I sauditi allarmati per le rivolte chiedono: ma Obama che fa?
La corte saudita è la più preoccupata di tutta la regione mediorientale. Non soltanto perché teme di doversi aprire alle riforme per evitare rivolte interne, ma anche perché non sa più quanto fidarsi dell'alleato americano. Si guarda intorno e non vede rassicurazioni. Almeno sette morti in Bahrein, cento in Libia, otto in Yemen: le brigate dei regimi hanno iniziato a colpire duro, sul modello dei bassiji di Teheran.
La corte saudita è la più preoccupata di tutta la regione mediorientale. Non soltanto perché teme di doversi aprire alle riforme per evitare rivolte interne, ma anche perché non sa più quanto fidarsi dell'alleato americano. Si guarda intorno e non vede rassicurazioni. Almeno sette morti in Bahrein, cento in Libia, otto in Yemen: le brigate dei regimi hanno iniziato a colpire duro, sul modello dei bassiji di Teheran. E la Repubblica islamica tenta in ogni modo di approfittare del momento per allargare la propria influenza. Due navi da guerra partite da Bandar Abbas sono in viaggio verso il Mediterraneo, via Canale di Suez. Dopo due giorni di smentite, le autorità egiziane hanno dichiarato di avere ricevuto la richiesta di attraversamento. Tecnicamente non possono impedire il passaggio delle imbarcazioni, ma in questo caso non si tratta di container come gli altri. Questa volta sono navi predisposte per la guerra, dirette con ogni probabilità al porto siariano di Tartous. Il ministro degli Esteri israeliano, Avigdor Lieberman ha già detto che “si tratta di una provocazione che non si può ignorare”.
“Gli Stati Uniti condannano l'uso della violenza nei confronti di pacifici dimostranti”, ha commentato venerdì il presidente americano, Barack Obama. Non è abbastanza per rassicurare i sauditi. In Egitto i Fratelli musulmani tentano di tirare la rivoluzione, mentre i sindacati – gli unici che non si sono mai spostati dalla piazza, perché la cacciata dell'ex presidente è soltanto l'inizio, ora bisogna anche mangiare, lavorare, tirare fuori dalla crisi quel 20 per cento di egiziani che vive sotto la soglia della povertà – premono per dare un risvolto economico alla transizione. Quella parola – riforme – risuona alta in tutta la regione, costringendo i regimi se non a scendere a patti con le richieste della piazza, almeno a non ignorarle. Nella “ricca” Libia, il colonnello Muammar Gheddafi era in piazza venerdì con i suoi sostenitori, sfidando direttamente i suoi avversari (che non sono soltanto giovani contagiati dalla primavera araba, sono anche manovratori di palazzo, tanto che l'ipotesi di guerra civile in Libia è più concreta che mai), mentre giravano voci sulla città di Bengasi ormai nelle mani dell'opposizione.
Gli scommettitori inglesi, i più creativi del mondo, puntano su chi sarà il prossimo a cadere (va forte lo Yemen). Ma su chi sia il più preoccupato, al momento, non ci sono dubbi: è il regno saudita. Tutt'a un tratto, re Abdullah, grande tessitore di equilibri nella regione, alleato degli Stati Uniti e azionista numero uno del fronte sunnita che si oppone all'ascesa della Repubblica islamica d'Iran, si è trovato senza il suo alleato storico in Egitto, con la miccia sciita accesa nel vicino Bahrein – basta poco perché il contagio lambisca il territorio saudita, dato che i gruppi sciiti dei due paesi sono molto legati e ben organizzati – e un contagio destabilizzante che coinvolge il Maghreb e tutto il Golfo Persico. Secondo Gulfnews, il sovrano saudita starebbe rientrando a Riad dopo tre mesi di convalescenza e a innervosirlo, oltre agli acciacchi di salute, c'è una domanda senza risposta: che cosa sta facendo l'America?
La telefonata del re Abdullah ad Obama di fine gennaio ha fatto capire che Riad non è convinta che Washington agisca nell'interesse dei suoi alleati nella regione (Laura Rozen, informatissima cronista di Politico, ha scritto che l'ultimo colloquio telefonico tra Obama e l'altro alleato, il premier israeliano Benjamin Netanyahu, risale al 28 gennaio, “un secolo fa, se si pensa a quel che succede in questi giorni”). Obama ha prima assecondato i realisti del Pentagono e del dipartimento di stato che non volevano un rovesciamento repentino del regime di Mubarak, ma poi, quando la piazza ha svelato la sua vera forza, il presidente ha speso parole nuove a favore della democrazia, della piazza, del “regime change”. Secondo alcuni è una svolta definitiva, secondo altri è un aggiustamento dovuto all'evolversi degli eventi, comunque sia è un brutto colpo per i sauditi. Che ora aspettano di vedere – non proprio in silenzio – quel che succederà in Bahrein.
Le notizie sono raccapriccianti: le forze di sicurezza sparano ad altezza volto, anche contro i giornalisti stranieri, il numero dei morti è sempre più impreciso ma in aumento, la repressione pare appena iniziata. Il re Hamad bin Isa al Khalifa è un alleato solido degli Stati Uniti, non da ultimo perché ospita una delle basi americane più grandi e strategiche della zona (quella base è anche fondamentale per i sauditi, perché protegge le installazioni petrolifere del regno, che si trovano nella regione in cui gli sciiti sono più forti). Da Washington sono già arrivate richieste al sovrano per una condanna ferma delle violenze e una dimostrazione di solidarietà; al Khalifa ha parlato al popolo promettendo aperture, ma gli scontri non si sono placati. I dispacci che trapelano ora parlano di una war room permanente a Palazzo reale in cui si è discussa anche l'ipotesi di un raid aereo.
Il re saudita Abdullah non può nemmeno pensare all'idea che crolli il regno del Bahrein, e in assenza di un piano B si augura che anche Obama non voglia applicare la sua nuova ricetta al suo piccolo vicino. Ma non ha più certezze. Da quando è iniziata la primavera araba, Riad ha perso il suo alleato egiziano, sente la minaccia sciita, vede frantumarsi ogni parvenza di pacificazione (con supervisione saudita, s'intende) tra i palestinesi a Gaza e in Cisgiordania, vede le navi da guerra iraniane mentre si rafforza la presa di Hezbollah in Libano, e potrebbe dover aprirsi alle riforme, destino inevitabile secondo il principe Faisal (un cosiddetto riformista). E la protezione americana? Molto incerta. Alla Repubblica islamica d'Iran, invece, pare che tutto vada bene: la sua piazza ancora non fa paura, le sue cellule nella regione ampliano il loro potere e l'America sbraita, ma non abbastanza.
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