Mai tanti soldi stranieri sono arrivati in Libano per le elezioni

Redazione

E' sui villaggi maroniti e i pendii boscosi del Monte Libano, sulle cittadine greco-ortodosse del nord, è sui tetti rossi delle case di Zahle, “la sposa della Bekaa”, che presto si addenseranno le nuvole di tempesta che da mesi si stanno formando nella regione. E' in terra cristiana che si deciderà il voto parlamentare libanese del 7 giugno.

    Beirut. E' sui villaggi maroniti e i pendii boscosi del Monte Libano, sulle cittadine greco-ortodosse del nord, è sui tetti rossi delle case di Zahle, “la sposa della Bekaa”, che presto si addenseranno le nuvole di tempesta che da mesi si stanno formando nella regione. E' in terra cristiana che si deciderà il voto parlamentare libanese del 7 giugno. Ed è in Libano che s'intensificheranno o si stempereranno nelle urne le tensioni mediorientali.

    Da settimane si è aperta la battaglia elettorale: tribale, chiassosa, colorata. I leader dei partiti, dei clan familiari e religiosi si contendono le telecamere. Le loro facce sorridenti o minacciose ricoprono i muri, il fianco dei palazzi, sono appese ai pali della luce assieme ai simboli dei movimenti, alle bandiere dei gruppi politici. Per i sunniti c'è un solo volto cui fare riferimento, quello di Saad Hariri, giovane figlio dell'ex premier Rafiq, assassinato nel 2005. Tra gli sciiti, la leadership dello sceicco Hassan Nasrallah, guida di Hezbollah, resta senza sfidanti di peso. I cristiani, invece, sono divisi in molti piccoli partiti, spesso territoriali, familiari, legati a feudi e a clan.

    Le debolezze dell'elettorato cristiano si concretizzano da mesi in una lenta fuga. Secondo George Khoury della Caritas libanese, dalla guerra tra Hezbollah e Israele, nel 2006, sarebbero 60 mila i cristiani che hanno lasciato il paese. Fuggono dalla crisi economica, dai segni di un inasprimento del radicalismo islamico, dal timore che il Partito di Dio sciita appoggiato dalla Siria e dall'Iran possa destabilizzare la nazione con le sue armi. La vittoria del campo di Nasrallah alle urne di giugno rischia di inasprire questo esodo (in realtà già iniziato decenni fa, con la guerra civile del 1975-1990), privando il Libano di una minoranza importante – maggioranza in un tempo ormai lontano – simbolo del suo pluralismo ed essenza della sua variegata identità. “Il Libano è sempre stato un esempio di tolleranza, ma ora si sta muovendo verso il modello dell'islamizzazione visto in Iraq e in Egitto”, ha detto il gesuita Samir Khalil Samir, professore di Studi islamici all'Università Saint Joseph di Beirut.

    In scala ridotta ci sono tutte le crisi

    Il voto cristiano è indebolito dalle scelte di campo dei leader della comunità, sparpagliati nei blocchi che si contendono il potere. I nomi delle coalizioni rivali rimandano ad avvenimenti di un passato recente la cui eredità potrebbe rivelarsi la posta in gioco di queste elezioni. Saad Hariri, leader della Corrente del Futuro, sunnita; il druzo Walid Jumblatt, arroccato nel suo maniero sulle montagne dello Chouf; i maroniti di Amin Gemayel, guida del Kataeb, le falangi, che candida il figlio più piccolo, Sami, dopo l'uccisione del maggiore, Pierre; e Samir Geagea, leader delle Forze libanesi. Sono loro la maggioranza del 14 marzo, dal giorno in cui migliaia di persone, nel 2005, scesero in piazza contro l'influenza siriana nel paese, chiedendo il ritiro delle truppe di Damasco, che sarebbe avvenuto dopo pochi giorni. Gli sciiti di Hezbollah e quelli di Amal; il generale maronita Michel Aoun e il suo Free Patriotic Movement; i cristiani armeni del Tashnak con i loro 150 mila elettori: è l'opposizione dell'8 marzo, quando migliaia di manifestanti riempirono la piazza Riad el Solh, nel cuore di Beirut, per dimostrare il proprio sostegno alla Siria.
    La comunità internazionale, gli Stati Uniti in testa, i regimi arabi cosiddetti “moderati” guidati dall'Arabia Saudita, legata alla famiglia Hariri, sostengono la maggioranza. Damasco e Teheran appoggiano l'opposizione del Partito di Dio di Hassan Nasrallah. Le divisioni libanesi riproducono in scala ridotta il più vasto conflitto regionale che da anni si concretizza in forme locali: nella Striscia di Gaza, dove il movimento palestinese Hamas gode del sostegno iraniano e infastidisce il vicino egiziano; al confine sud del Libano, alle porte d'Israele, dove Hezbollah si riarma in silenzio, secondo l'intelligence israeliano e secondo le Nazioni Unite; in Iraq, dove gli attori regionali attendono il ritiro delle forze americane per decidere chi sarà il giocatore più influente nella fragile nazione; a Beirut, nelle urne di giugno.

    “Il Libano fa parte di un confronto regionale più vasto – spiega al Foglio l'editorialista del Daily Star libanese Michael Young – non bisogna soltanto pensare al problema libanese, ma a quello palestinese, iracheno, afghano… Dal punto di vista siro-iraniano, l'elezione libanese è una battaglia da vincere per proteggere Hezbollah e un Libano capace di mettere pressioni su Israele”. Il voto cristiano locale, la preferenza di una minoranza divisa, acquista dunque un significato più vasto. Se il Partito di Dio e i suoi alleati dovessero infatti ottenere la maggioranza, il paese ricadrebbe sotto l'influenza siriana, sbilanciando ancor di più i disequilibri regionali.

    Un primo colpo al blocco del 14 marzo è arrivato in anticipo rispetto all'apertura dei seggi: rivela la profondità delle frizioni regionali. Il tribunale internazionale dell'Aia per la strage dell'ex premier Hariri, istituito a marzo, ha annunciato mercoledì la scarcerazione di quattro generali, in carcere in Libano dal 2005. Jamil al Sayyed, Ali Hajj, Raymonda Azar e Mustafa Hamdan erano direttori dell'intelligence al momento dell'attentato, quando la Siria regnava totalmente sul Libano e sui suoi servizi di sicurezza. Per alcuni, la decisione della Corte potrebbe togliere voti al gruppo di Hariri, “diffondendo l'impressione che la Siria possa evitare d'essere giudicata per l'assassinio e incoraggiata a ricostruire la sua influenza” nel paese, scrive il New York Times.

    Preferenze confessionali e tribali
    Nonostante i blocchi rispecchino i più vasti interessi regionali e al loro interno rappresentino diverse comunità, il voto rimane confessionale, tribale. Per questo, saranno le preferenze dei cristiani, i cui leader sono divisi e sparpagliati nei due grandi movimenti, a dare il segno politico al risultato di queste elezioni. “Si conosce già il risultato del voto nelle regioni a maggioranza sciita e sunnita che fanno riferimento a un unico partito e a un solo leader – spiega al Foglio il vecchio leader del partito Nazional liberale, il maronita Dory Chamoun, figlio di un ex presidente della Repubblica e membro del 14 marzo – è dove ci sono molti cristiani, per esempio nella zona del Monte Libano, che si deciderà il risultato. E' in quelle aree che sarà dato il colore politico al paese. Se i cristiani fossero uniti, avremmo un esito sicuro”.

    La nuova legge elettorale, adottata con l'accordo di Doha che a maggio 2008 ha messo fine agli scontri armati tra i sunniti di Hariri e Hezbollah, accordando il potere di veto all'opposizione, favorisce i cristiani. E' la prima volta dal 1972 che, grazie alla formazione di circoscrizioni più piccole, possono scegliere una cinquantina di deputati su 64. “Il voto cristiano definirà senza dubbio l'equilibrio politico libanese”, assicura Michael Young. Prima le circoscrizioni erano molto più vaste, contenevano una maggioranza di elettori islamici. La legge dava così un vantaggio ai candidati cristiani appoggiati dai musulmani, nella maggior parte dei casi vicini alla Siria.

    A giugno, sarà dunque nelle piccole circoscrizioni cristiane che si deciderà da che parte andrà il paese. “Le tempeste regionali si daranno appuntamento in Libano. E alla fine – dice Chamoun – se dovesse vincere l'alleanza siro-iraniana il paese cadrà sotto influenza straniera; in alternativa, potremmo lavorare a una Repubblica indipendente, capace di muoversi a livello internazionale”.

    A contendersi 128 seggi ci sono 702 candidati: un record per il paese. E non il solo in questa sfida estiva. Sostiene il New York Times che le parlamentari libanesi saranno elezioni costosissime. E lo saranno proprio perché il Libano è il campo di battaglia di uno scontro più vasto e sull'esito del voto investono i poteri regionali. L'Arabia Saudita e gli altri regimi dell'area interessati ai risultati delle parlamentari starebbero immettendo denaro nelle casse dei partiti. “Stiamo mettendo molto – ha detto al giornale americano un consigliere del governo saudita, che rivela l'invio di centinaia di milioni di dollari – Sosteniamo i candidati che corrono contro Hezbollah e faremo sentire pressione all'Iran”. Ahmed al Asaad, sciita, candidato in un gruppo indipendente che si oppone al Partito di Dio conferma: Riad è una “significativa fonte di sostegno”. Si lamenta il patriarca maronita Nasrallah Sfeir, irriducibile oppositore dell'interferenza straniera nel paese: “I soldi avranno un drammatico impatto sul voto”, ha detto in un'intervista, riferendosi apertamente alla Siria.

    Denaro estero, pressioni straniere, l'attenzione dei mass media internazionali e dei governi di mezzo mondo (il segretario di stato, Hillary Clinton, è stato pochi giorni fa a Beirut): nel paese c'è la consapevolezza di essere teatro di un voto che trascende i confini nazionali. L'elezione, ha notato qualche analista, diventa anche un test esistenziale per quell'esperimento pro democratico, appoggiato soprattutto da Stati Uniti e Francia, iniziato nella primavera del 2005 dopo l'assassinio di Rafiq Hariri e concretizzatosi nella nascita di una corrente politica antisiriana, il 14 marzo. “Quello che accadrà in queste elezioni determinerà se la rivoluzione dei cedri, pro democratica, sopravvivrà o se il Libano cadrà ulteriormente sotto la sovranità dell'asse Hezbollah-Siria-Iran”, ha scritto il Wall Street Journal. “Abbiamo già assistito al tentativo di deteriorare l'esperimento del 2005 – dice Michael Young riferendosi soprattutto agli scontri armati tra il Partito di Dio e i sunniti della Corrente del Futuro, nel maggio 2008 – Se il 14 marzo dovesse perdere le elezioni non sarà eliminato dalla scena politica. Le ripercussioni, in caso di insuccesso, saranno pratiche: attraverso nomine all'interno degli apparati di sicurezza sarà più facile per il campo pro siriano proteggersi dalla possibilità di uno stato libanese capace di disarmare Hezbollah”.