Il balzo verso Kandahar

Perché in Afghanistan (e Iran) è più difficile che in Iraq

Redazione

“Senza la strategia che abbiamo adottato nei confronti della popolazione locale, anche con tutte quelle truppe in più prima del Surge, non avremmo mai battuto la violenza in Iraq: durante il Surge invece, la nostra ‘security blanket' (la copertura) non erano le armi né le barriere ma l'atteggiamento collaborativo della gente irachena. Una volta che hanno capito le nostre vere intenzioni, sono stati proprio loro ad assicurare il successo della nostra strategia”.

    “Senza la strategia che abbiamo adottato nei confronti della popolazione locale, anche con tutte quelle truppe in più prima del Surge, non avremmo mai battuto la violenza in Iraq: durante il Surge invece, la nostra ‘security blanket' (la copertura) non erano le armi né le barriere ma l'atteggiamento collaborativo della gente irachena. Una volta che hanno capito le nostre vere intenzioni, sono stati proprio loro ad assicurare il successo della nostra strategia”. L'ex generale a quattro stelle Jack Keane è l'architetto della strategia vincente in Iraq, quella che ha ridotto del 95 per cento la violenza. “Abbiamo imparato molto dall'esperienza, e adesso stiamo cercando di applicare tutto al teatro di guerra afghano, anche se la natura della counterinsurgency è molto diversa. In Iraq si trattava di un fenomeno soprattutto di città, dove la maggioranza della popolazione è ben istruita e relativamente benestante.

    Adesso stiamo adattando il nostro approccio a una realtà rurale, dove la gente è poco istruita e spesso analfabeta: la sfida per convincere la popolazione è diversa”. “Non credo che ci dobbiamo incastrare con delle precise previsioni di calendario, perché così alimentiamo false aspettative. Per ora abbiamo la metà delle truppe previste per il surge afghano già in campo, mentre l'altra metà ci sarà per fine agosto: in attesa delle elezioni regionali di settembre. Possiamo sperare di vedere dei concreti risultati per l'anno venturo, nel 2011.

    Keane conosce il dilemma italiano.
    Truppe partite con un mandato di peacekeeping si trovano in guerra. Dice al Foglio che “le nazioni che non hanno mandato ‘contact troop' (truppe da prima linea) finora, difficilmente le manderanno d'ora in poi. Ma la strategia del ‘surge' può funzionare alla stessa maniera con le missioni di addestramento e di ricostruzione civile”. “Constatare il lavoro utile compiuto sul campo dai propri soldati dovrebbe rafforzare il sentimento pubblico dell'Italia e aiutare a prevalere sulle reazioni più emotive e negative”.

    Il generale americano parla nella sala del comitato numero 11
    del Parlamento britannico, con splendide vedute sopra il Tamigi, a una platea di esperti di sicurezza. Sul dossier Iran prenucleare dice: “Attaccare l'Iran è l'ultima opzione sul tavolo, che non vorremmo sfruttare. Le difese iraniane sono ottime, le migliori possibili dell'ultima generazione; ma noi siamo più avanti di loro in termini di tecnologia e abbiamo i mezzi per neutralizzare le loro difese, se necessario. E' vero poi che Israele ha adottato in Libano contro Hezbollah una strategia opposta al ‘surge', punendo anche la popolazione civile, ma si trova in una situazione davvero unica, non possiamo dirgli che cosa fare”.

    “Faccio parte di quella generazione di veterani del Vietnam che ancora si ricorda la cultura della counterinsurgency prima che fosse dimenticata in seguito alla sconfitta. Era troppo utile perché fosse dimenticata del tutto, e mi è stata di grande utilità nel costruire le basi strategiche del piano per il ‘surge' assieme a Fred Kagan, studioso di difesa dell American Enterprise Institute. Non lo conoscevo prima: ci sono arrivato tramite Dick Cheney, che frequentavo spesso prima di arrivare a vedermi con il presidente Bush”.