Perché riapre l'ambasciata americana in Siria

Redazione

Il corteggiamento dell'Amministrazione Obama alla Siria ha conosciuto fasi alterne nell'ultimo anno, ma ieri c'è stato un passo significativo. L'ultimo ambasciatore americano a Damasco era stato ritirato nel 2005, in segno di protesta contro il coinvolgimento – sospettato e mai provato – del regime siriano nell'uccisione con un'autobomba dell'ex premier libanese Rafiq Hariri nelle strade di Beirut.

    Il corteggiamento dell'Amministrazione Obama alla Siria ha conosciuto fasi alterne nell'ultimo anno, ma ieri c'è stato un passo significativo. L'ultimo ambasciatore americano a Damasco era stato ritirato nel 2005, in segno di protesta contro il coinvolgimento – sospettato e mai provato – del regime siriano nell'uccisione con un'autobomba dell'ex premier libanese Rafiq Hariri nelle strade di Beirut. Ora Washington ha ufficialmente nominato il nuovo ambasciatore, Robert Ford, a cui manca soltanto l'approvazione da parte del Senato per rimettere in moto le piene relazioni diplomatiche. Baffetti, occhiali e collo massiccio, Ford non è una scelta politica, come Christopher Hill, l'ambasciatore americano a Baghdad, che fu nominato l'anno scorso grazie ai buoni uffici di Richard Holbrooke e che finora ha dato di sé prove mediocri.

    Ford parla l'arabo con scioltezza, ha una carriera di 25 anni in medio oriente, è stato anche a Baghdad fino al 2006 e quindi s'è scontato un periodo violentissimo della presenza americana in Iraq, e dopo è stato ambasciatore in Algeria. I commenti anonimi su di lui che trapelano dal dipartimento di stato sono ottimi, per ora nessuno cerca di impallinarlo per colpire Obama: Ford l'arabo ha speso gli anni ad accumulare lodi e non a bruciarsi troppo politicamente. La nomina di un nuovo ambasciatore americano per la Siria era già stata annunciata nel giugno 2009, ma poi l'Amministrazione aveva ritirato tutto, inorridita dal leggere sui giornali siriani l'annuncio trionfale della “capitolazione e dell'ammissione delle proprie colpe da parte di Washington” davanti al regime. Nove mesi dopo, si prova di nuovo e questa volta dovrebbe andare tutto bene, anche se i repubblicani in Senato protestano per la politica di engagement con uno stato ostile.

    La riapertura dell'ambasciata non risolve le due grandi questioni tra America e Siria. Il regime non intende troncare il rapporto di alleanza e subordinazione con l'Iran, dichiarato due giorni fa “dittatura militare” dal segretario di stato Hillary Clinton, e come corollario non intende rinunciare alle relazioni con Hamas e soprattutto con Hezbollah, il movimento di potere sciita in Libano. La Siria li considera entrambi gruppi di resistenza legittima contro Israele, anche se sono sulla lista nera del terrorismo. Mahmoud al Mahbouh, il capo di Hamas incaricato di tenere i collegamenti con i padrini iraniani ucciso in un albergo di Dubai a gennaio da una squadra di sicari, negli ultimi dieci anni non s'era mai spostato da Damasco, dove godeva dell'ospitalità di stato assieme agli altri leader del gruppo palestinese. Anche il comandante delle operazioni militari di Hezbollah, Ihmad Mugniyeh, è stato ucciso in un quartiere di Damasco, dove si muoveva indisturbato (e si credeva al sicuro). La seconda questione tra i due paesi è l'Iraq. Washington accusa i siriani di non ostacolare i terroristi sunniti di al Qaida e i superstiti del partito Baath. Non è più come nel 2005, quando l'ambasciatore americano osservava con orrore dalle finestre antiproiettile dell'ambasciata la fila di volontari arabi sul piazzale davanti, prendere l'autobus per andare in Iraq a combattere contro i soldati della Coalizione. Ma c'è ancora una tolleranza ambigua: Baghdad accusa i siriani di ospitare i capi della cellula che negli ultimi otto mesi ha ucciso in attentati più di quattrocento iracheni.

    Su queste due questioni, prevale il piano dell'Amministrazione americana: ottenere una quiete relativa sugli altri fronti del medio oriente per concentrarsi sul problema Iran. A Beirut s'è raggiunto un accordo di compromesso al governo con Hezbollah e i suoi sponsor siriani, grazie anche al consenso dei sauditi. Il figlio di Hariri è andato persino in visita a Damasco, a suggellare il superamento della morte del padre per mano di sicari che gli osservatori colegano alla Siria. Per l'appeasement con la Siria anche la commissione d'inchiesta delle Nazioni Unite sulla morte di Hariri è stata sacrificata, come domenica ha notato un editoriale del New York Times insolitamente duro. Puntava dritta ai servizi di Damasco, anche con prove fattuali: chiamate di telefonini tra uomini del'intelligence e la squadra di attentatori che aspettava Hariri per premere il bottone. C'è ancora in vigore, però, una serie di sanzioni poco concilianti. La Syrian Air, la compagnia di stato della Siria, vola con soltanto tre aerei, perché non puo acquistare pezzi di ricambio dall'americana Boeing, e ha dovuto pensionare gli altri sedici velivoli. Banche e tutte le importazioni di tecnologia sono pure colpite – a Damasco un telefonino costa tre volte più del normale.