “ponte fra due culture”, una “generazione sospesa fra due mondi”. Erano più che altro smarriti. Ancora indecisi se ribellarsi o meno agli adulti che cercavano di controllare la loro crescita, cercando di inglobarli nelle associazioni dell'islam militante, soffocando ogni loro richiesta di autonomia. O al contrario assecondare il percorso di secolarizzazione intrapreso dai genitori troppo impegnati nella battaglia per la sopravvivenza  per riuscire a dedicarsi alla cura dell'anima e ai segni della via indicata da Maometto. Un enigma, avevamo osservato al Foglio, raccontando le loro vite sospese al confine di una doppia identità marcata da rovelli interiori, tabù sociali, prescrizioni religiose. Poi abbiamo perso le loro tracce, tornate oggi visibili, con la guerra nella Striscia di Gaza, quando le piazze italiane ed europee si sono riempite di giovani musulmani feriti e furiosi. E così ci si interroga nuovamente sulle esistenze dei musulmani di seconda, alcuni di terza generazione.

    Soprattutto se donne, giovani donne, che hanno vissuto spesso appartate, protette dal velo e dalle loro comunità di appartenenza. Cresciute di colpo, dopo l'11 settembre, che le ha obbligate  a fare i conti con la propria identità. Le risposte univoche si trovano raramente, ma nel nostro breve viaggio è emerso che davanti alle immagini della guerra hanno avuto quasi tutte una reazione  compatta, che non dipende sempre dalla religione. Forse perché quel ponte fra le due culture si è logorato e l'integrazione non è stata favorita, sostenuta, dalla società italiana. Oppure perché semplicemente sono cresciute e hanno preso posizione. Ed è infatti quasi paradossale la testimonianza di Heba Bayoumi, egiziana di Reggio Emilia che ha sposato un italiano contro il parere dei suoi genitori, che le dicevano “Vai contro la volontà di Allah”. Heba, che quando ha partecipato al concorso di bellezza Miss Mamma nell'autunno scorso ha suscitato le ire di un imam locale, sognava di entrare nella casa del Grande fratello, ma è stata esclusa e la sua protesta è finita sul sito Web d'informazione minareti.it diretto da Khalid Chaouki. “Mi hanno detto che è stato per via dei miei bambini, che non potevo star troppo lontana dai miei figli, ma poi hanno ammesso che la mia figura di musulmana troppo moderna, avrebbe potuto creare polemiche”. Così moderna e integrata da prendere le difese di Hamas. “Ho iniziato a studiare la storia del conflitto arabo-israeliano e sono arrivata alla conclusione che in Palestina si sta commettendo un genocidio”, ci ha detto. “E' arrivato il momento di scegliere: soffro per miei fratelli, per la Palestina, sono araba e ne vado orgogliosa”. La sua storia assomiglia a quella di tante altre sue coetanee che magari non si spingono a tifare per Hamas, almeno non pubblicamente ma sono frustrate, segnate dalla diffidenza subita e ricambiata, dalla mancata integrazione e ora stanno rivedendo lo stereotipo, sbandierato troppo a lungo, del musulmano moderato. Anche se sarebbe eccessivo dire che una volta cresciuti i giovani che si autodefiniscono con l'acronimo G2 hanno preso una posizione di scontro con il mondo in cui sono nati, vissuti, è ovvio che fra gli effetti collaterali della guerra a Gaza, c'è anche il consolidamento di posizioni estreme, monolitiche. “Ecco perché bisogna spegnere il fuoco, ci si deve comportare da pompieri”, osserva Sumaya Abdel Qader italo-palestinese, 30 anni, due figlie, un curriculum da buona musulmana, una laurea in Biologia, e un'altra in arrivo, in Lingue straniere. E' autrice di un romanzo di successo “Porto il velo, adoro i Queen” (Sonzogno), ma lei avrebbe preferito un titolo provocatorio, “Veline”, per sottolineare le sue riserve su un modello femminile occiddentale. Anche lei ormai è cresciuta, ha lasciato alle spalle l'esperienza associativa dei Giovani musulmani e oggi prende posizione. “Sì, io prendo posizione” ci ha detto lei che è scesa in piazza a manifestare contro la guerra. In questo momento sono con i palestinesi, da non confondere con Hamas però. Sono con un popolo straziato e ingiustamente martoriato. Critico Israele, ma questo non significa essere antisemita o anti Israele”. Su Facebook ha aggiornato così il suo stato: “Sumaya ricorda il passato, vive il presente e lavora per il domani” perché bisogna ricordare per poi perdonare e non buttare via tutto il lavoro fatto, il dialogo fra culture fra religioni, ci racconta lei che ha amici e parenti nella Striscia di Gaza e, guardandosi indietro, ricorda con disagio l'incomprensione dei suoi compagni di scuola verso i precetti della sua fede. Qualcosa però è successo se molte musulmane ci hanno anche raccontato che chi si ribella alle tradizioni, in cerca di libertà occidentali, spesso non trova l'equilibrio e supera un confine invisibile che le porta verso l'emarginazione. Oppure scelgono di essere musulmane, arabe, più che italiane.

    Tante parteciperanno alla manifestazione, domani. Con sfumature diverse. Imane, 24 anni non porta il velo, e ci sarà “perché abbiamo passato più tempo a dare ragione o torto agli uni o agli altri, dimenticando il valore della vita umana”, dice. Noura, un anno di più, indossa  il velo ma anche i jeans e ci sarà, per dare la sua solidarietà “al popolo palestinese che sta morendo, non ad Hamas”. Sagidah (accento sulla prima ‘a') è più giovane, vent'anni appena compiuti e, se le si chiede della sua identità, spiega che il suo sangue è palestinese, i suoi genitori vengono da Gerusalemme “e io voglio la pace, non guerre”. Tante di queste ragazze (romane, italiane, musulmane e anche molto arabe) frequentano l'associazione dei Giovani musulmani italiani. Si ritrovano per convegni, gite o celebrazioni religiose. Uno dei loro luoghi di richiamo è la moschea Al-Huda di Centocelle, dove si organizzano corsi di italiano, di cultura araba, e dove si prega cinque volte al giorno tutti i giorni, affluenza maggiore nel fine settimana, (alla moschea bella ed enorme, dietro i Parioli, si va solo per le feste).

    Domani il centro Al-Huda (“Significa tutto ciò che è bene”, spiega una donna  che frequenta la moschea) si prevede semivuoto: tantissimi andranno a manifestare. Anche tante musulmane, che non si erano viste chine in preghiera davanti alle piazze di Milano o Bologna, dopo le manifestazioni di due settimane fa. Perché? “Forse hanno preferito evitare di chinarsi lì, sotto gli occhi di fotografi e telecamere”, spiega Noura, responsabile a Roma dei Giovani musulmani italiani (GMI). “Fare i movimenti della preghiera può essere provocante, per una donna. Infatti noi ragazze dobbiamo pregare dietro di loro”. Niente di programmato, quindi, in quell'occupazione di suolo pubblico  davanti a cattedrali e stazioni; non un gesto di sfida né una mancanza di rispetto verso un'altra religione (cattolica). “La terra è di Dio, Dio ha detto: ‘Pregate dove capita'. Poi si invita il fedele alla preghiera collettiva, si vede che si sono trovati lì e hanno pregato”. Questo è successo secondo Zaynab, nata in Marocco ventuno anni fa, tre sorelle e due fratelli, futuro immaginato in ambito sociale, “con bambini, donne, magari anche palestinesi”. Ammette di non sapere esattamente come sia iniziata la guerra, ma “alla fine muoiono bambini: sono sempre i miei fratelli”, osserva. Se le capitasse, pregherebbe davanti a una chiesa cattolica e anche dentro, “è un luogo sacro”. Sulla sua identità si dice confusa, e – come altre – racconta di aver riscoperto l'islam da adulta. “Prima non pregavo, uscivo con altri ragazzi arabi non praticanti, che fumavano. Ero fuori strada”. Ora prega, anche se non in moschea, si sente italiana e musulmana ed esclude che il suo sposo (quando lo avrà) possa un giorno vivere con altre tre donne, come è concesso dalla sua religione. “Mio marito starà solo con me”.

    Sagidah diversamente da Zaynab frequenta la moschea, quella di Centocelle, che è uno scantinato ridipinto di blu. Con piantine e vasi ai lati (su uno piccolo, ideogrammi cinesi). Due strisce di tappeto all'esterno segnano il luogo in cui togliersi le scarpe, e una porticina a destra dove c'è entrata delle donne”, indica un foglio bianco sotto la cancellata di stelle e ghirigori in ferro (l'unica cosa che può sembrare vagamente araba e magari nemmeno lo è). Il quartiere è nella periferia sud di Roma, palazzoni ingentiliti solo dal nome delle vie: “Delle Azalee”, “Platani”, “Frassini”. “Esteticamente non è bella – dice Imane, studentessa di economia alla Sapienza, in Italia da quando aveva tredici anni. “In Italia mancano luoghi di culto che potrebbero svolgere anche una funzione culturale”. Marocchina di nascita Imane prega in camera sua, “anche se non sono ancora arrivata a farlo cinque volte al giorno”. Partecipa ai convegni sulla teologia islamica (organizzati su minareti.it, portale del mondo arabo italiano). Dice che forse la cultura del Marocco non le “appartiene più”, condanna chi ha bruciato le bandiere di Israele, definisce “criticabile il momento e la situazione delle preghiera dopo una manifestazione politica. Meglio farla assieme ai nostri amici ebrei e cristiani e pregare per gli innocenti”. Impegnata sullo studio della finanza islamica, si sente “integrata a livello umano, non in quello burocratico, visto che per avere il visto ci vuole un anno e mezzo e dopo due mesi che ce l'hai scade”. Andrà alla manifestazione, anche perché “se le persone si sono affidate a Hamas, sono all'ultima spiaggia”. Ha le idee chiarissime: separare sempre religione e politica, e bravi i suoi amici dei Giovani musulmani che hanno cercato di impedire ai manifestanti di Milano di bruciare la bandiera di Israele. E' teologicamente all'avanguardia, se sostiene che alcuni precetti della sua religione andrebbero contestualizzati. “Purtroppo, non solo in Italia ma nel mondo l'idea di proporre una nuova ermeneutica del Corano non è la posizione prevalente”.
    Sagidah ha idee più confuse, come altre italiane appena ventenni. “Sono palestinese e poi italiana. Mia madre mi corregge, dice che sono prima italiana e poi palestinese, perché sono nata qui”. Va a pregare in moschea il sabato, gli altri giorni è in università (studia lettere e filosofia). Vive la guerra come una catastrofe umanitaria, ammette che Hamas ha lanciato i razzi ma “isolare la popolazione palestinese era già un altro modo di farle guerra”. Mischia religione e politica in un garbuglio di idee già sentito. “Il popolo palestinese ha da sempre lottato per la sua terra, senza arrendersi mai. Dio è vicino a loro”. La si potrebbe classificare come una musulmana quasi intransigente.

    “Queste definizioni non hanno senso: c'è un unico islam, quello nato millequattrocento anni fa”, è l'opinione di Noura, nata a Casablanca ma italiana da dodici anni. E' sposata con un ragazzo somalo e si trasferirà presto in Kenya, dove lui ora lavora, a mettere a frutto i suoi studi in Economia della cooperazione. Secondo lei le diversità di pratica religiosa che si vedono in Arabia o Pakistan, Iran o Indonesia, dipendono da “gente che strumentalizza la religione. L'islam dice che ‘non c'è costrizione', nessuno può giudicarti, non sei obbligata a portare il velo, ognuno è libero di praticare o no, e nel modo in cui crede”. Accetterebbe la poligamia di suo? Accetterebbe che fosse lui a decidere, perché ‘…tuttavia gli uomini sono un gradino più in alto (della donna, ndr)' (Corano II, 228)? “Per fortuna mio marito è cresciuto in Italia come me, è praticante per sua scelta, e non è lui che comanda. In Italia, almeno, non succede. Forse nei paesi arabi. E' un problema di cultura, più che di religione”.

    di Cristina Giudici e Diana Zuncheddu