Dossier / Tutto quello che c'è da sapere sulle elezioni inglesi
Che fine farà l'eredità di Blair?
Si sono aperte oggi le urne nel Regno Unito e i candidati premier tornano nelle loro circoscrizioni per votare. I loro strateghi, taccuino alla mano, fanno i conti, si stordiscono di sondaggi, fanno prove di alleanze, non sanno più se il voto tattico sia un'opportunità o una disgrazia.
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Si sono aperte oggi le urne nel Regno Unito e i candidati premier tornano nelle loro circoscrizioni per votare. I loro strateghi, taccuino alla mano, fanno i conti, si stordiscono di sondaggi, fanno prove di alleanze, non sanno più se il voto tattico sia un'opportunità o una disgrazia. Ma tra gli identikit del mitico “swing voter”, l'elettore che oggi uscirà dalla logica tribalista e determinerà l'esito elettorale, è sbucato ieri il mondo esterno (nella fattispecie la Commissione europea) per ricordare all'Inghilterra che il deficit britannico è il più alto di tutta l'Ue – al 12 per cento del pil – più ancora di quello della famigerata Grecia. Che ne sarà allora della leadership del Regno Unito se la sterlina perde valore e il debito s'ingoia la capacità di guida globale del paese? In altre parole, che ne sarà del ruolo dell'Inghilterra dopo il voto di oggi?
Poiché politica estera ed economica non sono mai state tanto legate (non puoi investire in elicotteri da guerra se non hai soldi per pagare i dipendenti pubblici), la risposta è piuttosto vaga: sia il premier laburista, Gordon Brown, sia i suoi avversari – il conservatore David Cameron e il liberaldemocratico Nick Clegg – hanno cercato di tenersi il più possibile alla larga dai dettagli sulla ripresa economica e in generale dal rapporto con il resto del mondo.
Comunque vada oggi il voto, è però facile prevedere una ribellione rispetto all'interventismo umanitario propagandato – e realizzato – dall'ex premier Tony Blair. Per tutti i candidati questo è un punto di discontinuità importante con il passato, visto che la popolarità delle “guerre di Bush e Blair”, come vengono identificati i conflitti in Iraq (da cui le truppe inglesi se ne sono ormai andate) e in Afghanistan, è ormai a zero. Brown ha ovviamente un debito con questa strategia: il premier non è un interventista convinto come il suo predecessore, ma ha più volte difeso, con determinazione ed efficacia, le ragioni della guerra in Afghanistan e il ruolo cruciale di Londra nella lotta al terrorismo internazionale. Nonostante i rapporti non proprio idilliaci con il presidente americano, Barack Obama, Brown è il più atlantista dei candidati inglesi, di certo quello con un'idea di politica estera chiara e già applicata sul campo. Ma, come è noto, le chance di vittoria del premier sono molto basse.
David Cameron, che è il più blairiano dei candidati, crede in realtà nel mantra: “La special relationship con gli Stati Uniti è sempre valida, ma tra i due noi non saremo i cagnolini”. I suoi collaboratori più atlantisti – come Michael Gove, la stella più brillante di questi nuovi conservatori, anche se non ama farsi notare – non possono mettere becco sulle questioni di politica estera (ma neppure quelli più europeisti): Cameron vuole che il prestigio britannico non sia al servizio degli alleati, semmai il contrario, perché si considera un più piccolo ma ben più muscolare interlocutore degli americani di quanto non sia stata l'Inghilterra guidata dai suoi più recenti predecessori.
Come scriveva ieri il commentatore del Daily Beast Tunku Varadarajan, gli americani dovrebbero augurarsi una vittoria dei conservatori, gli unici che manterranno, nonostante la retorica, in equilibrio i rapporti con gli Stati Uniti, considerando che “Obama è il meno atlantista dei presidenti americani dell'era moderna”. Di certo l'alternativa di Nick Clegg non è da preferire. Il leader dei Lib-Dem vuole rivedere le relazioni transatlantiche e valutare l'alleanza di volta in volta. Già nel 2005 il parziale successo dei liberaldemocratici era stato determinato dall'opposizione alla guerra in Iraq. All'antiatlantismo Clegg aggiunge anche un accento polemico nei confronti di Israele, criticato per il suo uso “sproporzionato” della forza nei confronti dei palestinesi. Ma il punto più importante della dottrina di Clegg è la revisione della politica di difesa britannica: meno deterrenza nucleare e più disarmo. Di certo è un tema che piace a Obama, ideologo del disarmo, ma è un colpo alla superpotenza dell'impero britannico.
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