La bancarotta è grande

Così il “Bernie Madoff del Libano” ha fregato i risparmi di Hezbollah

Redazione

Si chiama Salah Ezzedine, è un imprenditore libanese con il senso degli affari e qualche amicizia scomoda ma conveniente. In patria è stato per anni un esempio da seguire con fede sincera: la sua rete di società comprende un canale televisivo per bambini – chiamato con il nome del figlio del leader di Hezbollah, ucciso in combattimento contro gli israeliani nel 1997

    Si chiama Salah Ezzedine, è un imprenditore libanese con il senso degli affari e qualche amicizia scomoda ma conveniente. In patria è stato per anni un esempio da seguire con fede sincera: la sua rete di società comprende un canale televisivo per bambini – chiamato con il nome del figlio del leader di Hezbollah, ucciso in combattimento contro gli israeliani nel 1997 – alcune fabbriche di acciaio nell'Europa orientale, una casa editrice famosa per gli opuscoli di Hezbollah e una associazione benefica che organizza viaggi a Medina e alla Mecca. Da un paio di giorni, i giornali di Beirut lo chiamano il “Madoff del Libano” e dicono che ha messo a segno la truffa più grande nella storia del paese. Il paragone è esagerato, ma spiega le dimensioni dello scandalo che scuote il mondo della finanza araba e porta qualche imbarazzo ai leader del Partito di Dio. Bernie Madoff è il finanziere americano condannato a centocinquanta anni di prigione per la rapina del secolo, un guaio da sessanta miliardi di dollari combinato fra i listini della Borsa americana. Secondo gli investigatori della Banca centrale libanese, Ezzedine ha fatto sparire “soltanto” settecento milioni, che in confronto sembrano briciole, ma Beirut non è Wall Street.

    Ezzedine è nato a Tiro, nella parte meridionale del paese
    , è un musulmano sciita molto pio e vicino a Hezbollah, il movimento integralista sostenuto dall'Iran che ha provocato la guerra contro Israele del 2006. Si è consegnato alle forze dell'ordine spontaneamente, dopo aver dichiarato bancarotta. La polizia non permette di sapere come sia arrivato al fallimento, il procuratore generale Said Mirza dice che “ci sarà bisogno di tempo” per capire come siano andate le cose ma intanto apre un fascicolo che parla di frode. I problemi sarebbero cominciati lo scorso anno, quando il prezzo del petrolio ha cominciato a scendere e l'industria pesante è entrata in crisi. Gli impianti metallurgici acquisiti in Europa sono diventati un peso troppo grande per il gruppo, che ha registrato perdite sostanziose. Per coprire il buco, Ezzedine avrebbe rastrellato fondi sui mercati del medio oriente, in particolare in Libano e in Qatar, promettendo tassi d'interesse pari al quaranta per cento. Risarcire i creditori era un'impresa impossibile: ora la polizia deve capire se la bancarotta sia il risultato di una gestione negligente o di una truffa andata male. Le vittime sarebbero migliaia. Gli affari di Ezzedine sono vicini ai precetti della finanza islamica, che impedisce di applicare l'usura, di investire in società che commerciano o producono alcol e prevede formule speciali per la concessione dei mutui. Per questo, i suoi fondi hanno avuto grande successo nelle strade di Dahiyeh, un distretto sciita di Beirut, così come nella valle della Beqaa, al confine con la Siria. Ma i reporter di As Safir, uno dei quotidiani in lingua araba più venduti in Libano, dicono che Ezzedine è soprattutto un banchiere di Hezbollah: anche alla Banca centrale confermano la relazione fra il milionario e un alto funzionario del Partito di Dio, Hussein Hajj Hassan, che si sottrae ai commenti. Ora, per molti membri di Hezbollah “è una catastrofe”.

    Le disavventure di questo tycoon
    mettono in discussione un sistema che sinora ha fornito risultati impensabili. Il mese scorso, il Fondo monetario internazionale ha rivisto al rialzo le proiezioni economiche del Libano, che nel 2009 dovrebbe crescere con un ritmo superiore al quattro per cento: un dato sorprendente, se si pensa che il paese è da anni sull'orlo della guerra civile e non esiste una maggioranza capace di governare con efficacia. Ogni buon liberalista direbbe che è proprio l'assenza della politica a rendere possibili i successi dell'economia. Ma qui c'è di più: da sedici anni la Banca centrale è nelle mani di un uomo forte, Riad Salameh, che ha imposto un controllo marziale sulla finanza e ha protetto il Libano dalla crisi economica scoppiata negli Stati Uniti lo scorso autunno. Nel corso degli anni Novanta ha guidato la razionalizzazione del sistema bancario nazionale, un processo che ha portato alla fusione trenta istituti di credito. L'opera ha fatto salire la fiducia dei risparmiatori e i depositi sono aumentati in pochi mesi del venti per cento. Nel 2006, l'anno dello scontro sanguinoso tra Hezbollah e Israele, Salameh è stato nominato governatore dell'anno: è grazie a lui se la Borsa di Beirut non ha perso colpi nonostante la guerra e se gli investitori stranieri hanno lasciato i loro capitali in questo mercato divenuto all'improvviso troppo rischioso per chiunque. Ora il super banchiere ha un obbiettivo complicato da raggiungere: deve convincere i libanesi che Beirut non è davvero come Wall Street.