Un piano per la Palestina, in fretta
Le dimissioni di George Mitchell da inviato dell'Amministrazione Obama in medio oriente sono l'ultima dimostrazione – se mai ce ne fosse bisogno – di quanto la questione israelo-palestinese sia diventata fuori controllo. In 824 giorni Mitchell, che ieri non ha commentato aspettando l'annuncio ufficiale del presidente, ha fatto da spola tra l'America, Israele, i Territori palestinesi, i vicini arabi, avanti e indietro, senza mai concludere nulla, se non qualche stretta di mano senza alcuna (buona) conseguenza.
Le dimissioni di George Mitchell da inviato dell'Amministrazione Obama in medio oriente sono l'ultima dimostrazione – se mai ce ne fosse bisogno – di quanto la questione israelo-palestinese sia diventata fuori controllo. In 824 giorni Mitchell, che ieri non ha commentato aspettando l'annuncio ufficiale del presidente, ha fatto da spola tra l'America, Israele, i Territori palestinesi, i vicini arabi, avanti e indietro, senza mai concludere nulla, se non qualche stretta di mano senza alcuna (buona) conseguenza. I più sarcastici hanno commentato: s'è dimesso Mitchell, davvero? Perché era ancora al lavoro?
Il problema di Mitchell non era tanto e solo l'incapacità di creare un “momentum” per il rilancio del dialogo israelo-palestinese: il problema di Mitchell è che la Casa Bianca si è ritrovata sguarnita di una strategia a medio termine, mentre i rapporti tra Washington e Gerusalemme andavano via via raffreddandosi. Gli sgarbi dall'una e dall'altra parte sono stati tanti, Obama e il premier israeliano Netanyahu non sono mai riusciti a sintonizzarsi, mentre l'ala più conservatrice del governo israeliano – determinante per la tenuta dell'esecutivo – si è irrigidita sulla costruzione delle abitazioni, creando più di un dissapore diplomatico con gli Stati Uniti. La primavera araba ha complicato i rapporti, soprattutto per quel che riguarda l'Egitto.
Obama ha sostenuto la caduta del rais del Cairo, Hosni Mubarak, mentre Israele spingeva per lo status quo, perché considerava Mubarak un argine al dilagare del fondamentalismo della Fratellanza musulmana nella regione. Ancora una volta i due storici alleati, America e Israele, si sono ritrovati in conflitto e i palestinesi non sono certo restati lì a guardare – come diceva l'ex chief of staff di Obama, Rham Emanuel, “mai sprecare una crisi”. Il rais dell'Anp Abu Mazen ha accelerato la corsa al riconoscimento unilaterale dello stato palestinese da parte delle Nazioni Unite: sulla carta ci sono già i voti sufficienti per ottenere un via libera all'Assemblea generale del prossimo settembre. Hamas, aiutato dai negoziatori che si sono ritrovati, dopo la buriana rivoluzionaria, al potere al Cairo, è riuscito a siglare un accordo con Abu Mazen, riprendendo così l'iniziativa e il palcoscenico nella gestione del (non) dialogo con Israele.
Tra qualche giorno Netanyahu sarà a Washington e incontrerà Obama. Tra qualche giorno Obama terrà un discorso al mondo islamico per sostenere le richieste di democrazia della regione piuttosto che i dittatori. Ma è urgente definire una nuova strategia per la questione israelo-palestinese, assieme a una collaborazione fattiva con Gerusalemme. Altrimenti saranno l'Onu e Hamas a determinare i prossimi passi, e si sa in che direzione andranno.
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