Il mondo senza poli

Redazione

"Finora la politica estera di Obama sembra quella di Bush senior: realista e meno ambiziosa, che punta ad attenuare le controversie. Se l'Iran continuerà con il suo braccio di ferro sul nucleare la pagherà  cara. E Israele e Stati Uniti potrebbero decidere un attacco preventivo. Abu Mazen non è abbastanza forte politicamente e non si sa che cosa voglia il nuovo governo israeliano. La differenza con Sadat e Begin è enorme".

di Olivier Guez

    Intervistiamo il diplomatico Richard Haass, presidente del think tank newyorkese Council on Foreign Relations. Ha lavorato come assistente speciale e consulente nelle Amministrazioni di Bush senior e di George W. Bush.

    Barack Obama ha da poco concluso i suoi primi cento giorni di presidenza. Come giudica il suo debutto in politica estera?
    Intravedo già qualche grande linea della diplomazia “obamiana”, anche se il nuovo presidente non ha ancora affrontato grandi crisi diplomatiche. Obama è un partigiano del multilateralismo, della diplomazia nel senso tradizionale del termine, ed è pragmatico. La sua politica estera riprende alcune delle grandi tradizioni della diplomazia americana: attenuare le controversie, trovare compromessi attraverso la diplomazia, tentare di adeguare la politica estera degli altri governi invece di voler trasformare la loro natura fondamentale. Ad oggi, direi che la sua politica estera riprende quella di George Bush padre.

    In che misura, lei che è stato special assistant di Bush senior lungo tutto il suo mandato, dal 1989 al 1993?
    La politica estera di suo figlio, George W. Bush, si collocava sulla linea di quella di Woodrow Wilson: aveva come obiettivo, come missione, direi, di sovvertire l'ordine politico degli altri paesi. La politica estera di Obama invece non si fonda sulla promozione della democrazia: è più realista, come lo era quella di Bush senior. E' leggermente meno ambiziosa, più allineata con la situazione internazionale ereditata, in cui gli Stati Uniti sono militarmente sparpagliati, in Iraq e in Afganistan, ed economicamente indeboliti dalla crisi.

    La situazione geopolitica in America oggi sembra paradossale. Da un lato, da decenni non sembrava così debole; dall'altro, le attese nei confronti del suo presidente non sono mai state così alte.
    Innanzi tutto l'America non è mai stata così forte come alcuni credevano o temevano, né è tanto indebolita dalla crisi quanto si vuol credere. Il nostro pil è sempre di 14 miliardi di dollari circa e rappresenta ancora grosso modo un quarto della ricchezza mondiale. Il dollaro continua a essere la moneta di riserva internazionale, gli Stati Uniti rimangono il mercato di riferimento anche se l'economia è in discesa. Le nostre forze strutturali non sono scomparse d'un colpo, e tanto meno la nostra capacità e la nostra tradizione nell'innovazione. Questo paese si riprenderà, guarirà, ne sono certo. Il programma di rilancio di Obama finirà per portare i suoi frutti, da qui al termine dell'anno o all'inizio dell'anno prossimo. Ciononostante rimane una grande incognita: quando si manifesterà l'inflazione? Speriamo che non torni troppo presto, altrimenti ci attende un'altra catastrofe: il ritorno della stagflazione degli anni Settanta.

    In queste circostanze, come cambierà la collocazione degli Stati Uniti nell'ordine internazionale? Le posizioni di Iran, Russia e Venezuela sono state notevolmente indebolite dalla crisi, certamente più dell'America.
    Questi tre paesi hanno economie pressoché unidimensionali, molto vulnerabili. Venezuela e Iran soffrono terribilmente per la caduta del prezzo delle materie prime. Ma come per il vicino Iran, la caduta dei prezzi energetici avrà ripercussioni terribili in Iraq. All'inizio del 2010 avrà una recessione molto grave. La crisi ci riserva altre sorprese sgradevoli: tensioni sociali sempre più numerose, un rischio di protezionismo sempre più elevato che renderà i negoziati commerciali ancora più ardui, se non impossibili, per il Wto. Le conseguenze di questa crisi sono negative anche per gli Stati Uniti e, di conseguenza, per il resto del mondo, in particolare per India e Cina. Le loro esportazioni rallenteranno, l'accesso al capitale straniero si prosciugherà. Una delle caratteristiche del mondo globalizzato è che ormai prosperiamo e decliniamo tutti insieme.

    In un articolo fondante pubblicato l'anno scorso su Foreign Affairs, lei sviluppava la nozione di mondo “apolare”. Che cosa intende con quest'espressione?
    Viviamo in un'epoca in cui il potere, in tutte le sue forme, sta nelle mani di numerosi stati, ma anche di soggetti non statali. E' la grande differenza con il mondo unipolare dell'immediato dopo Guerra fredda, bipolare della Guerra fredda e multipolare del XIX secolo. Oggi viviamo ormai nell'epoca del G20. Il numero di governi che contano è alto e a loro vanno aggiunti l'Fmi, il Wto, le più grandi fondazioni private, le istituzioni finanziare e le multinazionali, senza contare le organizzazioni terroristiche e le Ong… Nel nascente XXI secolo, un mondo composto da tanti poli che pesano sugli affari internazionali è diventato, ai miei occhi, un mondo “apolare”.

    Nell'articolo, lei cita Hedley Bull, il famoso teorico della scuola britannica delle relazioni internazionali, che spiegava che la politica internazionale era sempre un “miscuglio di anarchia e di società”. Di quali risorse dispongono gli Stati Uniti perché il mondo apolare giunga ad assomigliare più a una società civilizzata che all'anarchia?
    In tutti i periodi storici ci sono tensioni tra le forze dell'ordine e del forze del disordine, tra quelle che uniscono il mondo e quelle che seminano il caos. Oggi, nella misura in cui un gran numero di soggetti influisce sulle questioni internazionali, la capacità delle “forze dell'ordine” di organizzare il buon funzionamento del mondo è più debole. Il compito è più complicato che in passato: ai negoziati del Wto partecipano 190 nazioni! Anche l'assemblea generale dell'Onu è obsoleta. E' necessario costruire gruppi più piccoli, o ad hoc, o affidarsi a organizzazioni permanenti, ma dalle dimensioni più ridotte, decise ad agire e in grado di farlo.

    Come “l'Europa à la carte”?
    Esattamente. Questa configurazione esiste ormai in seno all'Unione europea e alla Nato. Non è certo una panacea, ma nel nostro mondo apolare è ancora la migliore impostazione di cui disponiamo. Non possiamo permetterci il lusso di aspettare che tutto il pianeta si mobilizzi come un sol uomo. Oggi, gli Stati Uniti sono sempre la prima potenza e la nostra influenza è la più forte. Ma è soltanto influenza! Non possiamo agire da soli, non possiamo comandare! Abbiamo bisogno di altri paesi e Ong per raggiungere i nostri obiettivi. Credo che Obama e la sua Amministrazione seguano questa impostazione nelle questioni internazionali. Sono consapevoli dei limiti della potenza americana quando agisce sola. Deve trovare degli alleati se vuole arginare la crisi economica, risolvere i problemi climatici, costringere la Corea del nord e l'Iran ad abbandonare i programmi nucleari o rendere stabile il Pakistan.

    Gli Stati Uniti hanno pericolosamente esteso la loro linea difensiva in Iraq e in Afghanistan. Il Pakistan sembra in uno stato di decomposizione avanzata. L'Iran prosegue con il suo programma nucleare. La Corea del nord effettua test missilistici. Se scoppiassero contemporaneamente nuove crisi, l'America non rischia di trovarsi incapace di reagire?
    Lei ha descritto il lato oscuro del mondo apolare: sfide e crisi multiformi, le une legate alle altre, che implicano l'intervento di un gran numero di soggetti, alcuni dei quali incontrollabili. E per tutti questi problemi, le soluzioni non saranno né militari né unilaterali da parte statunitense. Prendiamo il Pakistan, che rappresenta la principale sfida per la comunità internazionale: un paese di 173 milioni di abitanti, con una sessantina di testate nucleari, che ospita il quartier generale delle organizzazioni terroristiche più pericolose del mondo e il cui governo è diviso e incapace di imporre la propria autorità. Se crolla il Pakistan sarà un incubo per tutto il pianeta. Ma gli Stati Uniti non possono impedire il crollo con un intervento militare. In compenso, Washington, con il sostegno degli alleati, dispone ancora di alcune opzioni: impegnare i servizi di sicurezza, le forze militari e paramilitari pachistane; incoraggiare se non spingere la classe politica a intervenire nelle province ribelli e a migliorare i servizi pubblici; accordare agevolazioni commerciali e garantire al paese prestiti del Fmi; favorire la distensione dei rapporti con l'India; esortare i militari a rimanere nelle caserme per lasciare che si svolga il gioco democratico… Se queste politiche falliranno, se il Pakistan crollerà, gli Stati Uniti dovranno badare ai propri interessi fondamentali: la lotta contro i gruppi terroristici e la protezione dell'arsenale nucleare. Gli Stati Uniti non occuperanno il paese, è impossibile. La talebanizzazione del Pakistan è in corso, ma non è ancora irreversibile.

    Quale sarebbe il punto di non ritorno?
    Il crollo del governo civile. Se succedesse, e se le grandi città si incendiassero a causa dell'agitazione dei talebani, potrebbe intervenire l'esercito pachistano, guidato dal generale Kayani. E' una possibilità plausibile, che gli Stati Uniti e il resto del mondo accetterebbero, in mancanza di un un'alternativa migliore e per un periodo limitato, ovvero per il tempo necessario a ricomporre la scena politica pachistana. In passato è successo in Turchia: non sarebbe particolarmente desiderabile, ma sarebbe meno peggio che l'ascesa al potere dei talebani.

    Lei è di ritorno dal medio oriente e lavora da anni sul conflitto israelo-palestinese. Recenti sondaggi indicano che la maggioranza dei palestinesi e degli israeliani è sempre favorevole a una soluzione negoziale del conflitto. Ha avuto la stessa sensazione sul posto?
    Non lo si sente nel quotidiano. Questi sondaggi rilevano soltanto una disposizione generale della popolazione, ma non indicano un impegno politico a favore della pace. Nella maggior parte delle società, l'attivismo si colloca soprattutto agli estremi dello spettro politico; le preferenze generali delle popolazioni sono fragili perché non possiedono l'intensità di quelle degli attivisti politici. La nozione d'intensità è fondamentale: i radicali fomentano, agiscono politicamente, e i sondaggi non registrano le loro azioni.

    Durante la guerra a Gaza, all'inizio dell'anno, alcuni sondaggi mostravano che Israele era sempre meno popolare negli Stati Uniti. Che cosa ne pensa?
    Non penso che le cose stiano così. Piuttosto, ho l'impressione che gli americani parlino meno del conflitto rispetto a qualche anno fa. Da cinque anni a questa parte, sono più preoccupati dalla guerra in Iraq, data la presenza delle nostre truppe. E a mio parere nei prossimi cinque si interesseranno di più all'Afghanistan, al Pakistan e all'Iran che non a israeliani e palestinesi. Il conflitto ormai ha meno importanza nel dibattito pubblico rispetto a qualche anno fa: dura da talmente tanto…

    Sinceramente, non ha l'impressione che l'immagine di Israele sia stata rovinata dalla guerra o dall'elezione di Netanyahu e dalla reputazione scomoda di Avigor Liebermann, il nuovo ministro degli Esteri?
    Gli americani aspettano di vedere cosa succederà. Il sostegno a Israele è una costante in America, e dipende relativamente poco dai governi al potere nel paese. Questa simpatia è più forte dell'eventuale antipatia che può derivare da questo o quel ministro in un determinato momento.

    Hamas è diventato un protagonista imprescindibile nella scena politica palestinese. Gli Stati Uniti devono trattare con il movimento islamista?
    Non formulerei la domanda in questo modo. Per gli Stati Uniti, la cosa migliore da fare è non elaborare una strategia rivolta ad Hamas ma disporre di una strategia globale per il medio oriente. Dobbiamo trovare la formula che conforti i moderati palestinesi, che permetta loro di convincere qualche sostenitore di Hamas che possono garantire un governo migliore e un avvenire politico più promettente rispetto ai radicali. A noi spetta dimostrare ai palestinesi che la ponderazione, e non la violenza o il radicalismo, è l'opzione migliore, l'unica che può permettere loro di raggiungere quanto desiderano. Il presidente Obama dovrà convincerli rapidamente che l'azione degli Stati Uniti è giusta e ragionevole, che protegge contemporaneamente gli interessi vitali d'Israele (la sicurezza, la democrazia, il carattere giudaico dello stato, la prosperità) e i diritti fondamentali dei palestinesi in uno stato vitale. Come priorità, bisogna migliorare le capacità produttive dei palestinesi, le loro infrastrutture, le capacità dei servizi di sicurezza e di polizia, compiti cui si dedicano Tony Blair, inviato speciale dell'Unione europea in medio oriente, e John Mitchell, suo omologo americano. Altrimenti, non vinceremo mai i palestinesi alla causa della pace. Mi fa venire in mente il processo di pace in Irlanda del nord: bisogna tenere una rotta politica promettente e contemporaneamente mostrare fermezza sufficiente affinché tutte le parti coinvolte sappiano che non sono possibili scorciatoie tramite la violenza.

    Perché gli Stati Uniti non sono mai riusciti a concludere la pace tra palestinesi e israeliani? Perché le mediazioni americane sono sempre naufragate?
    Qualche anno fa ho scritto un libro sul concetto di maturità in politica estera. Perché un negoziato diplomatico riesca, ci vuole qualcosa di più delle linee generali di un compromesso e più di un processo: è necessaria una leadership molto forte, capace di “vendere” il compromesso alla popolazione. In medio oriente non è mai successo, e qui sta il grande dramma di tutta la regione. Non abbiamo mai avuto leader politici che, nei vari campi simultaneamente, volessero la pace e avessero il coraggio di accollarsi davanti ai propri concittadini i sacrifici che essa avrebbe imposto. Gli israeliani non l'hanno sempre desiderata, ma all'epoca di Rabin sì. Tuttavia, da parte palestinese, Arafat per primo non era maturo. Oggi Abu Mazen, il presidente dell'Autorità palestinese, desidera fare la pace, ma non è abbastanza forte politicamente da convincere il suo popolo e non guida Gaza, e forse nemmeno tutta la Cisgiordania. Quanto agli israeliani, non sappiamo che cosa voglia davvero il loro nuovo governo. E' impressionante il contrasto con le personalità fortissime di Sadat e Begin, che sigillarono la pace tra Israele e Egitto nel 1979, e di Rabin e del re Hussein di Giordania, i due artefici del trattato di pace del 1994.

    Lei ha ricordato la volontà di giungere a un accordo. Ma non può esserci accordo finale senza lo smantellamento degli insediamenti israeliani in Cisgiordania, che invece negli ultimi anni non hanno fatto che aumentare. Ci sarà mai dirigente israeliano che abbia il coraggio di porvi termine?
    Il conflitto è risolvibile solo con la creazione di due stati. E in questo quadro futuro, i principali insediamenti israeliani probabilmente saranno inseriti nello stato ebraico, che a sua volta dovrà indennizzare i palestinesi attraverso la concessione di altri territori e di compensi finanziari. Gli insediamenti selvaggi non fanno altro che complicare la partita, non soltanto per i negoziati con i palestinesi, ma anche sul piano interno a Israele. Ci vorrà molto coraggio per far evacuare gli insediamenti a est della futura frontiera israelo-palestinese. Ma non esistono altre opzioni. Ad oggi, sono abbastanza pessimista rispetto a un serio avanzamento del processo di pace fra israeliani e palestinesi. D'altro canto, i siriani e gli israeliani potrebbero riservarci una bella sorpresa in un futuro prossimo. Il governo siriano mi sembra sufficientemente forte da concludere un accordo di pace con lo stato ebraico. Per Israele, si tratta di un'impresa più facile rispetto alla questione palestinese.

    Perché oggi i siriani dovrebbero firmare finalmente un accordo di pace con gli israeliani? Non è la prima volta, che se ne annuncia l'imminenza, tutt'altro…
    Oggi è molto interessante esplorare la possibilità di un accordo di pace tra siriani e israeliani. Permetterebbe a Israele di essere formalmente in pace con tutti i suoi vicini arabi, ad eccezione del Libano, cosa non da poco. Un accordo porterebbe con sé due vantaggi strategici fondamentali: significherebbe che la collaborazione fra Damasco e Teheran da una parte e tra Damasco e Hezbollah e Hamas dall'altra sarebbe notevolmente indebolita. Sarebbe un considerevole passo avanti per la sicurezza di Israele. Da parte siriana, i vantaggi non sarebbero trascurabili. La Siria recupererebbe l'altopiano del Golan e Bashar el Assad vedrebbe rafforzata la propria legittimità: farebbe meglio di suo padre, alla cui ombra vive da lungo tempo. Sarebbe addirittura un trionfo per lui. D'altronde, la pace con Israele porrebbe definitivamente fine all'isolamento diplomatico ed economico del suo paese e gli permetterebbe di riavvicinarsi a Washington. La pace potrebbe delinearsi a partire da queste basi.

    Ha veramente l'impressione che la Siria vorrebbe allontanarsi dall'orbita dell'Iran? Per avvicinarsi di nuovo all'Iraq?
    Sì, sinceramente. I siriani sono interessati a quello che succede in Iraq. Hanno sempre avuto delle affinità con gli iracheni, i due popoli sono molto vicini. E sono due stati multietnici e confinanti; per di più, le risorse energetiche irachene interessano al massimo grado i siriani. Questi ultimi vogliono allontanarsi dall'Iran, l'epoca di Saddam Hussein è finita, i due partiti baathisti non si affrontano più. Se i siriani rimarranno troppo vicini a Teheran, perderanno la capacità di muoversi e di inserirsi nel mondo arabo, che da sempre è il loro punto di forza.

    Se l'Iran prosegue con il suo programma nucleare, come tutto lascerebbe pensare in questo momento, pensa che gli israeliani potrebbero finire per bombardare gli impianti nucleari?
    Certo! Finora gli iraniani hanno arricchito il loro uranio a un livello molto basso, di pochi punti percentuale, circa tre. A questo livello, non può essere utilizzato per una bomba. E gli iraniani possono sempre sostenere che l'arricchimento avviene ai soli scopi di produzione elettrica. Ma se il paese aumentasse il livello di arricchimento verso il 19 per cento la maschera cadrebbe: a quelle percentuali, è fuor di dubbio che è in atto un tentativo di dotarsi dell'arma nucleare. Se l'Iran giungesse a quel punto, sarebbe certamente possibile un attacco preventivo da parte israeliana. E anche degli Stati Uniti! La comunità internazionale ha segnalato all'Iran di essere pronta a accettare un certo numero di centrifughe per la produzione di uranio lievemente arricchito. Ma penso che non ammetterà che l'Iran giunga ai livelli fatidici. Tutto dipenderà dagli iraniani. Se proseguiranno col loro braccio di ferro, pagheranno un prezzo esorbitante, in termini di sanzioni, potenzialmente sempre più severe. Ma possono anche avviare una nuova tornata negoziale. Le linee generali di un accordo riguarderebbero il livello di arricchimento massimo accettabile per la comunità internazionale, insieme all'impegno iraniano a permettere lo svolgimento di ispezioni pienamente trasparenti. L'Iran ha la fortuna di poter contare su un'Amministrazione americana che farà tutto il possibile per raggiungere un compromesso, nel quadro di un accordo più ampio, con il sostegno di europei, russi e cinesi.

    Tutte le possibilità, dunque, sono ancora aperte. Il pentagono ha dei piani d'attacco?
    Il pentagono ha piani di attacco per tutte le regioni del mondo! Se l'Iran proseguisse sulla rotta attuale, sarebbe stupido da parte nostra non avere piani e sarebbe assurdo che gli iraniani credessero che non ne abbiamo! La nuclearizzazione dell'Iran significa una trasformazione di tutto il medio oriente, un medio oriente seduto su un barile di polvere da sparo, straziato tra due potenze nucleari dichiarate e antagoniste, Israele e l'Iran. In tempi brevi, tutta la regione si darebbe alla corsa alle armi nucleari. I paesi del Golfo, che più d'ogni altra cosa temono le ambizioni egemoniche di Teheran, la Turchia, l'Egitto… senza contare i rischi di proliferazione terroristica… L'Iran non ha ancora raggiunto il punto di rottura. Se lo farà, ci sarà un dibattito intenso in Israele, negli Stati Uniti e in Europa sulla condotta da tenere nei confronti di Teheran. Il mondo è pronto a vivere con un Iran nuclearizzato? Sarebbe uno scenario terribile, latore di ogni sorta di pericolo… I prossimi due anni saranno decisivi: tutto può succedere, compreso il peggio.

    di Olivier Guez