Tutti gli interventi dei lettori sulla scuola
Purtroppo, pur nella più trita retorica che lo distingue, il PresDelCons ha ragione: la scuola pubblica italiana non è messa per niente bene. Il livello più scandaloso è, secondo la mia esperienza, quello toccato dalle medie superiori; ho frequentato un importante Liceo scientifico di Cagliari ed ho avuto la fortuna di avere dei buoni insegnanti (almeno alcuni, ma altre classi, la maggior parte, si trovavano (e si trovano) in condizioni terribili dal punto di vista didattico a causa di professori svogliati fino all'incredibile ed a volte persino del tutto impreparati.
Purtroppo, pur nella più trita retorica che lo distingue, il PresDelCons ha ragione: la scuola pubblica italiana non è messa per niente bene. Il livello più scandaloso è, secondo la mia esperienza, quello toccato dalle medie superiori; ho frequentato un importante Liceo scientifico di Cagliari ed ho avuto la fortuna di avere dei buoni insegnanti (almeno alcuni, ma altre classi, la maggior parte, si trovavano (e si trovano) in condizioni terribili dal punto di vista didattico a causa di professori svogliati fino all'incredibile ed a volte persino del tutto impreparati. LA questione peggiore riguarda però il tasso di ideologizzazione del corpo docenti: esempare è da questo punto di vista il caso di un mio professore (storia e filosofia) che durante le elezioni regionali 2009 chiese alla classe di votare un certo candidato (il Presidente uscente del PD Renato Soru) facendo pesanti allusioni sui rapporti con la malavita del candidato di centrodestra,
o la volta che sostenne che Berlusconi aveva truccato le elezioni (perse) del 2006, molto più sconcertante fu quando, in una nostra conversazione, definì <
Ennio Emanuele Piano
Nella scuola ci sono bravi insegnanti, insegnanti mediocri e
insegnanti pessimi: un bravo insegnante non indottrina ma insegna o, meglio, cerca di fornire agli studenti dei metodi di apprendimento che, concretamente, vengono applicati alle conoscenze. L'indottrinamento o, meglio, l'insegnamento acritico è condotto da insegnanti, mediocri o pessimi, che non sanno marcare un confine fra le proprie legittime idee e quella pluralità di idee, punti di vista e approcci che è necessario presentare agli studenti, affinché essi possano autonamamente formarsi. La domanda da farsi è questa, allora: quanti bravi insegnanti ci sono nella scuola? Secondo me non tantissimi, per vari motivi, che vanno dallo scarso stimolo economico e prestigio che ha l'insegnamento oggi, al fatto che molti finiscono ad insegnare come ripiego, o lo fanno come secondo o terzo lavoro.
Se non si scioglie il nodo di come si formano i nuovi insegnanti e,
più in generale, come si riforma la scuola in modo coerente, dagli
asili di infanzia all'università, parlare di una scuola pubblica
indottrinata e contrapporla alla scuola privata libera significa fare
solo chiacchiere in libertà. In quest'ottica si comprende anche che un insegnante motivato non può restare passivo davanti al progredire delle tecnologie dell'informazione: deve avere la capacità di aggiornarsi e gestire nuovi modelli di apprendimento, inserendoli su uno zoccolo duro di competenze di base. Solo così puo' mantenere la sua autorità e, anzi, stimolare gli studenti ad una ricerca critica delle informazini da media globali. Non e' una cosa facile, ma chi pensa che insegnare sia una cosa facile, da fare senza una personale vocazione, non ha capito alcunché dell'insegnamento.
Matteo Luca Ruggiero
A mia figlia che frequenta la seconda media, il professore di musica le ha detto che Berlusconi è amico di Gheddafi.Quando me lo ha raccontato alla sera non ci volevo credere. Cosa centra questo con l'insegnamento della materia Musica?
Questa è la scuola italiana, senza contare le volte che a scuola viene detto che se mancano i soldi è solo colpa della Gelmini.
Libera scuola in libero stato, questo vorrei per i miei figli.
Davide Zanoncelli, Milano.
Premessa: io sono battezzato, confessato, ho fatto l'eucarestia, la cresima e mi sono sposato davanti a Dio ma credo fortemente che la laicità dell'istruzione pubblica vada coltivata per garantire a chiunque il diritto liberale di credere e perseguire la propria fede o ideologia e per evitare che la politica ne faccia una battaglia di scopi, strumentalizzando le masse.
A chi mi chiede che Cristiano sono rispondo che sono un Cristiano per cultura e che la cultura deve essere parte integrante della nostra identità e come tale va protetta e tramandata, per questo mando i miei figli a fare catechismo, perchè possano essere testimoni a 360° della nostra cultura e perchè possano decidere "conoscendo".
Non chiedetemi se Dio esiste, non lo so e non chiedetemi di fare paragoni fra il mio Dio e quello di altri perchè se esiste un Dio, ossia un essere al di sopra di tutto non può essere che uno solo ed uguale per tutti.
Non escludo che un giorno scoprirò la fede come non escludo che questo giorno non arriverà, quello in cui credo è il presente e quello in cui spero è un futuro in cui la nostra testimonianza ci possa rendere più liberi dagli stereotipi.
Quello che voglio insegnare ai mie figli è il rispetto nelle scelte personali secondo coscienza e secondo le proprie necessità, la capacità di portare avanti le proprie convinzioni nel rispetto delle convinzioni altrui. Quello che desidero è che imparino a non giudicare la morale ma allo stesso tempo che siano severi con loro stessi rispettando i costumi e l'etica.
Alla domanda:
-E' vero che la scuola statale è “influenzata da deleterie ideologie”, che l'insegnamento è conformista, ai limiti dell'indottrinamento? O può essere libero e sviluppare comunque negli studenti un apprendimento consapevole e critico?
Risposta:
Io credo che non sia vero che la scuola influenzi le ideologie in “todos” in Italia, dimostrazione del fatto è che l'Italia è divisa in 2, metà Italiani votano a destra e metà a sinistra, che poi ci siano casi di demagogia da parte degli insegnanti nei confronti degli studenti questo è vero anche se i dati stessi sulle preferenze di voto dimostrano che sono un esigua quantità.
Credo che la scuola al giorno d'oggi sappia sviluppare negli atteggiamenti degli studenti un valore critico e costruttivo mentre il problema spesso avviene fra le mura domestiche dove i genitori spesso assenti o troppo egoisti non si prendono il tempo per dialogare di morale ed etica con i figli.
Alla domanda:
-E' vero che gli insegnanti hanno perso gran parte della loro autorità anche a causa del pluralismo educativo confuso, di genitori che li attaccano o denunciano, dell'enorme quantità di informazioni e nozioni che ormai gli studenti possono apprendere da Internet e altri media?
Risposta:
L'unico vero problema sulla perdita da parte degli insegnati della loro autorità sta nel fatto che i genitori non curano l'educazione dei figli ed il rispetto che gli stessi dovrebbero avere nei confronti delle istituzioni, le quali peraltro si sono rovinate la reputazione avendo spesso scelto di fare opinione al posto di cultura e formazione.
Valerio Zanghellini, Trento
Sono per la libertà scolastica: lo stato faccia le sue scuole, ed i privati le loro.
Io preferisco la scuola pubblica, con tutti i suoi limiti e difetti. Non mi piace l'omologazione, neanche con quelli che la pensano come me. I miei figli - così come me e mia moglie - hanno sempre frequentato asili, scuole e università pubbliche, che ho scelto tra le più severe e qualificate.
E' stupido farne una questione ideologica, e il Cav. ha perso una occasione per tacere. E' Presidente del Consiglio, praticamente da dieci anni, la scuola dipende da un suo ministro; se non funziona, ha serie responsabilità. Parlarne male, al di là delle forzature, è un autogol e una ammissione di fallimento. Cosa ha fatto per migliorare le cose?
Vengo ai temi lanciati:
- le ideologie, dovremmo essercene accorti dopo una guerra mondiale quel che è seguito, sono deleterie by definition, anche quelle eventualmente dispensate nelle scuole private o confessionali. Ci sono - è vero - insegnati orientati a sinistra, anche nella scuola privata, ed anche tra i cattolici. Io ne ho avuti tanti, ma voto a destra (se lo merita), se no, non voto.
Cosa ha fatto il Cav. per guadagnare consenso tra i docenti ? Insiste su luoghi comuni stupidi e dannosi: ha poco da lamentarsi. Il consenso nelle categorie sociali più evolute si costruisce negli anni e nelle decadi, ed in questo i compagni sono stati più abili;
- la scuola è dequalificata, perchè il ruolo del docente è stato dequalificato, dalla unione perversa tra sindacati, burocrati, politici democristiani e di sinistra, pseudo pedagogisti d'accatto. Tutti interessati ad un bacino di consenso a buon mercato, a creare l'illusione delle scorciatoie e dello stipendio senza lavorare, e soprattutto a creare generazioni di ignoranti livellati, facilmente manipolabili e asservibili.
Cosa ha fatto il centro destra in questi anni ? Avete scordato il prode D'Onofrio che ha eliminato anche lo spauracchio degli esami di riparazione ?
Chi sceglie di fare l'insegnante oggi, lo fa solo per disperazione, perchè altre soluzioni lavorative gli sono precluse. Difficile meravigliarsi se la qualità è scaduta. Ma questo accade anche nella scuola privata, dove non c'è alcun meccanismo di selezione, tranne quello clientelare/paternalistico, e dove gli insegnanti aspettano la buona occasione per entrare nella scuola pubblica. Se nella scuola pubblica ci sono gli scarti delle università, in quella privata (tranne qualche rarissima eccellenza), si possono trovare gli scarti degli scarti.
In ogni caso, compito dello stato è quello di offrire servizi pubblici efficienti e qualificati per tutti. I privati possono fornire una scuola privata valida, se conviene economicamente nel periodo breve, e cioè quasi mai. Non mi pare che gli studi steineriani abbiano prodotto dei geni.
Lo stato deve fornire una scuola pubblica valida perchè rientra nei suoi compiti istituzionali e costituzionali. E' una attività ovviamente in perdita, articolata su tempi lunghi, ma i benefici ricadono per generazioni sull'intera società. Paghiamo oggi quaranta e più anni di lassismo.
Occorre rifondare la scuola pubblica, partendo dagli insegnanti (pochi) ancora validi e orgogliosi del proprio lavoro. Occorre investire nelle strutture, pagare bene chi lavora bene, dare spazio al merito, falciare la burocrazia ed i burocratismi.
Ci vorrà molto tempo, ed i miei figli non ne trarranno beneficio, ma ne varrà la pena, almeno per i nipoti, e per la società in cui vivrò da vecchio.
Piergiorgio Macchi
Gentile redazione de “Il Foglio”, raccolgo volentieri il vostro invito a riportare la mia esperienza di allievo in una delle scuole parificate più importati di Bologna: l'Istituto Salesiano Beata Vergine di san Luca. Sono stato allievo dal 1991 al 1999, frequentando scuole medie e superiori; questa esperienza è stata, fin'ora, la fortuna più grande della mia vita.
Partendo dal fatto di essere in possesso di un diploma prezioso e molto richiesto nel mercato del lavoro bolognese (grazie all'ottima reputazione di cui gode l'Istituto), riconosco come vera ricchezza l'essere stato soggetto in un rapporto educativo.
Molto spesso sento (giustamente) parlare di “emergenza educativa” e credo che una delle prime risposte possibili sia dare a tutti i cittadini italiani la possibilità di estendere, senza discriminazioni economiche, questo tipo di scelta scolastica.
Di ogni luogo in cui si gioca la libertà umana non è onesto (e tantomeno rispettoso) parlarne in termini di “Paradiso in Terra”, ma sicuramente si riscontrano numerosi elementi di civiltà che consentono di crescervi in pace e coltivare un ordine di pensiero come germe per la propria vita adulta.
Mi consentono di scrivere queste righe molteplici fattori che rammento con riconoscenza e gratitudine.
Anzitutto la generosità: l'insegnamento e l'educazione sono professioni per persone che hanno un cuore generoso; lesinare nel pensiero, nell'iniziativa e nella dedizione (di tempo ma anche di risorse economiche) non mi avrebbero consentito l'accesso ad un esperienza educativa completa, perché il cuore di un giovane è generoso nella propria disponibilità di rapporto quando riscontra altrettanta generosità nei suoi educatori ed insegnanti. Anzitutto i titolari di questa Opera, l'Ordine Salesiano, hanno generosamente dedicato – come il loro fondatore, San Giovanni Bosco - le proprie vite all'educazione dei giovani e molti insegnanti laici hanno scelto di condividere questa missione, rinunciando anche a docenze nella scuola pubblica (sicuramente più remunerative e meno impegnative), dovendo sostenere anche ore gratuite di “sportello” pomeridiano per rispondere alle domande degli allievi, molteplici riunioni e attività extra-scolastiche.
La condivisione di un progetto educativo: nell'epoca della “dittatura del relativismo” la merce più rara di questo mondo è una comunità che abbia chiari e condivisi i principi e le finalità dell'educazione della persona; questo significa concretamente saper dare i nomi ai bisogni e alle vere necessità dei ragazzi, senza farsi ingannare da utopie ideologiche o false idee di libertà. Fermo restando il completo rispetto per la persona di poter scegliere in che modo investire la propria libertà, rimane comunque una chiara proposta e il pensiero della giovane persona si confronta con una concezione articolata e non contraddittoria di vita umana veramente compiuta (la santità, la stessa che ammiriamo in Santa Teresa di Calcutta, in Giovanni Paolo II e in tante altre persone più o meno contemporanee che hanno illuminato la storia e le nostre vite). Sicuramente non viene commesso l'errore del laicismo: tenere gli allievi al riparo da una qualsivoglia visione del mondo unificata (ossia di Universo) per paura di “condizionamenti”, “asservimenti” e “indottrinamenti”; ho visto tanti compagni di classe dire “no” ma altrettanti dire “sì”, senza odio né rancori (la prova è l'affetto condiviso da tutti noi per la scuola, anche a distanza di anni).
L'apertura all'esperienza dell'amicizia: ho avuto la fortuna di avere insegnanti giovani (tra i 25 e i 35 anni) e con alcuni di loro ho potuto continuare una profonda e feconda amicizia anche dopo il diploma; questo è il segno più importante dell'onestà delle persone che mi hanno guidato con la sola finalità del mio benessere.
Un ordine nella conduzione dell'attività scolastica: posso vantarmi di non aver mai sprecato un'ora di scuola in improbabili scioperi, assurde manifestazioni e criminose occupazioni; naturalmente il mio vanto è nel riconoscere il vantaggio datomi dal luogo. Tutto il tempo più prezioso della mia gioventù è stato usato in modo efficace.
Un interesse personale: sono stato sempre trattato come una persona, non soltanto come un allievo o come uno studente. Le mie necessità sono state ascoltate e non ho mai avuto l'impressione di essere uno fra i tanti del “fiume” giovanile che immancabilmente scorre nella scuola. Non c'è stata l'idea di “massa”, alla quale applicare astruse e violente teorie educative.
Detto questo, desidero precisare che non ho alcun disprezzo per le scuole pubbliche statali, anzi ritengo che la contrapposizione non giovi a nessuno; tra i miei più cari amici annovero ottimi insegnanti in licei statali e il loro prezioso contributo è disponibile a tutti. Rimane in me la perplessità del dover limitare la possibilità di scelta educativa ad un fattore economico, come se la libertà avesse un costo quantificabile in denaro. La mia perplessità aumenta venendo a conoscenza di regioni, come il Trentino-Alto Adige, in cui scuola pubblica e scuola parificata (con metodo del buono scuola) convivono con grande successo e soddisfazione di tutti i cittadini.
Spero che il sogno di tante famiglie che desiderano per i propri figli la possibilità di una esperienza come quella vissuta da me in prima persona, possa prima o poi realizzarsi grazie ad una legge che elimini la discriminazione economica e ci adegui finalmente agli standard europei di parità scolastica.
Riccardo Rossetti
Due episodi vissuti in famiglia:
L'insegnante di religione che entra in classe salutando con il pugno alzato.
L'insegnante di francese che invita, con insistenza, una adolescente a frequentare un famigerato centro sociale.
Basta per capire quel che intendeva il Premier ?
Buon lavoro a tutti voi.
Alessandro Amigoni
Le affermazioni molto liberali di Berlusconi mi sembrano delle enunciazioni di principio assolutamente fuori della realtà così come quelle dei difensori ad oltranza dello status quo.
Le scuole private in Italia sono nel 90% dei casi delle fabbriche di diplomi per studenti poco volenterosi, ai quali le famiglie vogliono comunque far prendere il "pezzo di carta".
Nel restante 10% ci sono scuole con ottime infrastrutture ma scarsa qualità dell'insegnamento, scelte da chi, avendo adeguate risorse economiche, vuole tenere i figli lontani dallo sfascio della scuola pubblica. In un numero risibile di casi, inaccessibili ai più, ci sono istituti di vera eccellenza.
La scuola pubblica è un disastro dal punto di vista delle strutture scolastiche, dove funziona è solo grazie a coordinatori, presidi e insegnanti capaci e illuminati. Dove non funziona è una maledizione biblica senza possibilità di salvezza per nessuno (quello che ti capita te lo devi tenere).
Sicuramente però non c'è nessuno che cerca di "inculcare" alcunchè, questo non sarebbe consentito dalle famiglie che essendo rappresentative della società civile includono tutte le diverse posizioni.
Penso che solo quelli che hanno la pretesa di "inculcare" nei propri figli posizioni preconcette, senza lasciarli liberi di crearsi le proprie opinioni, possano riconoscersi nelle parole del premier.
In realtà, come per la maggior parte delle cose che in questo paese non vanno, sarebbe bene abbandonare le posizioni preconcette per dedicarsi ad una vera e non ideologica cura sulla base di: meritocrazia e liberalizzazioni, che abbia il fine di incrementare i mezzi culturali a disposizione dei giovani nell'affrontare il loro futuro (lavorativo e non) anche per il futuro del nostro paese.
Più in generale c'è da dire che i costi aggiuntivi a carico dei genitori sono sempre in aumento: materiali di consumo, fotocopie, attività sportive, lingue straniere, etc. In prospettiva, e in alcuni casi anche nel presente, ci saranno da sostenere costi di manutenzione e ammodernamento delle strutture e non mi stupirei di famiglie che si tassano per questi motivi.
La mia proposta e di trovare delle modalità per consentirci di scaricare queste spese dalla tasse, penalizzando allo stesso tempo quelle amministrazioni e soprattutto quelli amministratori che non sono in grado di garantire degli standard minimi di qualità de servizio.
Pierpaolo Guerra
Al direttore - La scuola dell'obbligo procede su tre diversi piani di apprendimento: 1) scuola elementare 2) scuola media 3) scuola superiore. Per avere una scuola efficiente, cioè in grado di svolgere una funzione utile agli allievi, occorre che gli insegnanti siano professionisti capaci. L'importanza della professionalità decresce con l'avanzare degli anni. Un insegnante scadente alle elementari castra l'attitudine allo studio di un bambino, un insegnante valido alle elementari inquadra la mentalità del bambino in rapporto allo studio. Da ciò deriverà la facilità di insegnamento per i gradi di studio successivi, comunque anch'essi determinanti. I danni causati alle elementari sono molto difficilmente riparabili se non irreparabili. Perciò un insegnante alle elementari svolge una funzione basilare per la società: instrada le future classi dirigenti nei loro singoli percorsi formativi. Da questo, secondo me, deriva ineluttabilmente l'inquadramento professionale degli insegnanti: un insegnante elementare deve essere equiparato ad un dirigente di media azienda. Deve avere, di conseguenza, lo stesso livello retributivo da cui deriva identico orgoglio professionale. Deve avere, di conseguenza, la stessa disponibilità lavorativa in ore giornaliere (un dirigente lavora mediamente dieci ore al giorno) in giorni lavorativi (non parliamo di stop tra Giugno e Settembre!) e frequenza di corsi di aggiornamento. Deve avere, di conseguenza, le stesse responsabilità e gli stessi vincoli per il raggiungimento dell'obiettivo: se fallisce per incapacità viene licenziato. Tutto “di conseguenza”, infatti se pensiamo di pagare poco la professione di maggior responsabilità educativa per i futuri dirigenti non possiamo poi pretendere di avere professionisti di alto livello e se un professionista pretende un alto livello retributivo non può pretendere di non assumersi le sue responsabilità. Ma una cosa è certa, se dalle elementari escono ragazzini istruiti e abituati ad impiegare corretti metodi di studio i costi della loro istruzione verranno ampiamente ripagati dalle loro capacità di emergere nella competizione che li attende a tutti i livelli in ogni campo. Un'ultima riflessione, la dedizione con scarsa professionalità è una qualità sprecata. La professionalità con scarsa dedizione è comunque una tecnica efficiente.
Roberto Bellia, Vermezzo
Ho avuto l'occasione di frequentare sia la scuola pubblica, che a scuola privata: elementari, liceo, università pubblici; medie private (suore). Che dire... La diversità è evidente, non solo in fatto di indottrinamento, ma soprattutto in termini di qualità. Le mie insegnanti delle elementari ci hanno inculcato le informazioni che era previsto ci inculcassero, ma in quanto a educazione ed attenzione nei confronti dei bambini erano pressoché assenti. Infatti, accaddero degli episodi piuttosto spiacevoli, che portarono alcuni genitori a cambiare scuola ai figli; questi episodi testimoniavano la completa noncuranza dell'educazione e l'assenza di sorveglianza nei momenti di ricreazione. Alle medie tutto è cambiato: insegnanti e suore ci controllavano di più. C'era una serietà nella conduzione della professione di insegnante che non ho mai più visto. Ringrazio in particolare modo la mia insegnante di italiano, la migliore in Italia (ne sono convintissima). Forse per il fatto di essere una scuola di confessione, il che porta inevitabilmente ad avere (a mio parere) un'etica e un comportamento molto serio e diligente, in questa scuola mi hanno trasmesso molti valori: l'onesta, la coerenza, la diligenza e il rispetto per il prossimo. Nella mia classe la maggior parte dei ragazzi si sforzava di migliorare e questo non era considerato "da sfigati". Alle elementari ero molto svogliata, alle medie conquistai la voglia di studiare. Al liceo è stato brutto. Bruttissimo. Assenteismo, menefreghismo, poca educazione, propaganda di sinistra, chi più ne ha, ne metta. Le insegnanti erano più occupate a farsi le faide tra di loro, che all'insegnamento. Per non parlare dell'indottrinamento: ricordo benissimo quando espressi in un tema argomentativo la mia opinione contraria all'aborto e di come l'insegnante alla riconsegna venne a cercare di farmi cambiare idea (visto che in preparazione al tema aveva cercato di lavarci il cervello). Le mie idee vennero definite in un commento scritto "tranchants". Almeno era onesta, non mi abbassava i voti. Invettive contro la Chiesa, il Papa, Berlusconi, di come fosse necessaria una legge sull'eutanasia in Italia, ecc ecc. A me prendeva un nervoso che mi faceva quasi star male; tuttavia questa esperienza mi ha fortificato, mi sono resa conto che quello che penso l'ho ragionato e che se sono riuscita a non farmi lavare la testa a 16 anni dagli insegnanti, allora non sono un burattino come quel ragazzino di 13 anni al raduno antiberlusconiano. Ricordo l'omertà totale di insegnanti e studenti nei confronti di altri professori che svolgevano una sola lezione a quadrimestre oppure nei confronti di quelli che non erano assolutamente in grado di insegnare la loro materia (vedi latino o storia dell'arte).
Linda Maria Migliore
Da “Autorevolezza e autoritarismo” (ed. Lampi di stampa). “Ho un intervallo di un'ora e i temi discussi in terza continuano a frullarmi in testa, così butto giù queste note. La scuola è come tutte le altre istruzioni del Bel Paese: non sopporta l'autorevolezza, ma ama l'autoritarismo. Così quando qualcuno, politico, giornalista o sociologo richiama le buone ragioni per ripristinare l'autorevolezza di una qualche istituzione mi preoccupo, perché so che quello che si prepara non sono iniziative ispirate a serietà di competenze e responsabilità di una sana moralità pubblica, ma solo cinici, interessati e inerti provvedimenti autoritari. Non mi piace l'autoritarismo, ma riconosco che possono esservi emergenze nelle quali un piglio autoritario produce qualche risultato. Ma non è questo il nostro caso. Infatti, la cosa più curiosa della tradizione di autoritarismo, così profondamente radicata nel senso comune degli italiani, consiste nel fatto che essa finisce per essere irrimediabilmente inefficace. Secondo una vulgata assai dura a morire, si dà spesso ad intendere che l'autoritarismo è sempre e solo di destra, di conseguenza chi di destra non è, si sente alfiere del libero pensiero e della tolleranza. Ma questo è falso, perché in un Paese come il nostro l'autoritarismo non è un fatto della politica, ma della mentalità e del costume. L'italico autoritarismo è per davvero speciale perché nasce dall'ideologia del facilismo, che è direttamente proporzionale al disprezzo che si nutre per lo scrupolo e la competenza e alla diffidente sufficienza, con cui si guarda a comportamenti ispirati ad una forte e sincera moralità. Insomma non ci piace l'impegno serio, perché quello è faticoso così si preferiscono le scorciatoie. E cos'è v'è di meglio della risposta burocraticamente autoritaria quando si pretende di risolvere qualche problema? L'esito di una siffatta pratica lo potete facilmente immaginare: si peggiora o, nella migliora delle ipotesi tutto resta com'era nello status quo ante. Volete un esempio? Ve lo faccio immediatamente. Prendete la storia del bullismo, di cui ci siamo già occupati. Il giornalista scrive di un episodio avvenuto a Roccasalata, un altro gli fa eco con quanto gli studenti hanno combinato a Campoasciutto e così via come un'eco che si moltiplica rimbalzando sulle pareti delle gole di un'accidentata montagna. A simili ghiottonerie stampa e televisioni non riescono a resistere pur di soddisfare l'insaziabile desiderio di audience. Chi lavora nel campo dell'informazione sa bene come il Bel Pese non sappia trattenersi dal guardare dal buco della serratura. Così quel desiderio va soddisfatto e ben rispondono allo scopo l'insegnate che si fa palpeggiare dagli studenti, il video che ritrae due adolescenti che effondono in amore o quello di tre cretini che tiranneggiano un disabile. Il dagli allo studente è inevitabile e gli studenti vengono trasformati in potenziali inguaribili palpeggiatori, sadici e affetti da irresistibili tendenze allo stupro. Tutta la psicopedagogia ufficiale si mobilita e lo stesso fa la politica pronta ad emanare decreti che stanziano fondi per la prevenzione di tali fenomeni e, immediatamente, burocrazie solerti annusano la nuova succosa merenda. Così partono i cosiddetti progetti educativi, che si abbattono su studenti che osservano distratti, perplessi di tanto rumore, e mi verrebbe da dire, per nulla. I fondi dall'inutile ministero della PI arrivano agli ancora più inutili e dannosi uffici scolastici regionali. Arrivano gli esperti ben pagati, i dirigenti scolastici che prendono anch'essi la loro quota come direttori dei corsi di formazione, e qualche docente, imbarcato anch'egli su questa allegra nave di sperpero dei pubblici denari, per guadagnarsi qualche spicciolo. La parole d'ordine diviene quella di arrestare l'alta marea del bullismo. Gli studenti vengono guardati con sospetto da dirigenti scolastici e docenti e tutti a dare addosso a questi giovani insensibili, incolti, cinici, preda di un edonismo irrefrenabile, privi di passione e di anima presi come sono dagli sms e da internet. E se invece non fosse vero che gli studenti italiani sono così irresponsabili e violenti? Se invece fosse vero che è proprio il cosiddetto mondo degli adulti, di tanti educatori, giornalisti, sociologi, dei politici, a portare la responsabilità principale di una società, nella quale a dominare sono la violenza, la prevaricazione, la disonestà, l'arrivismo senza scrupoli e la cinica indifferenza? Un mondo nel quale ciò che conta non è la voglia di fare, il merito e la competenza. Un mondo dove a dominare sono vecchi ingessati con lifting e make up, nella musica come nel giornalismo, nella cultura come nella politica. Si agitano di un ridicolo - che ahimè pochi riconoscono - nelle televisioni e sulla carta stampata nella loro ostinazione a non voler cedere il passo, a chi per freschezza biologica e culto della speranza potrebbe forse mettere in mostra quella creatività che per lo più solo da giovani vite può venire. E mentre i fasti decadenti di una intramontabile gerontocrazia, trascina qualche giovane conformato nei riti nazionali di manifestazioni canore stantie e ammuffite dell'italietta che mai tramonta, migliaia di giovani e studenti che ascoltano i Pink Floyd, i Rolling Stones, i Genesis, i Marley e tanti altri, vengono resi clandestini nei loro gusti e speranze. Il risultato finale è un Paese che si replica, sempre allo stesso modo, con le stesse imbecillità, la stessa cultura dell'illegalità, dell'approssimazione, gli stessi conformismi che imputridiscono nelle acque stagnanti di una morta gora. Una gerontocrazia delle professioni e dei mestieri per entrare nella quale o si è parte familistica delle corporazioni, o ci si deve chinare ai loro saperi, alla loro cultura e ai fossili delle loro ideologie. Sento sibililare: queste sono esagerazioni. Davvero? Dite che il nostro è un Paese tollerante? Oh certo, ne convengo, nessuno viene platealmente censurato se manifesta qualche scatto di energia creativa, se dice la sua in un modo non conforme, se affaccia nuove prospettive e ipotesi di lavoro, se si inventa nuovi stili, se ha il gusto per la ricerca di qualche nuova idea. Lo ammetto non sarebbe uno scandalo, ma viene tollerato lasciandolo languire con la sua buona idea. Del resto perché non tollerarlo quando comunemente si tollera l'abitudine a violare o aggirare regole e obblighi della civile convivenza? Insomma nessuno t'arresta se sei una persona seria e per di più creativa, solo si dice: “ma sì, fallo fare e dire ciò che vuole tanto….” Ma questa non è tolleranza: piuttosto è un uccidere l'anima senza spargimento di sangue. Così, quando si fa sul serio, quando in gioco non è la pseudo libertà di fare un pò come a ciascuno aggrada, ma quella dell'introduzione di un pensiero nuovo, di un approccio critico ad una tradizionale e accademica impostazione nella ricerca culturale e scientifica, nella politica e nell'economia, allora le cose cambiano e scattano i meccanismi feroci di autoconservazione dell'esistente. Viviamo uno strano paradosso: più forte e generalizzata è la tolleranza per il fare un po' come a ciascuno pare, più intensa e reattiva diviene l'intolleranza da parte delle accademie, delle redazioni dei giornali, dei comitati editoriali, del ceto politico e degli esaminatori che valutano, nella scuola e nelle università, per le manifestazioni di libero pensiero e la critica dei luoghi comuni. Quale autorevolezza può avere questo mondo degli adulti nel pretendere di educare le generazioni che si affacciano alla vita e costituiscono la riserva di futuro? Avete visto il grande padre Dante recitato da Roberto Benigni? Si? Vi è piaciuto nevvero? Bene, quella lettura prende a pedate decenni di critica letteraria, di ammuffite e dotte dispute sul grande Dante. E state pur certi, che se a scuola uno studente intelligente sostenesse che bisogna disseppellire i grandi autori dalle pietre tombali di tanta parte della critica letteraria, sarebbe assai difficile trovare un qualcuno capace di dargli ascolto. Non voglio cadere nello stereotipo di un passato sempre migliore del presente. Ma forse un tempo la generazione che tramontava era ancora capace di lasciare una qualche eredità di sapienza e di cultura a quello che sorgeva. Per quanto contraddittoria, c'era sempre un'eredità di tradizioni, di conoscenze, di abilità e moralità che poteva costituire un punto di riferimento, con il quale le nuove generazioni potevano, di volta in volta, accordarsi o confliggere. Oggi le cosiddette società della conoscenza – meglio sarebbe dire delle nuove ignoranze - sembrano non lasciare alcuna eredità. Sol chi non lascia eredità di affetti poca gioia ha dall'urna diceva il poeta. Confesso la mia incapacità nel valutare quanta eredità d'affetti siamo capaci di lasciare a chi resta, ma di una cosa sono certo: rischiamo di non lasciare eredità di memoria di quanto faticoso sia stato il cammino della conoscenza e della libertà, di quanto sia decisivo nella speranza di futuro di ognuno di noi il fine - o i fini - che ciascuno deve alimentare in vita per apprezzarne il valore.
Le istituzioni non sono entità astratte dagli uomini e donne in carne ed ossa che vi lavorano. Così le opinioni degli individui, le loro convinzioni, la loro visione del mondo decidono in definitiva i comportamenti e le funzioni di una istituzione. Torniamo per attimo alla scuola: sono gli insegnanti che vi lavorano, i presidi che dovrebbero dirigerle a farne una cosa piuttosto che un'altra. Insegnanti e presidi sono italiani e come tali nel loro senso comune non sono affatto dissimili da tutti gli altri. E qual è il principio filosofico che sorregge il common sense degli italiani? L'dea che la vita non va presa troppo sul serio, che non è poi così necessario essere troppo coerenti rigorosi con i principi della moralità che si professa, che non vale la pena impegnarsi con accanimento nel proprio lavoro, come farebbe un calvinista, tanto la vita comunque va avanti lo stesso. Non prendersi troppo sul serio non è una cattiva cosa. Peccato però che questa idea venga presa tanto seriamente dalle nostre parti! In un ambiente siffatto scompare del tutto la cultura del riconoscimento del merito, della passione per il fare. Se un insegnate non fa che ripetere quello che ha imparato decenni prima, se non gliene frega niente, assolutamente niente, del mondo che cambia, del fatto che i saperi non sono scheletriche ossificazioni, ma materiale vivo dal quale possono zampillare intuizioni, emozioni, nuovi punti di vista, come volete che la passione dei giovani possa scaricare un pò della sua energia per il sapere e la conoscenza? La poesia, la filosofia e la scienza non sono codici fissi dati una volta per tutte. Platone e Aristotele, S. Agostino e S. Tommaso, Dante e Shakespeare, Sofocle e Leopardi, Euclide e Riemann, Socrate e Kant, Leonardo e Michelangelo, Bruno e Copernico, Keplero e Galileo, Dostojevskij e Tolstoi, Foscolo e Leopardi, Newton e Einstein, Leonardo e Freud, Popper e Russell, incrociano costantemente il tempo delle nostre vite, che lancia su di essi nuovi fasci di luce. Ne illuminano il vigore di sentimento, la profondità di pensiero, le visioni del mondo e le contraddizioni, producendo suggestioni che stimolano l'immaginazione e l'emozione per l'impresa di nuove e più avvincenti sfide verso l'esplorazione del mondo e la sua conoscenza. Si riconosce l'autorevolezza di un istituzione se essa è utile, giusta e competente, se le persone che vi lavorano sono colte e civili, se in essa vive il rispetto che si deve per i cittadini, al cui servizio quella è posta. Per la scuola la questione della sua autorevolezza è assolutamente centrale. Una scuola non autorevole non sono è inutile, ma è sommamente dannosa per il processo formazione ed equilibrio mentale dei giovani”.
Donato De Renzis, insegnante
Al direttore - Ma porca miseria, i sermoni non mi piacciono a sinistra, ma non si possono sentire neanche da Berlusconi. Adesso il problema è il laicismo della scuola pubblica! Pretende che i ragazzi siano educati secondo i sani principi della famiglia e lui va a puttane! La parola autorevolezza deriva dal latino auctor. Non si può pensare di essere autorevoli se si conduce una vita in antitesi con l'educazione che si pretende gli altri abbiano. Viva la libertà, sempre! quella di Berlusconi...ma anche la mia.
Daniele Di Bartolo
Voto PDL e vivo in una città di comunisti, ops! pardon, di centro sinistra. Essere di destra qui è un po' come dichiarare di essere cattivi, classisti, retrogradi, troppo pragmatici, poco filosofi e fondamentalmente ricchi (di denaro) e poveri (di spirito).
Peccato. Io sono di destra, ma non sono ricca: ergo, per i miei figli mi tocca la scuola pubblica e molti "rospi" da ingoiare.
Il quaderno di italiano del mio primogenito viene giustamente corretto dall'insegnante. Da madre diligente lo controllo periodicamente per seguire i suoi progressi. Noto così che qualsiasi lavoro, qualsiasi compito, qualsiasi esercizio fatto e dalla maestra controllato che abbia un errore, o quattro o dieci e indipendentemente dalla loro gravità, è sempre marchiato dallo stesso giudizio "Bene" oppure "Bravo". Ho provato ad affrontare l'insegnante, instillando il dubbio che una presa di coscienza per un lavoro sbagliato dovrebbe essere sollecitata da una certificazione scritta nero su bianco del grado di errore dello stesso; ad esempio: non si potrebbe usare un "male" o un "malissimo"? Apriti cielo! Pare che io abbia fatto la figura della rozza troglodita, genitrice ottusa e antidiluviana.
Ma come, signora mia, non sa che un giudizio negativo umilia il bambino? Lo traumatizza?
Certo che lo so! Quello che non so è perché questo sia adesso un problema: il trauma serve a crescere, l'errore ad imparare, l'umiliazione (che poi umiliazione per un "malissimo" sul quaderno? al limite un po' di sana vergogna!) a migliorare.
Ma no! ma no!, signora mia; un giudizio negativo può bloccare irrimediabilmente lo sviluppo cognitivo dell'allievo e la sua capacità di apprendimento!
Ma forse - insisto - diversificare le valutazioni lo potrebbe spronare a fare meglio, stimolare l'impegno per tendere all'eccellenza. Per contro, un giudizio sempre ugualmente positivo potrebbe essere disincentivante.
Macché signora mia! Che dice? Vogliamo tornare alla storia della competizione tra ragazzi? Ragazzi che sono tutti UGUALMENTE bravi, tutti UGUALMENTE dotati purché sia data loro la possibilità di dimostrarlo?
Basta! Ha vinto lei. Me ne torno a casa con la coda tra le gambe, pensando di essere la peggiore madre del mondo per aver anche solo pensato di bloccare lo sviluppo cognitivo di mio figlio. E poi, la storia della competizione....non me ne potevo star zitta? E dire che mi ritengo pure una buona cristiana! Domenica vado in chiesa a confessarmi per aver
paventato l'idea di fare differenze tra innocenti bambini tutti ugualmente brillanti dando voti diversi!
Ma poi varco la soglia di casa, mio figlio, ancora grondante sudore ed inchiostro, mi chiede di leggere il suo ultimo lavoro di italiano. Tema di quarta elementare "Racconto le mie vacanze". Svolgimento: dieci righe scritte a lettere molto grandi; totale parole ventinove; parola "bagagli" ripetuta dodici volte; nessun inizio, nessuna fine, nessun corpo del testo: solo questi pesantissimi "bagagli" fardello da trascinare durante i viaggi e a quanto pare anche durante i compiti!
A parte il fatto evidente che dovrò rivedere il mio concetto di "necessaire" da infilare in valigia (mi sembrava di prendere 4 stracci in tutto, ma chiaramente esagero come molte donne!) mi chiedo se il giudizio che ho dato a mio figlio: "il tuo tema è bruttino" unito a quello di mio marito "è un vero obbrobrio" segneranno per sempre il mio rampollo facendone un ritardato mentale, o peggio, un delinquente (non è dato sapere quanti serial killer hanno preso un "malissimo" a scuola, ma sospetto siano molti!).
Fatto sta che il mio ragazzo, con aria sconsolata e delusa, è tornato alla sua scrivania e penna alla mano ha rifatto tutto da capo. Non ne è uscito un saggio brillante o la trama per un romanzo avvincente, ma almeno era un testo scritto in lingua italiana, corretto sintatticamente e ortograficamente. E quando mamma e papà si sono complimentati per il lavoro ben fatto, al mio ragazzo brillavano gli occhi di orgoglio.
Non so se domani il trauma inflittogli dal giudizio negativo e spietato dei due gretti e scellerati genitori lo trasformerà in un serial killer; io mi auguro che la lezione impartita serva almeno ad evitare l'assassinio della lingua italiana!
Letizia Panetti
Luca frequenta la terza scientifico. E' un ragazzo sveglio, intelligentemente diffidente, con un discreto amor proprio e – cosa non consueta tra gli adolescenti di oggi, checché ne scrivano alcuni quotidiani, nostalgici delle epopee del bel tempo che fu – interessato al tema della politica e del ruolo che essa deve avere nel processo di crescita degli adolescenti.
Giorni or sono Luca ha scritto un articolo sul giornalino online della sua scuola in cui ha dato forma a questa sua esigenza. L'ha fatto in modo garbato e dialogante, interpellando la sensibilità dei suoi professori e sostenendo che “fosse sua ferma convinzione che, oltre a contribuire alla nostra formazione culturale, durante il quinquennio dei nostri studi, gli insegnanti dovrebbero offrirci qualcosa in più ed, in particolare, aiutarci ad avere almeno una visione d'insieme sull'attuale realtà sociale, dando vita a dibattiti sulla politica, un argomento che pochi docenti si preoccupano di trattare con gli alunni”. Non ha mancato di sottolineare che i suoi docenti spesso sgusciano via rispetto a questi bisogni degli studenti oppure si mostrano preoccupati di sopire o soffocare spunti di dibattito che potessero collegarsi a questioni troppo scottanti dell'attualità. Infine, con un candore prezioso, pari solo alla sua naturale ingenuità, ha scritto: “Cari professori, siete una delle poche fonti rimaste oggi in Italia che ci possono mostrare una visione quanto più veritiera della reale situazione politica in cui versa oggi il nostro amato paese, perché ormai, nella situazione di totale anarchia in cui si trovano le nostre istituzioni, la libertà di parola è stata bandita e i principali mezzi di comunicazione (un esempio più vicino alla nostra quotidianità è la televisione) sono stati corrotti e mostrano delle realtà falsate che pongono le persone che le seguono in uno stato che avrebbe definito Eraclito, è quello “dei dormienti”, che si lasciano convincere dalle apparenze che gli vengono sottoposte e che vengono accettate in maniera acritica.” .
Ecco, quando un ragazzo interpella in questo preziosissimo modo la coscienza di un adulto, di un insegnante o di un educatore, costoro non possono e non debbono tacere. E io non l'ho fatto. Gli ho risposto sullo stesso giornale, facendogli innanzitutto i complimenti per la educata franchezza con cui si era rivolto a noi. Ho poi sottolineato che, per me, il modo più appropriato di fare politica da parte di ogni cittadino, è quello di svolgere nel modo più scrupoloso possibile il proprio lavoro, di farlo con passione, sollecitudine e perseveranza, offrendo con spirito di servizio alla propria polis un contributo proficuo e competente, nella consapevolezza che esso avrà, in modo mediato o immediato, un impatto sulla collettività. Questo discorso, che vale per ogni professione, riceve una sottolineatura ancora più spiccata per il lavoro dell'insegnante, le cui finalità sono quelle di contribuire attraverso il sapere e la conoscenza e attraverso la proposta di un nucleo di valori che alla cultura è inestricabilmente connesso, alla formazione più ricca possibile delle nuove generazioni, cioè di quegli uomini e di quelle donne che dovranno nel futuro essere la spina dorsale della nazione. Pertanto, ho ribadito, che l'insegnamento, soprattutto se svolto con entusiasmo, competenza e con amore, cioè con interesse per gli studenti, e lontano perciò da ogni declinazione burocratica, asettica o gelidamente impersonale di esso, è un mestiere intrinsecamente “politico”, cioè un lavoro che ha nella sua costituzione intima una finalizzazione intersoggettiva e quindi come tale comunitaria. Insegnare, cioè, è per sua stessa essenza “fare politica”, in un senso, naturalmente, molto largo di questa parola. Solo in questo, gli ho detto, sinceramente e senza indulgere in paternalismi stucchevoli, consiste la “politicità” dell'insegnare, cioè nel contributo che in questo modo si fornisce alla crescita morale e intellettuale dei ragazzi. Altre interpretazioni del ruolo dell'insegnamento sarebbero improprie, in quanto una cattedra non è una tribuna da cui aizzare le folle né un pulpito dal quale catechizzare i fedeli. Una cattedra è una frontiera mobile che ha il compito di mettere in relazione, attraverso il sapere, passato e presente per determinare le condizioni di una piena consapevolezza civile e culturale dei ragazzi.
L'altro giorno, dopo aver scritto l'articolo, ho incrociato Luca nel corridoio della scuola. Mi ha salutato con un'espressione orgogliosa e compiaciuta. Un po' di quella sua originaria diffidenza comincia a stemperarsi.
Gennaro Lubrano Di Diego
Non trovate che che il Presidente del Consiglio dovrebbe pensare prima a far funzionare la scuola, come struttura organizzata e non a sgretolarne il residuo prestigio mettendo in discussione addirittura la sua legittimità. Solo così essa può provare a offrire almeno una base minima uguale per tutti, e ciò anche senza velleità di edificare una società più giusta e dinamica. Poi si occupi pure, con progetti e non con slogan suggeriti da qualcuno (ne sappiamo niente in redazione ?), del diritto di scelta tra scuola pubblica e scuola privata. Gli slogan contro gli insegnanti sono solo l'ennesima ... lasciamo perdere.
Arnaldo Pascoli
Al direttore - Alle elementari, frequentavo la scuola pubblica del mio paese, ero brava, ma brava davvero. Ero in effetti una bambina un po' strana, e mi ricordo che non c'era cosa che non mi riuscisse facile, stentavo a credere che i miei compagni non impiegassero il poco tempo che impiegavo io a fare qualunque cosa, dalle operazioni, ai temi, e così via. Mi ritrovavo ad ammazzare il tempo facendo disegnini e la mia maestra se ne accorse, o meglio, non si limitò ad accorgersene, volle prendere provvedimenti. Propose ai miei, in quarta elementare, di fare un ciclo di lezioni pomeridiane, nemmeno tante e non tutti i giorni, per permettermi di dare l'esame di quinta da privatista. I miei genitori piombarono nel panico. Avevano paura, credo, che mi sobbarcassi una cosa troppo grossa, che sbagliassi e poi non era loro costume ostentare i successi dei propri figli, si sono sempre un po' mimetizzati i miei genitori e quella cosa della bambina-prodigio (per modo di dire, eh) vedevo che gli andava proprio di traverso. Forse fui proprio io a convincerli. Quando mi chiesero se volevo fare "due anni in uno", che poi erano tre mesi di lezioni supplementari mentre andavo a scuola, detti la risposta più assurda possibile, essì, la più magnificamente infantile: si, lo voglio fare perchè in classe siono la più vecchia. Avevo nove anni. Constatata la mia totale assenza di una qualche parvenza di ambizione (che ho scontato non poco negli anni successivi), i miei si sentirono stranamente sollevati e dettero l'ok all'avventura. Sapete come andò a finire? Mi buttarono fuori dalla scuola. Eh, già. La Preside strigliò bene bene i miei genitori e la mia maestra, perchè si creava un “precedente” a quanto pare scomodo (?!), perchè a sembrava che la mia presenza in classe, con lo scandaloso progetto messo in piedi dalla mia maestra, discriminasse tutti gli altri e poi francamente non ho mai capito che altro ci fosse di così sgradito nella cosa, anche perché i miei compagni non sembravano minimamente colpiti e i nostri giochi erano sempre gli stessi. Non ricordo sinceramente nessun gesto di disagio, forse perché le questioni degli adulti non riuscivano ancora a toccarci. Però, alla fine, per quei tre mesi dovetti lasciare la scuola. I miei genitori si rassegnarono alla decisione della Preside, ma mi permisero di continuare. E' buffo, non ricordo quel periodo come difficile o faticoso, non mi mancarono i giochi e gli amici, a ripensarci è strano che proprio i miei genitori, che mai e poi mai avrebbero voluto dare nell'occhio, si trovarono a combattere una battaglia loro malgrado, ma hanno ritenuto sempre ingiusto che proprio la scuola mettesse delle condizioni severe alla possibilità che un alunno cogliesse un'opportunità. In quella piccola battaglia non fummo mai soli, perché la mia maestra difese sempre questa scelta, penso perché riconosceva il diritto di ognuno a sfruttare al meglio le proprie capacità e a veder riconosciuta un'opportunità se queste capacità la consentivano. Si chiamava Margherita, ora non c'è più e la mia prima opportunità la devo a lei, che la curò e la difese, lei che era insegnante della scuola pubblica, così come il mio primo ostacolo fu proprio la scuola pubblica. Comunque alla fine passai l'esame di quinta e non fui più la bambina più grande della classe. Grazie Margherita.
Lisa Taiti, via Web
Al direttore - Non ho particolari storie da raccontare, salvo il fatto di aver potuto svolgere un buon cammino di formazione nella scuola statale. Sono nato e abito a Varese: la mia scuola elementare "Giosué Carducci", le media "Dante" e il Liceo Classico "E. Cairoli" hanno funzionato direi bene.
Il cuore del dibattito sollevato dopo le cose dette dal Premier non sta tanto nella contrapposizione pubblico-privato (o più correttamente: statale-non statale) quanto nel lavoro dell'insegnante.
Rivado alla mia esperienza. Se devo trovare un tratto di forza nella formazione che ho ricevuto, sono obbligato a riconoscere che esso sta nelle persone che mi hanno insegnato: la maestra Balbi -fantasiosa, solare e vulcanica: indimenticabile la cartina del quartiere fatta utilizzando come unità di misura i suoi piedi: noi camminavamo tenendoci per mano e lei seguiva il gruppo mettendo pazientemente una scarpa pietro l'altra-, l'impetuosa e appassionante professoressa di italiano Bianco -che si consumava così tanto insegnando che a volte nelle ultime ore non ricordava come si scrivevano i numeri-, l'implacabile professoressa Perego del ginnasio -materie: greco, storia, italiano, latino, geografia; tremenda con i suoi numeri della tombola per le interrogazioni-, i professori Ferrari e Taverna-appassionati e mai timorosi di puntare in alto- e alcuni altri sono i ricordi più significativi della scuola alla quale sono andato. Accanto a essi ricordo anche professori che per pietà non voglio nominare: gente che non spiegava, che spiegava male, che era impreparata, che non aveva minime capacità di rapporto con i ragazzi. Posso perciò dire di essere stato fortunato, ma questa fortuna ad altri miei amici o parenti della scuola statale non è capitata, perché hanno casualmente incontrato altri insegnanti: ecco perché assolutizzare il problema statale-non statale non risolve il dibattito. La scuola non è un meccanismo esatto, non è una linea di produzione: è il luogo di un incontro umano attraverso un lavoro fra docente e discente, attraverso una proposta di sé da parte di chi insegna, che offre al ragazzo il suo sguardo sul mondo e lo "obbliga" a paragonarsi con esso nella fatica dell'apprendimento. Questo lavoro riguarda l'insegnante e il ragazzo: nessuna scuola è esente dal rischio di dimenticare questo nodo fondamentale, siano esse statali o no. Quello che vedo è che allo stato attuale in alcune scuole libere -quelle che si sottopongono a un duro lavoro di preparazione e di sviluppo della propria attività didattica, attraverso riunioni, attività comuni, ecc..., peraltro a stipendi normalmente più bassi del 20-30% rispetto a quelle statali- è più facile che avvenga qualcosa di importante per l'alunno. Detto questo, il punto di lavoro comune a tutti quelli che parlano di scuola dovrebbe essere la drammatica e affascinante domanda di Don Luigi Giussani nel suo Rischio Educativo: "chi educa l'educatore?". Di certo non può essere lo Stato, altrimenti non saremmo lontanissimi dall'idea del Leviatano, o dal Minculpop, o dal Ministero dell'Amore di Orwelliana memoria. Andate a vedere come funziona la messa in ruolo in Italia: ne resterete scandalizzati. E' il fondo di tutti i problemi. Se invece chi ha una ipotesi culturale potesse essere sostenuto nel suo tentativo educativo, magari attraverso una vera parità, o una reale autonomia -come l'esempio francese riportato dalla vostra Giulia De Matteo- non saremmo qui a perdere tempo su una diatriba sterile fra chi sostiene la scuola statale (che per il solito tic statalista italiano ovviamente è l'unica a poter essere appellata come pubblica, come purtroppo anche Lei, Direttore, fa) e chi no, basandosi sui più o meno fortuiti casi di incontro con professori e maestri degni di questo nome. La formazione non dovrebbe essere demanda al caso, come il sistema italiano attualmente prefigura. Libertà di scelta, autonomia didattica (vera: cioè libertà di scelta del corpo docente), riconoscimento economico del valore del lavoro formativo, abolizione del valore legale dei titoli di studio: sto sognando, ma questi mi sembrano i capisaldi di un sistema formativo-educativo che punti sempre ad automigliorarsi.
Per intanto, metto via i soldi per mandare il mio primogenito in una scuola paritaria (e ringrazio la Lombardia per quei 500 euro che mi farà risparmiare con il buono scuola). La maestra Balbi infatti non insegna più: ha preferito una baby-pensione molti anni fa... E lo sa l'incredibile? Nessuno ha cercato di impedirglielo!
Nicola Sabatini
Sono un'insegnante di Lettere nella scuola secondaria di primo grado; insegno da circa quindici anni e sono di ruolo da dieci.
Ovviamente prima sono stata una studentessa: elementari, medie e Liceo alla scuola pubblica, Università privata (Cattolica, a Milano). Ricorso le elementari con piacere: una maestra unica, brava ed empatica. Ci ha insegnato tutto quello che si deve imparare nella scuola primaria, come la chiamano adesso: leggere, scrivere, riassumere, studiare, le tabelline e le 4 operazioni. Le medie invece un disastro: erano gli anni delle teorie degli insiemi perciò poca matematica, intesa come geometria e algebra, e mesi e mesi sull'insiemistica (mai più rispolverata da allora); in Lettere professori e supplenti molto politicizzati, quindi poesie di Pablo Neruda, poca analisi grammaticale e nulla di analisi logica. A volte uno di quei prof leggeva in classe l'Unità, piacevolmente alternata alla Gazzetta il lunedì mattina. Sarabande di supplenti nelle altre materie. Poi mi iscrissi ad un Liceo scientifico statale duro, e serio. I primi mesi del primo anni piansi per i votacci dovuti alla mia impreparazione delle medie. Poi mi sono ripresa ma ho studiato tanto , per cinque anni. Professori seri ed esigenti, uno solo faceva capire chiaramente
chi o cosa votava, ma non ha mai tentato di “inculcare” nulla. Solo in arte ho avuto mille supplenti, alcuni di loro parlavano a stento un buon italiano e spiegavano, gli altri era tutto un «Disegnate
ragazzi». Comunque cinque anni di fatiche, al confronto l'Università è stata una passeggiata. Devo dire che la prima esperienza di scuola privata l'ho avuta proprio al Liceo, nel senso che tutti i bocciati della nostra scuola confluivano in due Licei privati della zona e, inspiegabilmente iniziavano a prendere ottimi voti. In seguito, da insegnante, ho avuto modo di lavorare sia in scuole statali sia in quelle paritarie ( e anche parificate). In base alla mia esperienza posso dire che:
• Nella scuola pubblica spesso c'è un balletto scandaloso di
supplenti (le nomine brevi, quelle fino agli aventi diritto, le
supplenze brevi, quelle annuali) dovuto ad una farraginosa burocrazia. Nelle paritarie la scuola riesce a garantire gli stessi insegnanti per l'intero ciclo. Anche se, dopo l'ultimo concorso, c'è stato un fuggi fuggi da parte di molti professori, passati alla scuola pubblica. Come dar loro torto, vista la notevole differenza di stipendio?
• Nella scuola paritarie c'è quasi sempre omogeneità culturale e
sociale tra gli alunni. Non ci sono i disabili e non ci sono gli
immigrati, extracomunitari o comunitari che siano (penso ai rumeni). Questo per l'insegnante si traduce in possibilità di andare spedito con il programma, di non dover recuperare o aspettare nessuno e per la scuola significa non dover avere gli insegnanti di sostegno e l'onere di organizzare corsi di alfabetizzazione per stranieri. Nella scuola statale può arrivare il cinese a settembre, il romeno a novembre, la moldava a febbraio e l'insegnante deve inventarsi modi per inserirli e aiutarli.
• Nella paritaria i genitori pagano e quindi sono molto presenti e
coinvolti. In alcune scuole dove ho insegnato, gestite da suore, gli
insegnanti erano tacitamente obbligati alla tombolata prenatalizia,
alla messa per il santo patrono, alla gita al santuario tutti insieme.
Sia in giornate scolastiche, sia in giornate festive. Nella scuola
statale i genitori sono poco e per nulla coinvolti. Le riunioni si
fanno ma partecipano solo i genitori degli alunni “che vanno bene”.
• Nella scuola pubblica ci sono ottimi insegnanti, insegnanti
mediocri, insegnanti lazzaroni, casi umani. I lazzaroni non vengono redarguiti da nessuno, quello che non fanno loro se lo accollano, sbuffando, i colleghi di buona volontà. Nella scuola paritaria hai il preside o il suo vice che ti sta sul collo, soprattutto se sei nuovo, o alle prime armi. Ricordo che, al mio secondo anno di insegnamento, capitai in una scuola gestita da suore, ed essendo giovane, la preside, nelle prime settimane, capitava nella mia classe con ogni pretesto per controllarmi (A volte la vedevo anche ferma fuori dalla porta a vetri della classe, ad origliare…). Poi ha smesso di farlo, evidentemente avevo superato il suo personalissimo esame.
• Nelle scuole paritarie spesso ci sono anche i pomeriggi di lezione o di laboratori e, per le mamme che lavorano, è oltremodo conveniente che i figli stiano a scuola fino alle cinque del pomeriggio. Nelle statali a volte c'è il tempo pieno, a volte degli ibridi che prevedono uno o due pomeriggi a scuola, a volte solo le mattine. Da quando insegno nella scuola pubblica, ho sempre cercato di fare il mio dovere, e anche di più. Mi rendo conto che a volte ho colleghi demotivati, a volte colleghi sindacalizzati e politicizzati oltre ogni dire, a volte colleghi bravissimi che però, peccato, sono solo supplenti e l'anno dopo non ci saranno più. So che se tornassi alle paritarie non avrei le classi sovraffollate, né la presenza, a volte stimolante, a volte problematica, degli stranieri. Però ho iscritto mia figlia all'asilo statale e spero proprio che possa frequentare la scuola pubblica, perché rappresenta il mondo in cui si troverà a vivere. Invece, spesso, gli alunni delle paritarie, se non hanno famiglie che li aiutino, penseranno che il mondo è fatto solo di famiglie benestanti, che tutti si possono permettere scarpe da duecento euro, e che i disabili e gli stranieri non esistono. Infatti, mi fanno proprio ridere molti parlamentari ed intellettuali di sinistra che si stracciano le vesti per la scuola pubblica e corrono a iscrivere i loro figlioli nelle scuole per l'alta borghesia cittadina. La coerenza in questo Paese proprio non esiste.
Prof.ssa Elisabetta Belotti
Sfollato per colpa della guerra, senza nemmeno il grembiule d'ordinanza, la mia prima scuola fu un'agenzia del Lotto dove nel retrobottega maestre volenterose e severe insegnavano a leggere e a scrivere. Mi dava lezioni di inglese, invece, il corrispondente di guerra dell'AP al quale gli alleati avevano assegnato il nostro appartamento. Per seguire le truppe aveva lasciato un fbimbo piccolo a Nuova York. Diceva a mia madre che gli ricordavo suo figlio e perciò si sentiva meno triste. Mi regalava Life Savers, le caramelle col buco, per i miei genitori c'erano sempre barattoli di beef in scatola. Quando poi, dopo trent'anni, decisi di guadagnarmi da vivere facendo il suo stesso mestiere stavo cercando lavoro e scoprii che lui non aveva mai lasciato l'Italia. Pensai che sarebbe stato bello rivederlo e che forse mi avrebbe aiutato. Corsi alla sede della Stampa Estera, a Roma. Mi dissero che la sera prima c'era stata la sua festa di addio all'Italia. Imprecai in quell'inglese bastardo che avevo imparato dai rozzi della Military Police che presero possesso del nostro appartamento dopo che lui aveva proseguito il viaggio con le truppe.
Gino Roca
Al direttore - Non ci hanno insegnato nemmeno ad alzarci in piedi al loro ingresso in aula. Purtroppo non solo di questo, si sono dimenticati. Professori di un liceo emiliano in una cittadina opulenta, spaparanzata sulla ricchezza prodotta dal tessile-abbigliamento nei lustri precedenti. “Il corso C è il peggiore vedrai…” mi ammonivano i più grandi, quelli che da lì ci sono passati. Era l'ultimo in ordine progressivo, il primo ad essere considerato il corso meno “culturale”, dove la nomea precedeva la fattura. Tuttavia incontrammo figure bonarie, molte prossime alla pensione, in attesa solamente di quel traguardo storico ed ambito.
Una su tutte: la chiameremo Mrs.B. docente di Lingua Italiana e Latina. Mrs. B era un insieme aperto di drammaticità incarnata, di sbalzi umorali, di pastiglie antidepressive appoggiate alla rinfusa sulla cattedra vicino ad una borsa da cui usciva di tutto, ma nessun soldo. E così eravamo sempre noi a offrire il caffè, a saldare i conti della parrucchiera e a tentare la fortuna al lotto. Dico la verità, a costo di non essere creduto, ma è letteralmente così: ragazzi (maschile non a caso) mandati fuori da scuola a completare pratiche iniziate, a saldare conti aperti, a depositare alcune lire in banca. Nell'orario di lezione e nel tempo libero. Alcuni tra di noi erano prediletti per queste performance, ad altri non osava chiedere nulla, come a me per esempio anche se non ne ho mai capito bene il motivo. Ne parlammo, il Preside sapeva, tutti i docenti sapevano ma eravamo il corso C. Un giorno col viso trasfigurato dalle lacrime Mrs. B entrò in aula sollevando una sorta di santino con l'immagine di un gatto e avanzava con passo professionale. “In piedi” sussurrò col filo di voce rimasta, ci alzammo in un clima surreale eseguendo il minuto di silenzio per il gatto defunto. Un'altra volta ripetemmo la solenne cerimonia per il muratore del suo paese. A metà della 5^ Mrs. B. fece uno spaventoso incidente in automobile, non la vedemmo più sulla nostra cattedra perché passo in degenza i mesi restanti. Arrivò una prof. giovanissima, già impegnata con altre classi che con entusiasmo bignamizzò il programma degli ultimi due anni e ci portò trionfalmente all'esame di maturità. Certo ci mancavano le stranezze di Mrs. B., come quando senza salutare iniziava a ripetere guardando nel vuoto “Tytire, tu patulae recubans subtegmine fagi…”. Non c'è un bene o un male. Non c'è stata una docente migliore dell'altra, ma nella mia esperienza incontrai questo e lo trovai imbarazzante. Meno della facoltà politicizzata in cui mi ritrovai a Ottobre del 2001, ma questa è un'altra storia.
Matteo Casalgrandi
Gentile direzione de "Il Foglio", vorrei raccontarvi di come, in alcuni ambienti universitari (quindi scuola pubblica), l'insegnamento "di parte" sia tollerato, nella norma e di quanto siano veritiere e fondate le parole del Presidente del Consiglio. Il mio è un racconto di denuncia, di protesta contro un sistema marcio sino alle fondamenta. Sono uno studente universitario di 23 anni, vivo e studio a Roma, Università La Sapienza. Forse per abitudine, forse per un sentimento donchisciottesco, non mi stupisco più nel trovare irriverenti, spregiudicati e molto frequenti attacchi al Cav. Berlusconi nei libri di testo (anche nei contesti più assurdi: nel manuale di grammatica inglese!), per non parlare di lezioni monotematiche. Recentemente, più di una volta son stato costretto a lasciare l'aula (di mia volonta') a seguito di un approfondimento sulle donne nel mondo del lavoro di un certo corso, dove il "neo-puritanesimo" descritto dall Signor Ferrara raggiungeva livelli insostenibili. Il senso di arrendevolezza che attanaglia i (pochi) studenti come il sottoscritto e' sempre celato, i più preferiscono "tapparsi il naso" ed andare avanti, cosa che non ho mai approvato personalmente. Quello che ritengo più grave e' la totale mancanza di una "controparte" in tutto questo. Ora, non volendo annoiarvi con una lunga lista d'episodi del genere, mi chiedo: com'e' possibile? La scuola pubblica (ed in primis l'università) dovrebbero essere i luoghi del sapere, della libera scelta, dell'imparzialità da parte del docente responsabile dell'educazione e della formazione di una nuova generazione (Seneca docet!). Il Cav. Berlusconi ha sottolineato qualcosa d'alquanto chiaro, l'universita' pubblica e' controlla egemonicamente dall'ala peggiore della sinistra: ex sessantottini, neopuritani, ipocrite femministe. Ed e' tutto chiaramente fatto alla luce del sole.
Sperando che la mia piccola testimonianza (e protesta) vi possa essere d'aiuto od ispirazione, vi auguro un buon lavoro. Cordialmente,
Lorenzo Tacchio
Cari amici del Foglio, il problema non è tra scuola pubblica e scuola privata. Infatti anche una scuola privata può fornire un servizio pubblico. Il problema è il monopolio della scuola statale. Le famiglie dovrebbero essere messe nelle condizioni di scegliere tra scuola statale e scuola privata. Ma prima ancora bisognerebbe togliere valore legale al titolo di studio e così far fuori tutti i diplomifici. Infatti , oggi, lo scandalo è in tutte quelle scuole private dove si possono “comprare” con facilità diplomi e dove in un anno si fanno tre anni di scuola e dove i docenti non vengono neanche pagati perché si accontentano di lavorare soltanto ai fini del punteggio. Questo è il vero scandalo della scuola. Poi è evidente che ci sono sia scuole statali sia scuole private serie, così come ce ne sono di meno serie. Forse la soluzione è nel buono scuola che le famiglie possono decidere di spendere in una scuola piuttosto che in un'altra a prescindere se è statale o privata. Corrado Salemi, via Web
La scuola pubblica è un arcipelago frastagliato e difficile. La giro da anni come cronista free-lance che va ad incontrare i ragazzi, ove chiamato, sui temi dell'informazione e delle sue insidie, delle sue strutture e dinamiche, dei suoi retroscena, del pericolo di totemizzarla, di internet e dei suoi pericoli. La mia esperienza con gli studenti, e con diversi insegnanti, è sempre stata più che positiva, spesso esaltante, talvolta commovente. Per esempio, sono reduce da un incontro all'istituto Montani di Fermo, lo stesso dove studiò mio padre, e dove ho riscontrato assoluta correttezza e cortesia in tutti: dalla preside agli insegnanti al personale, fino agli stessi studenti. Davvero un istituto-modello. Ma non va sempre così bene. Per esperienza personale, ho spesso trovato una minoranza di ragazzi sensati schiacciata dagli sbruffoni, gli esteti della contestazione approssimativa sovvenzionati da
professori di stralunate nostalgie. Mi limito ad un paio di episodi, premettendo che quando entro in un istituto ci arrivo preceduto dalla fama di antiberlusconiano. Episodio numero uno, in un liceo delle Marche, un paio d'anni fa. Si parla di scrittura, di narrativa civile. Espongo le mie perplessità su Gomorra e su Saviano e vengo investito come un tifone da una professoressa di Lettere. La conosco da anni, è una progressista, fieramente antiberlusconiana, si può dire che è una mia lettrice, le ho anche passato alcuni miei libri, abbiamo trascorso diverse occasioni in modo disteso, simpatico, manifestandoci vicendevole stima. Ma adesso non la riconosco più, una Erinni scatenata, teorizza la scontata e fallace equazione Saviano uguale antiBerlusconi uguale libertà, martirio e democrazia. Non sono proprio uno sprovveduto, ho frequentato l'antimafia parolaia, sto nel mestiere da 20 anni, provo ad esporre le dinamiche dell'editoria in funzione del mercato e della politica ma è inutile, lei arriva al punto da vergognarsi platealmente di me, mi accusa di non so quale nefandezza e nella sua polemica coinvolge, per estensione, gli allievi, già divisi per una piccola questione interna. Vado via non stupito ma un po' deluso. Un paio di giorni dopo riceverò le scuse della prof, la quale non sa spiegare, mi dice, il suo scatto di nervi e di maleducazione. Io invece me lo spiego benissimo, ma evito di tornarci su. Episodio numero due. Un liceo del Sud, poco più d'un anno fa. Debbo tenere un ciclo di lezioni, ma già sul finire della prima mattina mi
accorgo che qualcosa non va. Non nei ragazzi, che anzi seguono al punto da pretendere una estensione dell'incontro oltre gli orari concordati. Non se ne vanno a zonzo, vogliono restare lì con me, nel cinema affittato per l'occasione. Ma alcuni insegnanti si oppongono con argomenti speciosi. Una in particolare, tronfia, saccente, mi, attacca accusandomi di non essere abbastanza antiberlusconiano. Rispondo che non è quella la sede, quella è una scuola e io di informazione mi occupo, non di propaganda: sarebbe fin troppo facile strumentalizzare ragazzi che invece sono qui per cercare di capire, di orientarsi. Ma la docente, sempre di Lettere, insiste, afferma che “votare è un preciso dovere sancito dalla Costituzione” e a quel punto non posso non contraddirla: la Costituzione riconosce anche quella particolare manifestazione del consenso che consiste nell'astensione, ed è proprio questo che distingue un regime liberale da uno autoritario o totalitario: dove “si deve” votare per forza, e ovviamente a senso unico, non c'è libertà e non c'è democrazia. La prof polemizza, s'incazza, mi trascina per i capelli in un litigio tutto ideologico sotto gli occhi dei ragazzi esterrefatti, mi accusa di non dire abbastanza chiaramente che siamo "sotto un regime", con tutto quel che ne consegue. Replico duramente, la sfido a tirar fuori la doppia tessera, del partito e del sindacato-scuola che probabilmente l'hanno imposta lì dov'è. Lei s'indigna, strepita, nega, minaccia ma io insisto nella mia richiesta polemica e alla fine quella cede: “Ma scusi, ma a lei chi gliel'ha detto, come fa a saperlo?”. Finisce con gli studenti schierati, sì, ma dalla mia parte mentre lei, scornata, va a lamentarsi col preside, che adotterà le opportune rappresaglie. Più avanti, su un giornaletto on line del luogo, troverò una ricostruzione talmente offensiva e distorcente della mia esperienza in quella scuola, da vedermi costretto a pretendere una smentita a mezzo avvocato: cosa che avviene, unitamente a patetiche scuse e al solito scaricabarile, che si conclude addosso a un paio di allievi un po' troppo zelanti, minorenni, dunque non punibili. Ho alcune centinaia di studenti quali testimoni, alcuni dei quali poi sono diventati miei lettori insieme ai loro genitori. E possiedo anche le videoregistrazioni delle lezioni, che pretendo ogni volta sapendo che andrò incontro a situazioni di questo genere. Quelle di un giornalista che entra in una scuola e gli viene espressamente richiesto non di parlare di ciò per cui è stato invitato, ma di fare militanza, di schierarsi. Dalla parte giusta.
Massimo Del Papa
La professoressa Zetti, nell'anno scolastico 2009/2010 insegna agli allievi di 3^ media.
Nelle sue lezioni si è peritata di impartire lezioni di storia recente e contemporanea esemplari.
Fondamentali i concetti per cui il mondo senza gli USA starebbe meglio, perchè sono guerrafondai, ed il fatto che Stalin era amato dal popolo e quindi non era un dittatore, mentre Berlusconi è un tiranno perchè il popolo lo odia e non lo vuole. Tenuto conto che la figlia eccelle e non è influenzata da tali perle, e teme molto le reazioni della Prof in caso di nostro reclamo presso la Direzione didattica, lasciamo correre. Avendo peraltro tali comportamenti contribuito a scatenare in nostra figlia una pulsione filo Berlusconiana, che lei tra il serio ed il faceto ogni tanto ostentava, sorgono contrasti con la professoressa. Il prezzo lo paga all'esame di licenza, dove il massimo dei voti, obiettivamente alla portata di mia figlia che è stata premiata tra i migliori alunni della Scuola, viene “perso”, a suo dire, per un atteggiamento decisamente poco collaborativa della prof. Zetti.
Ovviamente può darsi che così non sia, e sia stata l'alunna a mancare; ma da una Prof che definisce Stalin padre della patria ci si può aspettare tutto. Abbiamo iscritto la nostra terzogenita alla stessa Scuola solo dopo avere avuto garanzia che non sarebbe stata “educata” dalla prof.Zetti, che peraltro seguita nel suo modo di porsi, e di porre la Storia ai ragazzi. Ed abbiamo il piacere di vederla educata dal Prof.Airoldi, che possiamo davvero definire un Maestro. Come contraddizione nello stesso ambito scolastico, e specchio della nostra scuola pubblica, non mi pare male. Buon lavoro.
Vincenzo Coppola, Bergamo
Caro Direttore, in italia non vi è traccia di scuola privata. C'è invece la fabbrica di titoli di studio che vengono elargiti dietro il pagamento di importtanti somme di denaro dalle "scuole private " in gran parte dirette e amministrate da istituti religiosi. Mancano quindi i presupposti per una reale
e proficua discussione scuola pubblica e privata. Grazie e buon lavoro
Antonio Mantia
Al direttore - mi congratulo per il suo ritorno televisivo e cerco di sintetizzare quanto ho già avuto modo di discutere con il Sig. Roger Abravanel, che lei di sicuro conosce. Sono una docente di Lettere e Storia (classi di abilitazione 036-037-050) impiegata presso l'Istituto Tecnico per Geometri cittadino. Mi sono laureata a Firenze in Filosofia con il grande Francesco Adorno e poi in Lettere Antiche con suo zio, il compianto Prof. Ferrara Salute, fine conoscitore di politica e grecità. Su suo suggerimento, mi sono iscritta alla SSIS bolognese per la classe 051/052; il risultato? Ricercatori provenienti da Scienze della Formazione, talora parenti (la docente di Antropologia Culturale), talora amanti conclamati (la professoressa di Didattica 1) di professori di quella Facoltà; manuali scritti dagli insegnanti, in gran parte non universitari ma liceali; poi un esame di Didattica Generale sul modello inarrivabile di Barbiana, uno di Didattica dell'Italiano su Come un romanzo di Pennac, uno di Letteratura su un libro del Prof. Fabbroni (mi dispiace non averlo, l'ho inviato ad Abravanel), che dipingeva la sfida fra l'allora ministro Fioroni e Berlusconi come la partita a scacchi fra il protagonista e la Morte del film di Bergman. L'esame di Informatica si sosteneva con il marito della Direttrice di Dipartimento, nostra insegnante nonché autrice del manuale in uso. In Geografia ci siamo beati con la bellezza dell'urbanistica sovietica, in Storia, indovini? I partigiani buoni contro i malvagi repubblichini. A tutti 30, a me, nipote di nonni RSI uccisi a maggio 1945 e portatrice di un cognome non mio (la “damnatio memoriae”) 28, forse perché ho parlato delle vendette private dei “resistenti”. Questo per la SSIS; il concorso del 1999/2000 invece si era svolto in perfetta regolarità e senza reclami, malgrado l'enorme numero di partecipanti.
Quanto alla mia scuola: da due o tre anni molti di noi stanno cercando di riportarvi dignità e meritocrazia; il risultato è un buon successo professionale dei nostri diplomati, ma un' alta percentuale di bocciature e ritiri, con conseguente contrazione delle classi e allontanamento dei docenti precari o rimasti agli ultimi posti della graduatoria di Istituto. Il Dirigente Scolastico, nel Collegio di due giorni fa, ci ha fatto chiaramente capire che questa strada non va bene e, nelle rare occasioni in cui lo vediamo, non manca mai di appoggiare “a prescindere” richieste e lamentele degli studenti. In questa situazione e con genitori sempre pronti a difendere i figli, anche contro l'evidenza, è molto difficile lavorare. Ultima notazione: la tendenziosità dei manuali in uso di Storia ed Educazione alla Cittadinanza. Se ha voglia, troverà delle “perle” nel volumetto della grecista-girotondina Eva Cantarella (la foto di Giuliani, vittima incolpevole nel paragrafo sull' abuso di potere della Polizia, la foto di Bossi in quello sugli attentatori all'Unità e alla Costituzione...); vedrà anche che certi argomenti (foibe, occupazione sovietica dell'Ungheria, finanziamenti russi al PCI, partigiani e faide, armeni, khmer...) sono tabù, mentre è chiara la posizione filo-palestinese, anti-americana, assolutamente laicista. Anche il progetto di Ceccherini sul “Quotidiano in classe” è, in molti casi, politicamente pilotato, a meno di non considerare il Corriere della Sera un quotidiano indipendente. Potrei aggiungere molte altre considerazioni, ma credo di aver già delineato un quadro abbastanza chiaro; resto a sua disposizione per ulteriori chiarimenti o se necessita del materiale citato; Cordialità (me lo scriveva sempre suo zio ad ogni revisione della tesi!).
Patrizia Martinella
Al direttore – La mia non può che essere una testimonianza molto limitata avendo un solo figlio che oggi fa la terza Liceo Scientifico ed avendo egli frequentato solo tre istituti, due privati ed uno pubblico. Per la cronaca mio figlio ha fatto tutte le classi inferiori e le medie presso scuole private di lingua inglese per apprendere bene la lingua, quindi lo abbiamo portato al liceo pubblico perchè avesse modo di confrontarsi con lo spaccato di società e la cultura del Paese nel quale vive.
I due fatti degni di nota che vorrei segnalare sono, in primo, rappresentati dal 'metodo educativo' che appare chiaro, strutturato, equilibrato tra teoria ed applicazione pratica e ben rodato nelle scuola private in confronto ad insegnamenti spesso più dottrinali, meno flessibili, certamente meno empatici e coinvolgenti della struttura pubblica. Il secondo aspetto è dato dalla eccessiva dispersione dei comportamenti e dell'impostazione educativa e relazionale con gli alunni da parte del corpo docente che, nella scuola pubblica, pur avendo in media buoni insegnati si manifesta in alcuni casi in atteggiamenti che travalicano il ruolo di insegnamento ma si vogliono arrogare il ruolo di 'giudici', 'educatori' e 'censori a 360°' dell'alunno come persona. In tali casi ho trovato professori che pensavano di dovere educare mio figlio come persona, il che avrebbe potuto avere senso in una certa misura a condizione che ci fosse un confronto e dialogo con i genitori, cosa assolutamente mancante. Chiaramente in questi pochi episodi il nostro giudizio di genitori non ha mai corrisposto con quanto riteniamo sarebbe stato utile all'educazione del ragazzo. Per foruna parliamo di situazioni gestibili e rimediabili e di una persona che ha un ottimo rendimento scolastico, cio non di meno avrebbero fatto molto più danno se il ragazzo non fosse molto equilibarto e/o non avesse la capacità di performare bene.
Fabian Piaggio
Al direttore - ho sempre studiato nel pubblico tranne il liceo. Anni di formazione fondamentale vista l'età. Presso i Padri Scoloppi ho trovato di positivo: cura dei docenti per noi studenti, docenti giovani e motivati, la scuola era come una famiglia tra docenti, alunni, segretarie, giardiniere tuttofare (anche barista). Negativo: si è scelto di agevolare i 4 che avevano vinto la borsa di studio all'inizio del 1° anno anche se già dal 3° solo 1 su 4 se lo meritavano, ambiente troppo chiuso e perciò scarsissima palestra di vita, per quanto i docenti fossero giovani e motivati non si sono preoccupati di arrivare neanche alla storia del '900 e anche la parte fatta risulta molto lacunosa, l'ora di religione non era a scelta, si faceva e basta. Sono uscita dal liceo molto impreparata per il mondo dell'università sia caratterialmente che culturalmente per quanto soddisfatta del rapporto umano. A 18 anni non ero assolutamente in grado di sapere chi votare, perché l'ora di lettura quotidiani la passavamo a parlare di altro, le spiegazioni di storia troppo da manuale,etc. Confrontandomi con amici coetanei, chi usciva dal liceo linguistico e scientifico mi batteva 10 a 0 su qualsiasi materia! grande sconforto personale, anche perché i miei hanno speso non poco in 5 anni. Direi di potenziare a 1000 il pubblico anche perché non trovo giusto che chi può pagare abbia maggiori opportunità. Non siamo in Gran Bretagna o negli USA e non invidio quel sistema. Un mio carissimo amico con 25mila sterline spese per un anno della Business University of London il lavoro non l'ha trovato, l'ha comprato! La meritocrazia dov'è?? Lettrice sconsolata di ricevere 500 euro al mese con contratti di massimo 5 mesi.
Sabrina Mascia
Ho una figlia sola, ormai sposata e mamma a sua volta. Io e mia moglie siamo stati educati nel rispetto di valori che assoluti: sacralità della vita, matrimonio tra persone di sesso diverso e indissolubile (esiste anche la separazione non solo il divorzio), tutela della proprietà privata e del risparmio, crescita sociale ed economica in base al merito. Pur provenendo da famiglie diverse (la mia cattolica, quella di mia moglie comunista atea) su questi valori la convergenza è stata assoluta.
Erano i primi anni 80 e gli strascichi del 68 erano decisamente pesanti (come lo sono purtroppo ancora). La scelta della scuola privata cattolica è stata assolutamente ovvia: non potevamo rischiare di mettere nostra figlia nelle mani di maestri che potessero non essere allineati ai nostri valori.
Troppo piccola la bimba e troppo influenzabile. Noi eravamo e siamo i genitori ed a noi spettava il compito di aiutarla a crescere nel discernimento critico di ciò che la circondava (amici, televisione, compagni di scuola). Di darle quel metro di giudizio che, nel bene e nel male, l'avrebbe accompagnata per tutta la vita. Certo avremmo potuto trovare ottimi insegnanti (ma quelli che ha avuto lo sono stati e ... sempre presenti. La maestra delle elementari non è cambiata per tutti i cinque anni ed è stata assente per non più di qualche giorno), ma l'educazione di un figlio non è una roulette: può uscire il nero ma se esce il rosso?? E ce la siamo anche pagata per intero, perché contributi non ce n'erano e abbiamo sempre vissuto solo del nostro lavoro.
Se l'attuale società è disgregata possiamo solo dar la colpa al mancato rispetto dei valori che vogliamo/dobbiamo trasmettere ai nostri figli: il matrimonio ormai è una burletta (citazione dalla moglie di Peppone in un film di Don Camillo)!!! Per aiutare qualcuno che soffriva per un matrimonio sbagliato, lo abbiamo svuotato di qualsiasi significato. Esistono gli aborti clandestini? Semplice, legalizziamoli. Esistono anche i furti e gli omicidi: cosa vogliamo fare? Hai risparmiato e ti sei comprato una seconda casa: malissimo, redistribuiamo con una bella patrimoniale. I soliti predicatori parlano sempre di merito, ma com'è che in parlamento, nei giornali, televisioni ed aziende pubbliche i cognomi sono sempre gli stessi? Da ultimo scopro che nemmeno la democrazia va più bene. Certo chi non la pensa e non vota come noi vorremmo o è un corrotto o uno stupido, quindi togliamogli il voto. Come uscire da questo ginepraio se non con l'impegno costante di tutti?
Luigi Santi
Fino a 12 anni ho frequentato la scuola in Germania (4 anni di Grundschule + 3 anni di Gymnasium). Poi sono venuto in Italia e mi sono iscritto alla terza media. Aiutavo i miei nuovi compagni a fare matematica e inglese, mentre loro mi davano una mano con l'italiano. Devo dire che in fondo non mi dispiaceva poi tanto passare da un metodo teutonico "Ordnung und Disziplin" a un metodo "casino e libertà tantoallafineinqualchemodotipromuovono". Dopo la terza media, da giugno a settembre, sono andato a lavorare in una ditta di marmi. Condizioni familiari ed economiche non mi permettevano di continuare gli studi. Ma alla fine mia madre, forse vedendo le mie condizioni dovute a 10/12 ore di duro lavoro quotidiano, mi obbligò a lasciare il lavoro e ad iscriviermi a una scuola statale. Criteri di scelta: quella più vicina e quella dove si studia tedesco. Ci andai con l'idea che tanto l'avrei abbandonata presto e mi sarei trovato un'altro lavoro. Ma successe un imprevisto. L'insegnante di italiano e quello di religione si appassionarono a me e alla mia storia ed io mi appssionai alle loro materie: italiano, storia e religione. Matematica, inglese e tedesco non erano un problema e così la scuola statale di Limbiate, grazie ad alcuni insegnanti, fu per me l'inizio di una nuova vita. Gli anni successivi incontrai altri insegnanti. Mi ricordo quello di geografia che usava le sue lezioni per parlare della questione palestinese o quello di italiano del terzo anno che non accettava di avere un alunno palestinese che credeva in Dio, nella Chiesa cattolica e nel diritto all'esistenza e alla difesa di Israele. Grazie agli insegnati di CL ho imparato ad appassionarmi a Leopardi che poi ho portato agli esami di maturità. Sono stati anni bellissimi. Sicuramente per alcune materie, come geografia e matematica, se gli insegnanti avessero fatto meno olitica,forse avrei imparato qualcosa in più. Comunque mi sono divertito un sacco:le assemblee, andare a lezione quando la maggioranza andava a manifestare. Sempre in direzione ostinata e contraria. Fantastico. Mia figlia maggiore ha frequentato dalle elementari alle superiori una scuola paritaria. Ora è al primo anno di farmacia. Per le elementari abbiamo cercato una scuola dove ci fosse una maestra unica, o comunque una maestra di riferimento che fosse in "armonia" con le altre maestre sul metodo di insegnare ed educare i bambini. E' stata un'esperienza positiva sia per lei che per noi. Abbiamo trovato insegnanti che hanno saputo valorizzare le attitudini di nostra figlia. Lei si è molto appassionata alle materie scientifiche. Nostro figlio ha frequentato la scuola paritaria alle elementari e alle medie. Ora frequenta la prima liceo in una scuola statale ed è stato lui a richiedere di frequentare una scuola statale. Posso dire che durante gli anni delle elementari e soprattutto delle medie ha imparato una certa visione critica della realtà che ora vuole mettere in pratica e verificare anche nel mondo della statale.
Daniel Masnour, Saronno
La solita vecchia diatriba ideologica tra la scuola pubblica e privata è facilmente risolvibile con un espediente di logica imprenditoriale che nulla centra con l'indottrinamento scolastico o qualsiasi altra faziosità indecorosamente rispolverata in questi giorni di discussione pubblica: quando il tuo legittimo concorrente raggiunge standard qualitativi di ottimo livello, non ti resta che uguagliarlo o soccombere nei livelli sottostanti.
Se fossi un genitore, e se potessi permettermi rette private, è ovvio che garantirei alla mia prole, per il loro interesse, un insegnamento di ottimo livello che, stando alla quotidiana realtà, si trova solo nelle scuole private.
Poi che tutto il resto non corrisponda alle nostre aspettative razionali di miglioramento sociale, quello è un discorso dalle logiche contorte che mi sembra inutile continuare a ricalcare.
Paolo Gervasio
Ore 10,00, Sala dei Professori
-“Guardi Signora che il livello di applicazione di suo figlio è stato ampiamente deficitario lungo tutto l'anno scolastico.
- Non lo discuto, professore; so bene che il ragazzo si applica con una certa difficoltà. Però... nel contempo mi permetto di dire, che forse andrebbe stimolato.
- Già, è vero, Signora, che i ragazzi vanno stimolati, però Lei converrà che educare è persuadere ma anche, quando è necessario farlo, dissuadere. E' un po' quello che facciamo come genitori, o no?
- Certo, certo, professore, Lei ha ragione... però, sa com'è, i ragazzi oggi si scoraggiano facilmente e quindi vanno capiti... .
- Io direi, cara signora, che più che capiti vanno stimolati a superare le difficoltà attraverso un discorso chiaro che faccia comprendere loro che il raggiungimento degli obiettivi, nella scuola come nella vita, comporta sempre un po' di sacrificio. E' inevitabile, e direi anche giusto, che suo figlio si abitui a considerare lo sforzo come parte ineliminabile del suo lavoro di studente.
- Ecco, veda professore, forse è proprio questa sua visione 'malinconica' e sofferente della vita che scoraggia mio figlio.
- Guardi Signora che per quello che io posso capire di me stesso io non mi sento né malinconico né sofferente; anzi, se negli anni ho capito una cosa di me è che la scuola mi mette allegria, che i ragazzi mi mettono allegria. E stia tranquilla che anche suo figlio ha di me una percezione niente affatto penitenziale... .
- Non dico questo, professore. Ma se lei fosse meno netto in certe sollecitazioni a studiare, se lei abbassasse un po' l'asticella delle sue aspettative, beh forse tutto si sistemerebbe”.
- "E' proprio questo il punto, Signora; che io non posso, non devo né voglio abbassare l'asticella. Non solo per le ragioni di cui le spiegavo prima, ma soprattutto perché ho imparato che, con i ragazzi, più si abbassa l'asticella e meno rendono, più si pretende da loro e forse qualche risultato verrà.
- Ecco vede, professore, perché io dico che Lei è un po' arcaico; invece di rendere la sua materia appetibile, commestibile a palati interessati ma non adusi alle questioni filosofiche, Lei all'inverso li scoraggia, i nostri ragazzi con la sua visione tenebrosa dell'esistenza.
- Signora cara, guardi, quando Lei mi dice che io sarei un po' arcaico, io non mi offendo mica, sa; anzi, penso che un po' tutti qui a scuola dovremmo essere arcaici. E sa perché? Perché questi nostri ragazzi, lì fuori, sono bombardati da una tale gragnuola di sciocchezze "attuali" e "contemporanee" che io penso che la scuola, se ha ancora un senso, debba spiattellare sotto il loro muso solo questioni arcaiche, in modo che i ragazzi possano misurare la distanza tra il loro mondo e quello arcaico e così fare due conti e due valutazioni. Quanto poi alla commestibilità e alla piacevolezza del mio approccio didattico, le faccio notare che io non faccio né il cuoco né l'intrattenitore. Io, se Lei ancora consente, insegno filosofia e tento di farlo nel modo più rigoroso e interessante che posso.
- Mah...non riesco a capire, caro professore, come con queste sue idee non le si rivoltino le classi contro e come Lei possa mantenere questo suo aplomb anglosassone...
- Cara Signora, non è escluso che un domani mi si rivoltino le classi contro; soprattutto se i genitori dei ragazzi dovessero assomigliarle sempre più. Per adesso, invece, le devo dire che le cose vanno abbastanza bene e che il rapporto con i miei allievi mi rinfranca da certe discussioni oziose e palesemente pretestuose come questa. E adesso la saluto, perché non vorrei tediare oltre misura la sua vocazione di donna moderna a contatto con un pezzo da museo. E' meglio che torni in classe a martirizzare studenti che, peraltro, mi attendono con il piacere di essere martirizzati. Arrivederci Signora”.
Gennaro Lubrano Di Diego, docente di Filosofia presso l'ISIS Antonio Serra, Napoli
Sono uscito dalla scuola nel 1994, approfittando di una legge, la ennesima, che consentiva di andar via dopo trenta anni di servizio. Ovviamente con una pensione proporzionata agli anni. Il motivo da ricercare principalmente nell'enorme appiattimento sia a livello docente che discente. Un insegnante che faceva il proprio dovere, che si aggiornava per conto suo spendendo del suo ( i corsi di aggiornamento sono venuti ben dopo), che preparava le lezioni, alla fin fine veniva considerato, economicamente, come uno che apparteneva alla categoria “ lassativi”.: appena possibile saltava le lezioni, si assentava, in classe leggeva il giornale, le sue spiegazioni andavano da pagina x a pagina y. Sei a tutti gli alunni anche senza interrogazioni per non inimicarsi la base e stroncare mugugni e malcontenti. Sul fronte opposto ragazzi che mostravano di apprezzare il merito. Si studiava per apprendere di più e giustamente si voleva essere giudicati con metro diverso dagli altri. Ma il vento delle innovazioni era già spirato. E frotte di docenti di sinistra inculcavano nelle masse che la cultura d'elite non serve, che la scuola è di tutti e che anche i figli degli operai devo o andare avanti, non solo quelli dei professionisti. Ed andare avanti significava essere promossi anche un parecchie insufficienze in pagella. Poco alla volta si stava creando la scuola degli asini, quelli col diploma facile e garantito, perché senza non si va da nessuna una parte. Ed allora se prima la licenza media la si dava a tanti, il diploma lo si è dato a tutti. Ed ecco le università piene di gente decisa a prendere la laurea nello stesso modo in cui han preso il diploma. E poi non ci si deve meravigliare se in Calabria i medici anziché curare ammazzano sistematicamente i poveri pazienti.
Ecco solo alcuni degli aspetti della scola degli anni 90 come li ha visti uno che poi ha preferito andare via.
Carlo Desgro
Al direttore, desidero raccontare quello che mi è capitato. Vorrei elevare un inno alla scuola statale. Vi sono entrato ateo e ne sono uscito cattolico pieno di ragioni. Ho frequentato le prime tre elementari nel borgo natìo a Viverone, allora provincia di Vercelli: ottima maestra, che mi deve avere costretto a scrivere con la destra, visto che per tutto il resto sono mancino (ma non di
sinistra). Poi la quarta e quinta alla scuola di viale Mugello di Milano, dove ho patito la fatica del passaggio alla grande città, ma con un maestro (Grassi) che con il suo entusiasmo "sportivo"(era un ex atleta) mi ha reso lieti quegli anni. Poi la scuola media di piazza Ascoli, con una insegnante di lettere dolce e melanconica (non aveva figli), che con pazienza raffinò la mia pelle
campestrre e mi fece persino amare il latino. Ricordo con tenerezza l'andata (a piedi) a scuola con il mio compagno Beppe Viola, fervente milanista, che mi confessava già allora di voler fare da grande il giornalista sportivo. A proposito di futuro, la prof di lettere chiese a tutti come avremmo proseguito gli studi: io dissi che avrei voluto iscrivermi alla scuola alberghiera, visto che mio padre era un grande barman. Invece, senza che ne avessimo parlato in casa (allora non c'era molta "democrazia" in famiglia), mi ritrovai iascritto al liceo ginnasio Berchet di via Commenda. Non finirò mai di benedire questa piccola e involontaria "violenza" di mio padre, perchè in quella scuola statale avvenne l'incontro più importante della mia vita. Infatti, in quella scuola, insieme a professori discutibili, ma di grande spessore culturale (quasi tutti
orientati a sinistra), insegnava anche don Luigi Giussani, che aveva lasciato i comodi studi accademici del seminario ambrosiano per immergersi a tempo pieno, anzi pienissimo, nell'agone educativo dentro la scuola statale. Il don "Gius"
trentenne era una forza della natura. Certo, entusiasta, impetuoso, intelligente, comprensivo. Le sue lezioni erano appassionanti: molti di noi erano polemici con lui per via della cultura dominante intorno a noi, ma egli ci induceva a ragionare, a non tralasciare le domande fondamentali della notra vita, a confrontarci con la realtà che stavamo vivendo. Proprio sul tema della ragione avvenivano i dibattiti più infuocati. Memorabile fu un dibattito avvenuto, durante il cambio dell'ora alla porta della mia classe. Don Giussani aveva appena finito la sua lezione proprio parlando di ragione. Mentre egli usciva, entrava il professore di filosofia, al quale il sacerdote chiese: "ma che concetto di ragione insegnate a questi ragazzi ?" Ne nacque una discussione
accalorata tra i due professori, a cui tutta la classe assistette con grande interesse e partecipazione. Devo dire che quella fu la prima volta che la posizione di don Giussani mi convinse: infatti, il filosofo diceva che se uno non era stato in America poteva anche dire che tale continente non esisteva perchè lui non l'aveva visto nè con i propri occhi nè con la propria ragione; il prete, invece, sosteneva che era ragionevole affermare che lAmerica esiste
anche da parte di chi non ci fosse mai stato. Comunque, l'ascolto delle lezioni di quel grande professore e la frequentazione (dapprima saltuaria e timida) di coloro che cominciavano a seguirlo fecero in modo che quando uscii dal liceo avevo la certezza che cristianesimo poteva costituire la più seria ipotesi
con cui affrontare tutta (dico tutta) la vita. E così è stato: si
tranquillizino i moralisti, ciò non ha voluto dire non sbagliare. Ma ha voluto dire riprendere instancabilmente e quotidianamente il cammino. Così, quando il mio primo figlio ebbe tre anni e ci fu il problema della scelta scolastica un gruppo di famiglie amiche si pose seri interrogativi. Eravamo nel 1971: la scuola statale ci sembrava immersa in una grande confusione, mentre la scuola c.
d. privata ci sembrava troppo formale rispetto alla sostanza che noi avevamo trovato nell'esperienza di don Giussani. Scegliemmo, allora, una terza via e costituimmo una cooperativa di genitori con lo scopo di gestire una scuola che rispettasse le nostre esigenze educative. Cominciammo l'esperienza della
materna con sei (sic!) bambini, poi il numero crebbe abbastanza velocemente ed ora quell'esperienza si è strutturata in una scuola materna,elementare e media, che solo a Milano ospita più di ottocento allievi. Ma non solo: quel metodo è stato applicato in molte città d'Italia e ha dato vita anche ad una elaborazione culturale che ora ha qualcosa di importante da dire in campo
pedagogico. Il frutto più impotante è stata la coscienza che il compito educativo è quello più importante per un adulto, ma anche il più affascinante, perchè costringe l'adulto a rimettersi continuamente in gioco. Don Giussani, terminando un suo intervento al Meeting di Rimini, ci disse:"vi auguro una sola
cosa. di non stare mai tranquilli".
Giuseppe Zola
Pubblico e privato, atletica e nuoto. Nel nuoto l'Italia ha ottenuto negli anni recenti risultati molto positivi a livello internazionale, mentre ai mondiali o alle olimpiadi di atletica leggera il nostro medagliere è desolatamente vuoto (o quasi). Ad impegnarsi a far nuotare i nostri ragazzi sono le mamme, che iscrivono i loro figli ai corsi e li accompagnano in piscina: è l'iniziativa privata favorita dalla presenza di molti centri diffusi un po' ovunque sul territorio. Per l'atletica, che ha bisogno di attrezzature più complesse, mancano indubbiamente le infrastrutture e quelle poche che esistono sono spesso malamente utilizzate: frequento, come altri maratoneti amatori, uno stadio nella zona nord di Roma e al mattino (a noi interessa il sabato) questo impianto ci è precluso perché è riservato agli studenti di alcune scuole del quartiere. Una fortuna per loro: poter disporre di piste, pedane, attrezzi……
Senonché è veramente triste assistere allo spettacolo di docenti e allievi stravaccati su panche e muretti, con le sigarette che pendono dalle labbra e solo pochi volenterosi che si trascinano sulle piste abbozzando qualcosa che potrebbe somigliare ad una corsa. Potrebbe essere un'occasione per fare qualcosa di buono: invece molto spesso è un'occasione sprecata.
Enrico Venturoli
Gentile Direttore - Sono il padre di un quattordicenne che frequenta la III media. Scuola privata dalla I elementare come me d'altra parte (gesuiti fino alla maturità con soddisfazione mia e dei miei, ormai tanti anni fa). Mia moglie, invece, sostenitrice e frequentatrice della scuola pubblica almeno finchè non si è trattato di scegliere per nostro figlio. Sull'argomento si scontrano ideologia e pragmatismo più altre questioni non dette o solo accennate (ambiente, amicizie, comodità, disponibilità economiche). Io non penso che la scuola privata sia migliore della pubblica, sostengo (per quanto sia possibile generalizzare) la non inferiorità.
In una delle tante discussioni sostenute per difendere la nostra scelta (perché di questo si tratta mentre non capita mai che chi sceglie la scuola pubblica debba difendersi da attacchi più o meno livorosi), parlando con un'insegnante di scuola pubblica vidi cadere d'incanto tutte le sue obiezioni quando feci notare che sia io che mia moglie lavoriamo. E si perché evidentemente la scuola pubblica prevede che in larga misura uno dei genitori, la madre preferibilmente, stia a casa a disposizione ogni qualvolta la scuola pubblica chiude (occupazioni, elezioni, ferie più o meno prolungate) oppure decide che per assemblee, doppi turni, scioperi o altro gli orari vengono modificati anche senza preavviso. Questo argomento pratico viene declassato ad argomento prosaico dagli alti cantori della scuola pubblica così come l'argomento continuità didattica.
Io penso che la continuità di frequenza, di studio, di contatto con insegnanti e compagni sia formativa non meno dei programmi di studio. La vita degli adulti è fatta di continuità fino, talora, alla monotonia ed è necessario che i ragazzi si abituino alla regolarità del lavoro. Di contro trovo l'irregolarità dello studio destruente e fonte sia di illusioni che di distacco dalla realtà. Mio figlio viene continuamente sottoposto a verifiche, ha un compito in classe in tutte le materie ogni mese e ha la possibilità sia di valutare quanto sa sia di recuperare quando va male, senza fare drammi. Diversa e più triste è la condizione di chi, come capita nella scuola pubblica secondo i racconti di amici, fa un compito in classe a quadrimestre.
Seguo con attenzione gli studi di mio figlio, giudico complessivamente buona la qualità degli insegnanti che ha avuto finora e, cosa non secondaria, trovo importante che non abbia avuto la ventura di vedere alternarsi titolari e supplenti come spesso succede in altri ambienti.
Sono certo che in altri posti in Italia la scuola pubblica offre quanto cerchiamo per nostro figlio, qui da noi non è così. C'è un problema però che riguarda tutti ed è l'impostazione della scuola primaria e media. Negli ultimi 15-20 anni abbiamo assistito da un lato al peggioramento degli effetti formativi (secondo tutti gli osservatori i nostri studenti fanno peggio dei loro coetanei europei in matematica, lingue straniere, materie scientifiche. I laureati in legge vengono bocciati al concorso in magistratura per gli errori di grammatica) mentre dall'altro i programmi si sono fatti sempre più vasti e velleitari. Credo ci sia un nesso tra i due fenomeni e ho un'ampia casistica disponibile. Ne parliamo in un'altra occasione.
Cordiali saluti
Luigi Majello
Signor Direttore,
ho frequentato la scuola elementare dal 1957 al 1962 presso l'istituto dei Fratelli delle Scuole Cristiane di Viareggio e vi ho appreso (lo capisco ora che sono quasi vecchio) i fondamenti della vita. I miei genitori non erano cattolici praticanti: la ragione principale per cui mi iscrissero a una scuola privata religiosa fu che i "pretini" (così li chiamavano allora i miei concittadini) accettavano anche i bambini di cinque anni e papà e mamma avevano deciso che il primo dei loro tre figli doveva uscire di casa (sono, come Lei, del 1952). Ricordo poco del maestro di prima (fratel Eugenio), che aveva insegnato a Tripoli, dove i Fratelli avevano allora un fiorente istituto. Un po' di più di quello di seconda e terza (fratel Angelino), che era anche il direttore e si divideva fra la nostra classe e le incombenze della direzione. Ma mi ricordo tutto del maestro di quarta e di quinta, fratel Felice, al secolo Walter Verbenesi, di gran lunga il miglior insegnante che abbia avuto in tutta la mia vicenda scolastica e poi universitaria. Credo che avesse l'età di mia madre (classe 1931) e quindi allora doveva essere sulla trentina. Era piemontese (come la stragrande maggioranza dei "pretini") e tifava per il Toro. Credo sia ancora vivo e vorrei ancora poterlo incontrare: l'ultima volta che l'ho visto fu quando venne a chiudere la scuola che era stata fondata a Viareggio nel 1909: correva l'anno 1975. La prima cosa che ci insegnò era che lui sopportava tutto, ma non la menzogna: quindi, se facevamo qualche sbaglio, lo dovevamo confessare francamente e saremmo stati facilmente perdonati. Ma guai se avessimo detto una bugia o dato la colpa a qualcun altro! Queste cose le diceva con una tale forza che nessuno poteva dubitare che realmente si sarebbe comportato così. L'orario scolastico era ancora quello delle scuole di fine Ottocento: dalle 9 alle 12 e poi dalle 14 alle 16. Ma si poteva mangiare a scuola e fare anche un doposcuola, dalle 16 alle 17. Quindi molti di noi stavano dai "pretini" dalle 9 alle 17: ma il giovedì era festa. La prima mezz'ora fratel Felice ci insegnava religione: non le filastrocche umanitarie del catechismo di oggi, ma frammenti di teologia e di storia sacra, che mi sono portato dietro tutta la vita: studiavamo a memoria buona parte del catechismo di S. Pio X. Poi cominciavano le lezioni vere e proprie: il lunedì il dettato, il martedì il problema, il mercoledì il tema, il venerdì la grammatica, il sabato il riassunto. Fratel Felice, fra l'altro, si dimostrò maestro incomparabile di grammatica italiana e di analisi logica (ho vissuto di rendita poi alle scuole medie e al ginnasio), di geometria e soprattutto di storia: religioso piemontese e patriota, ci presentò una visione cavouriana del Risorgimento nazionale (il 1961 festeggiammo il centenario dell'unità d'Italia), a cui i miei studi successivi hanno aggiunto poco. Le gare di analisi grammaticale fra gli alunni erano dei giganteschi ed estenuanti tornei, in cui chi non sbagliava restava a sedere al suo posto, gli altri cominciavano a girare per i muri della classe (i gruppi del 9, quelli dell'8 e così via). Le ricreazioni nel vasto cortile ombreggiato da enormi platani erano esplosioni di energie compresse dal duro esercizio scolastico: allora portavamo tutti i pantaloni corti e avevamo le ginocchia martoriate dalle continue cadute. Imparammo a giocare a ping pong e facemmo interminabili tornei di biliardino. Fratel Felice fondò un giornalino di classe: "Ragazzi alla ribalta" si chiamò quello di quarta, "Onda giovanile" quello di quinta. Veniva stampato col ciclostile ad alcool ed usciva ogni 15 giorni: era oggetto delle cure di una piccola redazione, che spesso restava a scuola dopo le 17, quando tutti erano andati via. Il sabato mattina veniva il priore della chiesa di S. Paolino a confessarci e la domenica alle 9 tutti alla Messa del fanciullo. Nel mese di giugno, nel pomeriggio, i Fratelli ci portavano al mare: si mettevano in costume da bagno anche loro e organizzavano un giro d'Italia a tappe: ogni giorno costruivamo una immensa pista di sabbia con le montagne, su cui si inseguivano le nostre biglie colorate. Questo e molto altro ho avuto dalla scuola versiliese dei Fratelli delle Scuole Cristiane: ancora oggi prego ogni giorno per loro.
Distinti saluti
Roberto Pertici
Vorrei dire, a proposito delle affermazioni di Berlusconi sulla scuola pubblica, che ha perfettamente ragione.
Sono una docente della scuola pubblica (precisamente insegno Matematica nella Scuola media) e posso confermare che molti colleghi che ho avuto modo di conoscere negli anni approfittano della loro posizione per fare politica di sinistra in classe.
Secondo me la politica, sia essa di destra che di sinistra, non dovrebbe mai essere trattata nella scuola perchè è troppo facile influenzare delle giovani menti che in fondo sono ancora plasmabili. Posso confermare senza tema di smentita, che nel liceo frequentato da mia figlia l'anno scorso c'era un'insegnante che faceva preparare vignette satiriche su Berlusconi durante l'ora di storia. Noi docenti dobbiamo renderci conto che nella nostra posizione abbiamo ancora molto potere sui nostri ragazzi ed è da vigliacchi approfittarne. Il nostro compito è invece quello, molto più formativo, di dare agli alunni tutti gli elementi di riflessione e di ragionamento con i quali poi, una volta cresciuti, potranno fare le loro scelte consapevoli e mature, e non quello di portarli a conclusioni che sono solo le nostre e non le loro. In più vorrei aggiungere che nella Scuola pubblica non ci sono solo docenti politicizzati, ma alcuni anche ignoranti, lavativi o inadeguati a svolgere un compito così delicato come quello di insegnare. Sono numerosi i casi di colleghi incontrati durante la mia venticinquennale carriera, che a mio parere rubavano letteralmente lo stipendio, assentandosi per finte malattie, nascondendosi dietro varie scuse, o semplicemente spesso fuori dall'aula perchè impegnati in attività che avrebbero dovuto svolgere alla fine della propria lezione e per le quali venivano anche pagati. Tutto questo senza contare i ritardatari cronici, i polemici, quelli con disturbi della personalità ecc. Costoro non solo non portano avanti con serietà il proprio lavoro, ma contribuiscono a creare un clima negativo a scuola, nel quale restano coinvolti anche i ragazzi e che disturba la giusta serenità con cui si dovrebbe operare. Inoltre danneggiano l'immagine dei docenti, la maggior parte dei quali invece fa in silenzio il proprio dovere. Il nostro è un lavoro bellissimo che ci mette a contatto con i ragazzi, i giovani che saranno il futuro della nostra società e abbiamo nei loro confronti il dovere di comportarci al meglio delle nostre possibilità con entusiasmo e serietà.
Clotilde D'Ambrosio
Testimonianza personale.Vengo dal liceo classico di stato Andrea Doria di Genova: spartano, molto severo e rinomato. Altri prudentemente preferivano istituti privati gestiti da religiosi, come LaRecco (gesuiti) e Vittorino Da Feltre (barnabiti).
Tutte scuole eccellenti, per contenuti culturali e qualità didattica. Al Doria veniva attuata una selezione spietata, che comunque garantiva una piena formazione umanistico- letteraria: uscirne con il diploma di maturità rappresentava un titolo di vanto per la futura classe dirigente genovese.Per lo più marxista l'orientamento degli insegnanti e dei testi - storia: Saitta, letteratura: Sapegno. I coetanei della Recco e del Vittorino testimoniano di studi altrettanto rigorosi, ma di ambienti meno rigidi. Anche lì c''erano ottimi insegnanti, laici e religiosi: nessuno comunque doveva indottrinare nessuno, non c'erano verità ufficiali e la religione era una materia come le altre.
Riflessione. Non so se contrapporre ideologicamente scuola pubblica e privata abbia ancora senso, Il punto è piuttosto la qualità didattica di tutta la scuola. Un tempo il problema era la scolarizzazione. Oggi è l'analfebetismo dei laureti.
Gianluca Caffarena
Al Direttore - Ho avuto l'occasione di conoscere la scuola statale “dall'interno”, come insegnante nella scuola primaria dal 2001, e nella scuola secondaria di secondo grado dal 2007 come insegnante di Lettere, negli istituti e nei licei. Dopo una discreta e seria parentesi in una scuola primaria milanese, tornata in Umbria, ho potuto sperimentare direttamente i meccanismi fallati del nostro sistema scolastico, allorché gli insegnanti pongono al bando, fin dalla scuola primaria, assieme al nozionismo, anche ogni forma di irrinunciabile istruzione, dalle tabelline alle coniugazioni dei verbi, passando attraverso le essenziali nozioni storico-geografiche, in nome di una fantomatica e astratta, spesso ideologizzata “formazione”, che dovrebbe avvenire, miracolosamente, senza il benché minimo supporto mnemonico; o in forza della loro stessa scarsa preparazione. Ho sentito dirigenti scolastici affermare che “è più importante nella scuola primaria che i bambini striscino per terra e si divertano piuttosto che apprendere l'Italiano”; ho fronteggiato alcune mamme-chiocce (poche, a onor del vero, perché solitamente nella scuola primaria i genitori esigono ancora un'istruzione seria) e tante colleghe arroccate nella difesa del loro posto fisso (e timorose di doversi rimettere in discussione) che mi accusavano di esercitare una “pressione psicologica” sui bambini perché insegnavo loro la grammatica, la geografia italiana, e pretendevo memorizzazione di regole e poesie, esercitazioni costanti e svolgimento dei compiti per casa. Giunta alla scuola superiore, ho accolto allievi provenienti dalla “scuola media” che dicevano di aver affrontato, coi loro professori, Dante e Manzoni, ma che non sapevano leggere in maniera fluida ed espressiva, né scrivere senza eclatanti e diffusi errori ortografici, né esporre il loro pensiero in maniera sintatticamente corretta e comprensibile; alcuni non sapevano più scrivere in corsivo né tantomeno leggerlo; altri non erano in grado di collocare la Francia sulla carta geografica dell'Europa; ho sentito, sempre nella nostra scuola superiore italiana, alunni lamentarsi di docenti che, chiusa la porta dell'aula, alla prima chiassata, minacciano: “Fate come vi pare, tanto io lo stipendio lo prendo lo stesso.” E ho assistito, inerme e triste, a futuri geometri, arrabbiati e demotivati, urlarmi addosso: “Lei ci dice di studiare, ma chi ce lo fa fare se poi tanto qui vengono tutti promossi…?” Argomentazione inappuntabile: la scuola italiana misura il proprio scacco attraverso le loro parole; le manca il tassello essenziale di una credibile “restituzione”.
Ma il più fresco e divertente esempio della melma in cui la nostra scuola sta goffamente annaspando posso offrirlo, in esclusiva, attraverso alcune perle tratte dagli Esami di maturità (?!) della scorsa estate, durante i quali ho fatto il commissario esterno di Italiano e Storia, presso un istituto statale umbro. Preziosismi-tutti-lautamente-premiati:
“Kubrick grande cinofilo” (Una svista? No… il tema principale dell'esame orale)
“Baudelaire scriveva certe poesie… mica storielle come Manzoni!”
“D'Annunzio parla che il Superuomo è…”
“Ma per Shopenauer è possibile superare le passioni e raggiungere l'ascesi?” “Eh…mhh …beh… no! Perché… perché l'omo è omo!”
“Cristo è stato morto in croce”
“…l'autore descrive l'orrendità dello sterminio degli Ebrei”
La lingua italiana è un optional, si sa… “è l'emozione che tira brutti scherzi…”; “i contenuti spesso sono trascurabili, l'importante è che l'alunno si sappia muovere” (ma muovere dove?!); “perché un diploma nella vita è indispensabile…” e suvvia, “non facciamo male a nessuno se regaliamo un 60…” (ma che ne pensa chi ha studiato?!); “perché in fondo qualcosina ha detto e… nella vita serve anche sapersi vendere” (caspita, questa sì che è una scuola di valori…!).
E questo, badate, lo dicono i proff. che se ne intendono, i più, spesso quelli d'esperienza, quelli con tanti, ma tanti anni d'insegnamento sul groppone, quelli che, di fronte ad un candidato che fa scena muta, ti dicono, con occhio languido: “Poverino, dobbiamo capirlo… ha tanti –ma- tanti- problemi alle spalle” (dando per scontato che chi studia di problemi non ne abbia); oppure, con un immancabile sorrisetto ironico: “di più non può dare” (id est: è intellettivamente limitato, ergo va promosso!); o addirittura: “no, un altro anno in questa scuola non lo sopporteremmo…”. Nobili motivazioni, certo, a sostegno della promozione…
Sono quei proff. che ti sbattono in faccia i loro dottorati, e poi, quando dovrebbero valutare un alunno in base al merito o al demerito, li ripongono e si lavano accuratamente le mani. Per non avere problemi di coscienza o per non avere problemi, punto (Dio ci risparmi i ricorsi…!). E se osi divergere dal coro? Se avanzi la proposta di una valutazione più equa e lucida? Turbi la normalità. E meriti gli insulti. POVERA POVERA POVERA SCUOLA ITALIANA…
Una delle considerazioni possibili da avanzare è che la scuola fallisce quando non comprende che la valutazione, una valutazione basata su criteri meritocratici il più possibile obiettivi e standardizzati, è l'anello terminale e irrinunciabile del processo di insegnamento; e l'insegnante che rinuncia a valutare seriamente (per eccesso o difetto di coscienziosità, questo non conta), abdica al proprio ruolo e vanifica tutto il percorso. E, lascito ancor più grave, consegna in eredità ai propri alunni un pericoloso messaggio, quello per cui nella vita, come nella scuola, vada avanti, sgomitando, il furbo e non il meritevole, e possa far strada senza fatica, senza impegno; un messaggio che arriva come una risata grottesca e mortificante in faccia a quegli allievi che, invece, si sono applicati nello studio con impegno e caparbietà.
In questi miei primi dieci anni di insegnamento, ho conosciuto numerosi colleghi: diversi uomini e donne di cultura, alcune brave persone, ma pochissimi veri insegnanti, rarissimi professionisti realmente intenzionati a “restituire” all'alunno la fotografia del suo lavoro scolastico. L'insegnamento è fatto di cultura, carisma, capacità empatica, ma anche e soprattutto del coraggio di una scelta, al momento della valutazione, una scelta ponderata, responsabile ed onesta, ispirata ad un semplice, basilare, imprescindibile criterio di equità, che non significa –e qui si nasconde l'insidia- dare a tutti il massimo, ma dare a ciascuno il giusto in base al merito. O almeno provarci.
Parola di insegnante giovane (o quasi), ancora un po' studentessa e già sufficientemente disorientata…
Tiziana Piernera
Scuola pubblica, venerdì sera 4 marzo: festa di carnevale in aula magna. Fin qui tutto ok, discutibile l'assenza totale di figure adulte come presenza opportuna di educatori. La festa si svolge riproponendo il classico modello, un po' spersonalizzato e individualista, in un clima generale di non-senso. Poi la solita gara dei costumi + votati e relativa premiazione. Il tutto accompagnato dal suono di una band di amici. Eppure, come sempre, qualcuno deve provocare un certo scalpore e l'occasione del travestimento e' ideale. Uno studente sceglie di travestirsi da Gesu' Cristo con tanto di croce e di corona di spine. Un altro decide di salire sul palco brandendo e "suonando" la croce come una chitarra. Io non so se Berlusconi ha o meno ragione a parlar di indottrinamento ideologico nelle nostre scuole pubbliche. Certamente si parla tanto di pluralismo e liberta' nella scuola pubblica, ma si registra una malsana diseducazione alla verita'. Un gesto cosi irrispettoso e blasfemo, rivolto ad esponenti di altre note religioni "minori"avrebbe causato un terremoto mediatico (de'ja'voue). Non e' certo quello che desidero x il mio paese, vedere e pagare questo spettacolo di cultura menzognera e anticristiana. Ne' tantomeno si puo' pensare di educare i giovani senza difendere le radici del passato e del presente della nostra cultura.
Antonio Lasi
Ho studiato, prima della guerra, presso il Liceo "Giulio Cesare", di Roma. Un liceo prettamente gentiliano. Il mio linbro di testo per la storia della letteratura italiana era del gobettiano Natalino Sapegno.
Angiolo Bandinelli
L'estetica della menzogna all'origine del nulla: “La scuola pubblica inculca agli studenti cose diverse da quelle insegnate dalle famiglie” aveva detto B. ad un convegno dei cristiani riformisti. Si disputa sul nulla del nulla. Paradossale e beffardo.
Già nel termine “inculcare” si annida il vulnus dell'oratore: non un minimo di coscienza, non dico di un'estetica del linguaggio, ma nemmeno di una elementare conoscenza della ricchezza della lingua italiana che la dice lunga sul suo patrimonio culturale e sulla facoltà di possedere un linguaggio appena decente per il ruolo che ricopre facendo tutt'uno, invece, con gli strafalcioni ed i luoghi comuni di un suo uso povero ed omofono, con parole ormai anonime che non comunicano più nulla se non il livello (in questo caso primitivo) di scolarizzazione del parlante.
Avrei voluto sentire, per questo, un poderoso affondo contro tali affermazioni di inaudita violenza e nullità da parte di qualche prof della scuola pubblica italiana e non la promozione di un minuto di silenzio inviato urbi et orbi da tale professoressa Avantario (La Repubblica del 02/03/2011) nel contesto di assordante silenzio in cui versa l'istituzione scuola ed i suoi più esposti operatori (si dice così): gli insegnanti. Questo ancora oggi. Era il 2004, se non ricordo male, e fra i tanti e consueti auguri di fine anno di un collega di filosofia si leggeva: “il prossimo anno la scuola pubblica finirà di soffrire”. Profetico. Amaro. Vero. Siamo arrivati a febbraio 2011, mi dico, e questi rispondono e si mobilitano, pensate un po', con un sms, mentre proprio noi insegnanti, per primi ad avvertirne i segni, avremmo dovuto, non dico organizzare un'opposizione ma tentare almeno un'ermeneutica del “virtuale”, avendo tra le mani (solo che lo si voglia) il più potente antidoto al profeta della mistificazione e della menzogna: il piacere di insegnare.
Ricordo, ora, la mia prof. di liceo, una veneta emigrata a Milano, quando per un concetto, un'idea o un pensiero che sembrava sfuggirci ci esortava a ripartire da uno strumento semplice ma potentissimo che abbiamo sempre con noi: la parola.
Aveva colto proprio nel segno: nella parola in-segnare, dal lat. in-signo, è rintracciabile non solo il significato ma soprattutto quell'etica di cui tutti oggi siamo pronti a denunciarne la perdita. È proprio questo il primo passo quotidiano di chi si trova a svolgere l'ufficio di insegnante: la coscienza di essere in-signito e di portare con sé, nei suoi gesti quotidiani e nei suoi uffici, un modello di valori di riferimento, dei quali una società come la nostra, completamente disorientata ed impaurita, ha ormai vitale bisogno.
La perdita di valori così urlata e così disattesi è, infatti, quel vuoto di testimonianza allo stesso modo come non potremmo far uso di un bel mobile senza la fatica del suo artigiano, di una casa senza il suo architetto e dell'impresa che l'ha poi realizzata.
E tutto questo, per fare l'insegnante è niente. Chi insegna non insegna perché ha vinto un concorso o è in cima ad una graduatoria ma dovrebbe farlo perché vuole promuovere una visione della vita dandone testimonianza in prima persona, mettendo in gioco se stesso per un'idea, per una visione del mondo e della società, facendosi umile strumento tra i tanti, per una dialettica concreta e quotidiana con i ragazzi. Mettersi in gioco. Ecco il prof. capace di far innamorare i ragazzi della pesante logica kantiana o dei profondi ed immensi notturni leopardiani giocandoli tra un Ronaldo ed una maschera di carnevale, saltando dalla pizzica ad un bel piatto di orecchiette.
La professione di insegnante non richiede solo competenze culturali, ma capacità di comunicazione e di fascinazione perché, da Socrate in poi, è da queste che prende il via la molla per l'apprendimento. Si dimentica tutto questo o, peggio, lo si disconosce (fa comodo un po' a tutti), e tuttavia resta imperdonabile proprio per quei soggetti che portano già nel nome il segno del loro lavoro, del loro vivere sociale perché proprio gli stessi dovrebbero essere quelle sentinelle che accendono i fuochi prima che scenda la notte e le tenebre avvolgano ogni cosa: “Te lucis ante terminum, rerum creator poscimus……..recita Dante. (Purgatorio, canto VIII )
Il fallimento della scuola, infatti, non è nei tanti tentativi di riforma che i vari governi succedutisi hanno provato (si fa ancora finta di non capirlo, segno più che altro, di sedimentata povertà intellettuale: quella di Gentile resta ancora così moderna e difficilmente emendabile, almeno nelle sue impostazioni ideali) ma negli attori che hanno anonimamente e comicamente occupato ed usurpato la scena. Lo dico da collaboratore e da docente precario: vedere il vuoto umano e culturale di tanti colleghi mi ha fornito il perché di questa pericolosa deriva populista e demagogica che l'Italia ha imboccato da oltre 20 anni.
E le gratificazioni economiche insufficienti sono un comodo alibi per tutti: è una pena vedere i soldi dei tanti progetti, insignificanti ed inutili, che si spartiscono i vari comitati di inetti insediati in tutte le scuole italiane. E' una tragedia. Una commedia. Tutto vero, però, come la plateale impotenza e l'altrettanta incapacità di insegnare di molti docenti. Al nord, come al sud. Dei dirigenti scolastici non trovo ancora parole che possano descriverne lo stato di salute mentale in cui versano. Un mondo alla rovescia come i medievali erano soliti descrivere i tempi a venire: gli asini suonano la lira......! Dicono della fine delle ideologie ed, invece, c'è più che mai bisogno di idee e di parole che dicono, mentre tutto è un rincorrersi inesausto di verbalismi impersonali fino alla ubriacatura di notizie che, alla pari delle merci, ci vengono confezionate e poi vendute. Tutti parlano e continuamente. L'eccesso di chiacchiera rende difficile intendere. Modesta è anche la sapienza dei discorsi. Vige il rumore. Del resto, però, se proprio la categoria che dovrebbe essere il riferimento intellettuale e culturale di un paese è stata capace di promuovere e far passare porcate di questo tipo è anche perché questa società è prigioniera essa stessa di un imbarbarimento civile e morale mai registrato nella storia di questo paese. E l'elemento barbaro, qui citato, non può essere inteso facendo ricorso al fenomeno storico di quelle invasioni che causarono la caduta dell'impero romano e che, invece, esse stesse contribuirono con il loro impeto a rinnovare e a rifondare nella futura e comune identità europea.
Barbaro è il vuoto umano, la debordante volgarità dei sentimenti, l'oscena messa in scena di un vuoto protagonismo verbale, buono solo ad occultare l'inezia neanche tanto strisciante quanto ormai così innaturale da risultare disumana ed offensiva. Altro la flaccidezza altrui. Se solo vi cogliesse un gesto di indignazione umana, dovreste smetterla di lanciare messaggi a salve e capire dapprima quanto potente possa essere un'idea: quella forza capace di rivoluzionare il corso della storia partendo dalle piccole cose quotidiane, semplici, condivise. L'idea, ad esempio, che a scuola gli insegnanti possano apprendere dalle parole dei ragazzi, dai loro occhi, dalle loro inquietudini e dalle loro speranze più di quanto riescano a trasmettere con le loro nozioni codificate ed anonime. Se non vi coglie nessun fremito quando la mattina entrate in una calda aula dove pulsano vite che chiedono solo di essere accarezzate, allora andate via, lasciate quello scranno, fate un gesto di umana dignità e di cristiana carità perché chi ha scelto(!!!) di insegnare sappia che nelle sue mani, nei suoi gesti, nel suo respiro, nel suo cuore scorre l'amore per il sapere che non è qualcosa di astratto come si potrebbe pensare ma l'amore più grande che l'umanità porta nel grembo dal suo inizio: l'Amore per la vita.
Antonio Rocco Corvaglia
Spett.le Il Foglio - colgo l'occasione per raccontare la mia esperienza di docente universitario in una Facoltà scientifica, in merito alla scuola pubblica e privata.
Fermo restando che vi sono ancora (poche) eccellenze in entrambi i campi, è sempre più raro trovare studenti al primo anno di Università in grado di sostenere con decoro un esame.
Non solo si conferma la mancanza di un vocabolario minimo per comunicare, ma in particolare la totale incapacità ad impostare un discorso o colloquio che dir si voglia.
Negli anni successivi al primo si assiste o all'abbandono precoce o ad una selezione micidiale, pur restando sempre al minimo di una soglia accettabile. Qualora si chieda ad un candidato la propria provenienza dalla scuola superiore, si verificano due casi: 1) rispondono, ma con un minimo di reticenza (si vergognano???); 2) invocano alla Legge sulla Privacy e non rispondono (si vergognano!!!). Riguardo alla provenienza, quando accertabile, il Liceo Classico conferma il suo valore aggiunto rispetto a tutti gli altri indirizzi. Tuttavia, nell'ambito privato, i Licei parificati/privati gestiti da religiosi (Salesiani, Scolopi, etc.) si rivelano di buona qualità; solo pochi Licei pubblici di storica tradizione rimangono a galla, ma con molti cedimenti rispetto al loro glorioso passato che li hanno distinti. La sperimentazione liceale inoltre non sembra dare i propri frutti, e concludo dicendo che al 90% la scelta del percorso post 3 media inferiore è spesso inquinato da promesse e da propagande fumose (vedi Open Days) che poi si rivelano delle vere e proprie bufale!
Riccardo Baldini (Docente Università di Firenze)
Docenti anche noi (prima nelle superiori, poi nell'Università),
abbiamo sempre cercato di trasmettere ai nostri figli alcuni valori
per noi fondamentali: il senso di responsabilità e di dovere, il
rispetto e l'educazione, lo stare a posto con la propria coscienza, il saper imparare anche dalle esperienze negative (anzi, soprattutto da quelle, cercando di capire la natura degli errori per poterli
correggere), avere fiducia nei docenti, non fissarsi sui voti, ma sul
percorso di studio, e così via... Ma come fare a spiegare ad un
ragazzo di II liceo classico, alle prese con un compito di greco su
cui tutta la classe ha evidenti difficoltà (perché sono cambiati
continuamente gli insegnanti e tutti hanno voluto ricominciare
dall'inizio, così da lasciare la classe sempre allo stesso punto), che ha fatto bene a fare come ha fatto? Cioè a non copiare la versione da Internet (dal 2° telefonino, perché il 1° viene regolarmente consegnato e poi il prof. non controlla più tra i banchi,) ma a volerla fare da solo e, dunque, a prendere un misero 5 e mezzo, invece del 7 preso dalla maggior parte dei suoi compagni? Noi continueremo a ripetergli che per noi vale molto di più il suo 5 e mezzo, che qualsiasi altro voto preso con l'inganno. Più di questo...
Giuliana Iurlano
A Bologna a Casaglia su per San Luca, in alto in mezzo al verde c'è la scuola elementare Longhena.Il sindaco Dozza dopo le bombe l' aveva riaggiustata ,aveva messo una lapide a ricordo delle vittime e ci mandava anche gli alunni “difficili”raccolti da tutte le scuole della città. Quando quelli con la famiglia norm
ale tornavano a casa, i “ caratteriali” restavano a dormire nella vicina Villa Puglioli :un collegio. Col '68 si è deistituzionalizzato , abbandonata all'umido e ai piccioni la villa, tutti giù distribuiti nelle classi normali. Per la scuola Longhena però è rimasto fino all'anno scorso l'obbligo del certificato medico per gli alunni non di stradario e questo, insieme al costo del trasporto sui colli, l'hanno fatta diventare la scuola più richiesta di Bologna: aria buona, buone classi senza stranieri se non adottati, sempre la prima a mandare in piazza gli alunni contro la Gelmini . A Bologna i genitori fighi non hanno bisogno di mandare i rampolli alla scuola dei preti: l'elementare Longhena è pubblica al punto giusto.
Oriano Zanarini
Caro Direttore, prendo il diploma in una scuola pubblica di milano nella quale, ovviamente e come in tutte le scuole pubbliche, si fa indottrinamento. La frequento nel cuore degli anni '90, quindi i professori ,oltre alle solite pratiche di conversione per i convertiti e per chi ancora non lo è ( incitamento alle manifestazioni, cambiare il sistema, entrare in classe con Rep., che belli i film di Moretti, ecc...) sono ancora più sbattuti causa la discesa in campo del Cav. Coi temi di italiano me la cavo bene, il mio 7 lo porto a casa abbastanza di frequente. Un giorno, avrò avuto 16/17 anni, la prof di italiano che entra in classe con Rep.( e dal quale trae spunti per la conversazione), ci fa fare un tema in classe con argomento "l'immigrazione in Italia". Faccio il mio bel temino scritto grammaticalmente bene e, siccome si doveva spiegare cosa se ne pensasse degli immigrati in italia, scrivo che un immigrato deve rispettare la legge ed i modi di vivere italiani; in maniera più specifica, spiego che la regola " sono poveri, non trovano lavoro= crimine sempre giustificato" (scuola Rep), a me non va bene. Passa qualche giorno, consegna i temi e mi appioppa un bel 5. Il 5 non lo capisco, vado alla cattedra e chiedo spiegazioni davanti a tutti i miei compagni di classe: in maniera dolce ( classico...), mi fa capire sono stato razzista. Avrei l'onestà intellettuale per riconoscerlo, se fosse così, ma lei niente...
Alberto Martini
Mi chiamo Rosa Armellino ed insegno in un'Istituto Comprensivo, N. Romeo, nella provincia di Napoli. La platea scolastica è medio bassa, la loro provenienza sociale è eterogenea, pochi provengono da famiglie laureate, e molti hanno genitori che a stento hanno preso la licenza media. A casa molti parlano il dialetto e per alcuni la scuola non è un valore che i genitori sostengono, alcuni se fanno venire a scuola i loro figli è solo per timore che gli assistenti sociali possano intervenire nelle questioni familiari o che i carabinieri possano venire a conoscenza dell'evasione scolastica dei loro figli, fastidio che cercano in tutti i modi d'evitarsi. Non è raro che dei genitori siano agli arresti domiciliari, in carcere o che i ragazzi stessi vivano in case famiglia, essi stessi oggetto di violenze familiari. Accanto a questa realtà difficile convive, però, anche una buona fetta di alunni che è seguita e stimolata dalle famiglie e che vengono volentieri a scuola. Gli insegnanti lavorano con grande impegno utilizzando tutte le risorse. Certo è difficile barcamenarsi fra le esigenze ministeriali che impongono test, prove oggettive per promuovere una scuola delle competenze e di valorizzazione delle eccellenze, quando quello che per noi viene in primo piano nella nostro impegno giornaliero coi ragazzi è di trasmettere dei saperi, dei valori e delle conoscenze che devono sostenere innanzi tutto lo sviluppo soggettivo di ogni singolo alunno, per dare loro un opportunità diversa di crescita al fine di maturare una scelta conforme o nuova rispetto a quanto la famiglia di provenienza ha potuto offrire. Questo comporta per noi mantenere il nostro desiderio d'insegnanti e non tramutarci in psicologi, assistenti sociali o altro, far assaporare il gusto del sapere, far comprendere che la STORIA e i SAPERI sono le risposte che di volta in volta gli uomini si sono dati alle domande fondamentali riguardanti il senso della vita, coniugare l'uso della tecnologia alle normali tecniche d'apprendimento (la nostra scuola è cablata, dotata di sala informatica, laboratorio linguistico e LIM) e guidarli nell'uso d'internet (un blog della scuola con link selezionati è stato creato a tale scopo www.gliasininonesistono.com). Ogni attività viene valorizzata affinché i più svantaggiati possano trovare un proprio modo per agganciarsi e entrare nel sistema scolastico, per questo sono attivi diversi laboratori pomeridiani non solo di recupero e potenziamento, ma anche artistici. Esiste,poi, una sala biblioteca dove i ragazzi sono invitati a scoprire il piacere della lettura (non è un successo se un'alunna ripetente vi dice "prof. non ho potuto staccarmi dal libro che mi ha consigliato, BUIO di Dacia Maraini" ?) ed una sala video dove vengono proiettati e discussi film classici e contemporanei come Io non ho paura di G. Salvatores, Oliver Twist di R. Polansky e La schivata di Abdellatif Kechice i cui protagonisti della banlieu parigina molto hanno in comune con la periferia napoletana. Come loro, infatti, i nostri alunni sono alle prese con l'acquisizione di una lingua di cui appropriarsi per esprimere i loro sentimenti ed autorizzarsi a crescere, per sciogliere i vincoli libidici familiari e investire su legami nuovi. Tutto questo, brevemente elencato, non ci sembra poco, ma quello che vorremmo è che la scuola non sia lasciata sola a svolgere questa funzione di accompagnamento delle nuove generazioni, che altri intervengano a sostenerci di fronte a difficoltà dei ragazzi che non sono di nostra competenza (quanti ragazzi con blocchi nell'apprendimento, DSA, iperattività o altri problemi) ma che il territorio non prende in carico per carenza di personale (psicologi dell'età evolutiva, neuropsichiatri infantili) nelle Unità Materno Infantili. Credo che chi lavora nelle scuole sa che insegnare non è un semplice intervento di travaso di nozioni, ma sia un lavoro complesso che tiene conto di molteplici fattori e che può essere sostenuto solo se si ha la forza di saper coniugare le esigenze del singolo con quelle della società, ma sempre a favore delle soluzioni soggettive di ogni alunno uno per uno ed una per una.
prof. Rosa Armellino
Cercherò di essere breve. ecco elencate alcune chicche (culturalmente e pedagogicamente devastanti) per gli adolescenti:
1.mio figlio quest'anno frequenta il 5° scientifico, al primo anno la prof.ssa (di italano e latino) ha dato da leggere ai ragazzini di 13\14 anni "Margherita dolce vita" di stefano benni dove la ragazzina racconta che abitualmente il nonno e il padre si maturbano e anche lei con molta naturalezza si trastulla con la zampetta di un orsacchiotto (verso pagina 80) !!
3. la stessa prof.ssa, forse con la sindrome di peter pan, e con manifesti atteggiamenti da adolescente, afferma che è meglio non studiare e non stressarsi perchè tanto ...
3. con tale presupposto dall'inizio dell'anno ha iniziato ad interrogare questa settimana
4. invece il prof. di filosofia e storia non interroga mai, il libro per lui è uno strumento non necessario e mette da 6 a 10 come voto politico, basta seguire in classe, ma sapranno mai argomentare concetti complessi questi ragazzi ?
5. lo stesso prof. parla spesso solo del 1968, delle sue crisi di separazione e problemi familiari, ha chiesto un aiuto ai ragazzi per il trasloco... le figure forti di cui hanno bisogno i giovani sono spariti, a cominciare dai padri... se faccio notare queste cose in famiglia sono isolato e guardato male !
Che tutti gli insegnanti siano demotivati, stanchi e tirano a sopravvivere è un fatto oramai diffusissimo grave, sono stato angosciato ma dopo tanto tempo ci si abitua a tutto, anche gli altri genitori sono rassegnati e\o spaventati di ritorsioni contro i ragazzi...è la dittatura del relativismo, povera società del futuro... questa iniziativa è già qualcosa.
Filippo Vannelli
Al direttore - Sono un docente delle superiori, precario da anni e però appassionato al mio mestiere. Oggi qui dentro si vive in un limbo di vecchie impostazioni pedagogiche, piccole novità ad effetto, incertezze lavorative e miserie salariali, anarchismo sui grandi asset del sistema e centralismo su piccolezze burocratiche. I professori comprendono molte categorie, dal fancazzista nato all'anziana frustrata all'ideologo barricadero fermo ai mitici'70. Ma ci sono anche molti colleghi che nel silenzio e con dedizione svolgono il loro lavoro artigiano, e magari s'impegnano senza retribuzioni aggiuntive in mille progetti divincolandosi tra le pastoie ministeriali. I ragazzi vivono l'era del gaio nichilismo con apparente spensieratezza e profonda disperazione, a noi tocca un immane lavoro educativo che spesso le famiglie non si prendono più la briga di accollarsi - laddove le famiglie esistano ancora.
Da questo quadro a tinte fosche dove però non mancano fasci di luce proiettati da esperienze e scuole particolari, docenti geniali o semplicemente dalla splendida imprevedibilità dell'adolescenza, si potrebbe forse uscire con due-tre principi fondamentali: 1) La scuola autonoma significa anche autonomia nella scelta degli insegnanti da parte dei presidi sulla base di graduatorie esistenti (sono ad esaurimento) e di nuovo conio, sollecitati al meglio da una reale (non nominale come ora) parificazione tra scuole pubbliche e private. 2) Valutazione dei docenti, non come nell'attuale sperimentazione da parte di un improbabile commissione composta dal preside e da due colleghi interni, ma da rigorose e ministeriali commissioni esterne, con monitoraggio costante dei risultati degli studenti non solo sulla base di test - ma anche a partire dalle condizioni di partenza. Niente scatti d'anzianità, ma sul merito in campo. 3) Consiglio di amministrazione con società esterne 'sponsor', genitori, alunni e docenti, docenti universitari o esperti dei vari rami: per collegare la scuola alla società, per godere di finanze che permettano edifici confortevoli con strumenti di lavoro adeguati.
So che in parte la riforma Gelmini verterebbe su questi principi. Ma uso il condizionale, perchè finora si sono visti solo tagli e trovate propagandistiche (l'ora scolastica da 60 minuti quando i ragazzi informatizzati ed ipercinetici di oggi riducono sempre più i loro tempi d'attenzione e concentrazione).
In ogni caso e sempre, W la scuola, indispensabile palestra di vita.
Alberto Ferrari
In provincia di Varese vi sono vari IPSIA. Sono molto frequentati
soprattutto da studenti che fanno fatica. Sono ragazzi che scrivono
frasi come: “ Ho visto hai telegiornali ecc..”. Purtroppo non sanno la
grammatica. Domandare loro la differenza tra un verbo e una preposizione
articolata sarebbe troppo. E tuttavia certe insegnanti pretendono di
insegnare l'analisi del periodo facendo loro distinguere una subordinata
esplicita da una subordinata implicita. Ora però alcune di queste
insegnanti hanno una propria fantasia e sanno inventare quotidianamente
sempre nuove frasi per aiutare gli alunni. ( Un vero stillicidio
quotidiano ). Ne cito una testualmente: “Per fare andare bene le cose
bisogna cambiare governo”. Chi salverà i nostri quindicenni?
Paolo Tamborini
Gentili foglianti,
vi invio alcune righe sulla mia storia, se potete farne qualcosa, a voi la palla. Mi chiamo Angela Pegoretti, vivo a Verona. Sono sposata con un insegnante cattolico che insegna in una scuola pubblica. Io ho quasi trentasei e lui trentanove. Ci conosciamo dai tempi dell'università, quando entrambi aspiravamo alla carriera universitaria. Io in quanto donna laureata in materie umanistiche ho dovuto lasciare subito, lui ha continuato a lavorare come professore a contratto (1999-2008). Più che una paga, riceveva un'incentivo a non abbandonare gli studenti universitari.
Mio marito ha quindi saggiamente cercato un'altra fonte di mantenimento, anche perché nel frattempo io mi sono ammalata. Da sette anni sono costretta in casa, senza sapere bene da che male sono afflitta. Posso ritenermi "fortunata" perché lo Stato mi ha ritenuta "invalida" al 75% e così ricevo un lauto assegno di invalidità di 246€ mensili (che devo rendere nel caso una qualsiasi attività lavorativa mi facesse guadagnare più di 4.000 "euri").
Ha trovato posto, per grazia, presso una scuola media privata, paga da "collaboratore" di una cooperativa.
Scoperto che amava tale professione ha studiato presso la "famigerata" SISS mentre continuava a lavorare in cooperativa e all'università. Ora io ho un problema autoimmune, fibromialgia, che mi impedisce di svolgere la maggior parte delle funzioni "normali" della vita quotidiana. Per quasi due anni non ho che intravisto mio marito a cena e poi a letto (dove dormiva per sfinimento). Due anni fa l'agognata meta, un lavoro dipendente che ci permette di sopravvivere. Ora lui è molto sensibile rispetto al "quanto" guadagna perché è, chissà come mai, convinto di non riuscire a mantenermi (è un uomo! fiero e io sono fiera di averlo sposato); ma vorrei girarla a voi questa domanda. E' possibile che un laureato a 13 anni dalla laurea, dopo 10 anni di lavoro in università e 10 di insegnamento sia preoccupato di non riuscire a mantenere dignitosamente la sua sposa invalida? Che non ci siano scatti di anzianità, se non quelli che generosamente vengono elargiti dalla finanziaria (forse nessuno fino al 2018)? Che non ci sia un premio al merito perché le scuole pubbliche sono contente quando se lo vedono assegnare? Per non parlare del fatto che non possono scegliere di tenerselo e che ogni estate sia una lenta agonia nell'attesa di sapere se dovrà ogni giorno andare anche a 60km di distanza da casa... (sedi possibili in provincia di Verona? Verificate: Castagnaro e Malcesine)
Vi voglio raccontare anche alcuni altri fatti. Dieci anni fa mio marito ha avuto assegnata la sua prima classe, una prima media presso la sede fuori città di una cooperativa di Verona. Ora quegli studenti sono quasi tutti all'università. Non più tardi di un anno fa ci hanno invitati ad una cena di ritrovo per raccontare e raccontarsi le loro vite (per inciso solo quattro dei tanti insegnanti della scuola sono stati invitati). Ogni anno scolastico due o tre studenti gli restano "attaccati". Gli scrivono mail, vengono a trovarlo, lo chiamano per raccontare successi e fallimenti nelle scuole superiori. Lo cercano loro o i loro genitori per avere consigli educativi. Uno di loro ci ha addirittura scelti come madrina e padrino alla cresima. Vi sembra questa la descrizione di un uomo che "riscalda la sedia"? Eppure è così che molte persone lo percepiscono. E' vero, ha "solo" 18 ore di insegnamento alla settimana, altro che le 40 di un operaio. Però mio marito va a scuola alle 7.30 ogni mattina per accogliere gli studenti sulla porta. Anche quando in orario ha "solo" tre ore di lezione non torna mai a casa prima delle 13. Ha un rientro pomeridiano (il lunedì). Ogni settimana ha un ora di udienze e due di reperibilità. Questo è quanto obbligatorio in aula. Però per la materia italiano, per esempio, deve avere 3 voti scritti. Quindi si porta a casa compiti e quaderni per valutare i suoi studenti. Ha la brutta abitudine di non leggere i libri in classe, quindi, poiché ogni anno gli cambiano scuola o classe, deve leggere i libri che andrà a spiegare. Deve compilare dieci registri (quello di classe e per materia, italiano storia e geografia in una classe, italiano e civiltà e costituzione in un'altra, elettronico e cartaceo). Ha la brutta abitudine di non farlo in classe per non togliere 10 minuti di lezione ogni ora e quindi lo fa in aula professori o a casa (online). Se un alunno ha qualche tipo di certificazione (dislessia o disturbi di attenzione sono le più diffuse) è disposto a parlare con i genitori fin dai primi giorni e con gli specialisti, ovviamente fuori "orario retribuito" perché questo tipo di straordinari, che in qualsiasi azienda sarebbero pagati, qui sono lasciati alla libera volontà e non valorizzati in alcun modo, né socialmente, né economicamente e tanto meno personalmente. Tutto è scontato... tanto lavora solo 18 ore a settimana e se ne sta con i piedi in su per il resto del tempo. Anche dei nostri amici (avvocati, commercialisti, rappresentanti di commercio... siamo quasi tutti laureati) sono convinti che mio marito si gratti la pancia da mattino a sera 365 giorni l'anno. Eppure io sono relegata qui in casa ed ho modo di osservarlo. Certo con occhi di moglie innamorata, ma anche di donna invalida (e non prendiamoci in giro con l'eufemismo di diversamente abile... sono socialmente inutile, improduttiva e povera). Io ho bisogno di aiuto per fare quasi ogni cosa, anche qualcuno che mi apra una bottiglia di acqua (non posso bere quella "del sindaco" per via del calcare in essa contenuta), mio marito al mattino controlla che la bottiglia che è in frigo sia aperta. Ma se lui, talvolta, se ne scorda io devo aspettare anche fino a sera, per rivederlo e poter bere!!! Partendo da questo presupposto è ovvio che non posso più fare un'attività semplice come stirare o passare l'aspirapolvere, fare la spesa o lavare i pavimenti. Lui amorevolmente lo fa, ma io devo "prenotare" sulla sua agenda scolastica un pomeriggio alla settimana perché mi aiuti o più facilmente il sabato o la domenica. Certo non possiamo pagare una terza persona che lo faccia per noi... La scorsa estate la nostra "vacanza" si è svolta... in casa, regalandoci qualche consegna di cibo già pronto a domicilio e con tre giorni in agriturismo vicino a delle terme per i miei problemi respiratori. (Per amore di chiarezza e non per spiattellare la mia disgraziata situazione sappiate che sono orfana di padre, mia madre vive in un'altra città dove accudisce sua madre che ha compiuto a gennaio 95 anni, mia suocera vive in città, non ha la patente e deve badare al marito affetto da Alzheimer e Parkinson, sì sì, proprio tutte e due insieme. Io oltre ai problemi reumatologici -fibromialgia e connetivopatia - ho problemi tiroidei, sovrappeso, depressione reattiva, cheratocono ad entrambi gli occhi più al destro a dire il vero , vescica iperattiva, iperostosi frontale e, dulcis in fundo, un osteoma etmoidale; benigno, certo ma vicino al cervello e allo zigomo che mi procura dolori di testa e dolori simili ad una sinusite perenne). Il succo di tutto quello che vi ho raccontato: qual è? Io vedo un grande professionista, un educatore, un insegnante, un uomo che viene schernito e dileggiato per il lavoro che fa, un lavoro che è un po' una missione. Come l'infermiere, il medico, dell'amministratore pubblico. Insomma una di quelle professioni che ha la responsabilità sulla vita di altre persone.
In fondo credo che oggi a scuola, dal nido all'università, gli insegnanti crescano, non solo i nostri figli, ma coloro che ci governeranno. Spero un po' meglio di come è oggi, anche solo poco. E forse anche con un minimo di affetto di più verso questa nobile arte.
Angela Pegoretti
Al direttore - in questo dibattito su scuola pubblica o privata si sta distogliendo l'attenzione da chi dovrebbe essere il vero oggetto del contendere: le persone, i professori e la loro professionalità.
Professori validi, capaci, eccezionali, istruttivi ce ne sono in tutte
le scuole, pubbliche, private, paritarie. Persone che vivono con lo
spirito della missione che hanno da compiere: istruire, docere - come
direbbero i latini - e non necessariamente quel formare, educare,
termini che spesso si trasformano in un piccolo lager psicologico dietro
cui si annidano quei meschino ricatti per cui il voto diventa migliore
se le tue idee... (non nascondiamoci dietro un dito, è accaduto
dappertutto, in pubbliche e private, a destra e a sinistra, e questo è
l'atteggiamento antieducativo da censurare).
Tornando agli uomini, per quanto mi riguarda, io ne ho uno, anzi una, in
particolare, che mi è rimasta cara (sebbene mai più incontrata come
spesso accade). Si chiama Tiziana Broggi, insegnava inglese al liceo
scientifico C. Cattaneo di Torino nella seconda metà degli anni 80.
Cos'aveva di speciale? Trasudava passione. Passione per la sua materia,
voglia di trasmettere, di lasciare qualcosa ai ragazzi che ogni anno
incontrava. A me ha tolto la paura di leggere, scrivere e parlare una
lingua straniera, ha tolto il vizio di pensare in una sola lingua e ha
dato gli strumenti per capire la cultura anglosassone. Non ci parlò
quasi mai di politica. Forse un paio di accenni qui e là, ma per lei era
più importante farci appassionare e divertire sul "Romeo e Giulietta" di
Shakespeare o incuriosirsi (lei) della versione di "The Rhyme Of The
Ancient Mariner" di S. T. coleridge messa in musica dagli Iron Maiden
(ricordo ancora il suo squillante "beautiful" quando entrò in classe
dopo averlo ascoltato). Una persona solare, che trasmetteve energia e
passione. La migliore ricetta per imparare, tanto che alla maturità 18
persone su 27 vollero portare "di prima" o "di seconda" inglese come
materia di esame.Qualche anno dopo la fine del liceo, incontrai una mia ex compagna ad un dibattito politico (erano gli anni del referendum sulle televisioni); fantasticando un po' su quali avrebbero potuto essere le scelte politiche dei nostri ex "profi", la mia compagna, accennando alla
professoressa di inglese se ne usci, un po' spocchiosamente, con un
"sicuramente è di destra" (da cui capii che la mia compagna non lo era).
Non so se la professoressa Broggi fosse di destra. Sicuramente è stata
la migliore.
Cordialmente
Alessandro Malgaroli, Torino


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