La parabola politica del banchiere che votava alle primarie pd

Redazione

Doveva essere un destino bizzarro a far incagliare sulle secche libiche uno come Alessandro Profumo. Banchiere di stretta osservanza McKinsey, di cui è stato negli anni Ottanta capo dei progetti strategici, e quindi massimo portatore della teoria per cui il management decide, gli azionisti seguono. Anzi, aggiunge qualche maligno, vanno magari ignorati. Teoria però che con il rastrellamento di Unicredit da parte delle banche e dei fondi di Muammar Gheddafi, all'insaputa delle fondazioni italiane e del presidente tedesco Dieter Rampl, lui stesso – che di quel rastrellamento era informato – ha di fatto ribaltato.

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    Doveva essere un destino bizzarro a far incagliare sulle secche libiche uno come Alessandro Profumo. Banchiere di stretta osservanza McKinsey, di cui è stato negli anni Ottanta capo dei progetti strategici, e quindi massimo portatore della teoria per cui il management decide, gli azionisti seguono. Anzi, aggiunge qualche maligno, vanno magari ignorati. Teoria però che con il rastrellamento di Unicredit da parte delle banche e dei fondi di Muammar Gheddafi, all'insaputa delle fondazioni italiane e del presidente tedesco Dieter Rampl, lui stesso – che di quel rastrellamento era informato – ha di fatto ribaltato: “I libici sono buoni investitori, benvenuti in quanto rafforzano la struttura patrimoniale”. E con ciò l'uomo che nel 1994 Romano Prodi all'epoca all'Iri volle al Credito italiano, e del quale nel 1998, ancora Prodi ma questa volta da Palazzo Chigi, benedì la nomina ad amministratore delegato del primo gruppo bancario italiano dicendogli di “portare l'Unicredit in Europa senza guardare in faccia a nessuno, tanto meno all'orticello italiano”, ha di fatto compiuto una perfetta ma paradossale parabola. Confermando e smentendo sia la missione di partenza, sia il soprannome che subito gli era stato affibbiato: Arrogance, un profumo con la p minuscola all'epoca assai pubblicizzato.

    Profumo arrivò, infatti, al vertice del firmamento bancario non solo come uno dei due “gemelli McKinsey” (l'altro è Corrado Passera, che negli stessi anni transita dal gruppo De Benedetti all'Ambroveneto, alle Poste e poi a Intesa), ma anche con l'aura di uomo dei tedeschi: numero uno della Ras, controllata di Allianz. E alla Germania guarda, in effetti, fino a conquistare nel 2005 la Hvb di Monaco di Baviera, seconda banca teutonica dietro la Deutsche. Ma oggi è proprio dall'asse tra il bavarese Rampl e le fondazioni padano-leghiste che gli arriva la minaccia di licenziamento, mentre la “mission” centroeuropea stride con le tende beduine, i datteri e i cavalli berberi di Gheddafi. Sempre per paradosso il banchiere prodiano, che nel 2005 votò alle primarie dell'Unione per designare il Professore quale candidato premier, e nel 2007 andò alle urne di quelle del Pd dove sua moglie, Sabina Ratti, a capo del Corporate Social Responsibility dell'Eni, si era candidata nella lista di Rosy Bindi, e che nel precedente governo Berlusconi aveva gettato nel cestino le dichiarazioni di fuoco di Giulio Tremonti contro le manovre dei grandi soci di Mediobanca per far fuori Vincenzo Maranghi (prima clamorosa smentita della dottrina McKinsey), ora si trova nella situazione di cercare sponde proprio nel ministro dell'Economia e addirittura nel Cav.

    Con Berlusconi il ghiaccio era stato se non rotto, almeno incrinato, nel maggio 2009: appuntamento chiesto e ottenuto a Palazzo Chigi, ufficialmente per parlare del G8 dell'Aquila. Più di recente testimoni autorevoli riferiscono di un colloquio dopo l'esplodere del caso libico, con mediazione di Cesare Geronzi. E tuttavia il premier, per un bel po', gli ha preferito l'altro banchiere ulivista-McKinsey, Passera appunto, che nel 2008 ha dato più di una mano per la cordata Alitalia e poi ha speso parole benevoli sul governo. Ora che, in agosto scorso, sembra aver fatto registrare una brusca riconversione a sinistra dell'ad di Intesa, è Profumo, dicono, a lanciare segnali al governo. I rapporti con Tremonti si sono distesi e le colazioni del lunedì a Milano sono più frequenti. Profumo ha sponsorizzato le Olimpiadi di Roma 2020, sfidando le ire della Lega e facendo un gran favore a Gianni Alemanno. Soprattutto si è mosso per non ostacolare l'ascesa di Geronzi alle Generali. Quindi ha dato il placet alla cessione alle Poste del Mediocredito, già controllata di Capitalia, operazione funzionale al progetto di Banca del sud caro a Tremonti. Quindi la vicenda libica, sotto il segno del Colonnello e del Cav. E ancora con Geronzi pronto a giurare che quando Tripoli era azionista di Capitalia “migliore partner non si poteva avere”.

    L'imbarazzo è tutto a sinistra. Pier Luigi Bersani ha provato a distinguere: “Che ci siano capitali libici dentro l'Unicredit non è male, ciò che non funziona è la politica estera”. Come se le banche di Gheddafi si muovessero sui mercati come la Goldman Sachs. Anche il sindaco di Torino, Sergio Chiamparino, ieri ha detto la sua: “Non mi dà fastidio la presenza dei libici a patto che non mettano in discussione il ruolo di grande banca dell'Unicredit”. Poi Chiamparino, scottato dall'infausta campagna estiva su San Paolo e Intesa, ha annunciato silenzio. C'è chi invece giura che qualche sassolino vorrebbe toglierselo Massimo D'Alema: dopo le critiche dei salotti buoni della finanza – Profumo in testa – all'epoca delle scalate bancarie, l'allora presidente ds ironizzò sul “capitalismo illuminato” che veniva evocato da Profumo: “Che cos'è il capitalismo illuminato, l'Enel?”. Come sempre, comunque, “Arrogance” si era collocato dalla parte giusta, cioè contro gli scalatori – che tra l'altro si interessavano anche al Corriere della Sera, controllato attraverso Mediobanca – e di fatto contro il governatore della Banca d'Italia, Antonio Fazio, loro lord protettore. Nessuna levata di scudi diretta, solo qualche lezione, appunto, sul capitalismo “buono”.

    Ora, dopo avere plaudito all'arrivo in via Nazionale di Mario Draghi (nonché ricordato in varie occasioni che l'Unicredit non adotta la dual governance poco gradita al governatore), è anche a Bankitalia che Profumo deve dare parecchi chiarimenti. Nemesi incredibile: salvatosi dai titoli tossici, rifiutati i Tremonti bond, uscito più o meno senza graffi dalla crisi dei debiti europei, prima tra le banche italiane in base ai parametri di Basilea III, dopo aver fatto tutte le cose giuste e politicamente corrette al momento opportuno, Profumo rischia di finire vittima non di Tremonti, di Standard & Poor's o di un Axel Weber; ma delle scorrettissime intemperanze di Gheddafi.

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