Il Congresso americano accoglie Bibi come una star. Il “no” palestinese

Redazione

Benjamin Netanyahu è stato interrotto una trentina di volte dagli applausi dei parlamentari riuniti in seduta comune per il suo discorso, il secondo della sua carriera a Capitol Hill dopo quello pronunciato nel 1996. E' un privilegio raro che lo speaker della Camera, John Boehner, gli ha accordato con grande calore anche per dare un segnale al mercato politico interno: dopo le freddezze dell'incontro con Barack Obama nello Studio ovale, Netanyahu ha trovato in uno dei Congressi più filoisraeliani della storia americana un'accoglienza da stadio.

    New York. Benjamin Netanyahu è stato interrotto una trentina di volte dagli applausi dei parlamentari riuniti in seduta comune per il suo discorso, il secondo della sua carriera a Capitol Hill dopo quello pronunciato nel 1996. E' un privilegio raro che lo speaker della Camera, John Boehner, gli ha accordato con grande calore anche per dare un segnale al mercato politico interno: dopo le freddezze dell'incontro con Barack Obama nello Studio ovale, Netanyahu ha trovato in uno dei Congressi più filoisraeliani della storia americana un'accoglienza da stadio. Con due piccole eccezioni: una giovane donna che dal loggione ha interrotto Bibi (che non ha perso l'occasione per dire che “questa è una vera democrazia”) e il senatore libertario del Kentucky, Rand Paul, che è rimasto da solo nel suo banco del Senato a lavorare, per protestare contro il leader democratico Harry Reid ma anche contro i generosi finanziamenti americani allo stato d'Israele.

    Quando si tratta di ridurre la spesa, Paul non fa eccezioni.
    Come aveva promesso, Netanyahu è entrato nei dettagli del processo di pace fra israeliani e palestinesi, dopo che Obama ha chiesto di fronte alla lobby israeliana dell'Aipac di ritornare ai confini del 1967  – in linea con Clinton e Bush – come base per una trattativa, offrendo in cambio il voto contrario alla risoluzione dell'Onu di settembre che potrebbe proclamare unilateralmente la nascita di uno stato palestinese e confermando il rifiuto di trattare con Hamas. Netanyahu ha detto alla platea ammiccante che è “pronto a raggiungere un compromesso di ampia portata” per arrivare alla creazione di due stati, ma “un accordo realistico deve riflettere i cambiamenti demografici che si sono verificati dopo il 1967”, e dunque non si può tornare all' “indifendibile” confine precedente alla guerra. Anche perché “in Giudea e Samaria Israele non è una forza straniera che occupa” ma il titolare millenario della terra promessa da Dio. “Dobbiamo essere onesti – ha detto Netanyahu – In un vero accordo di pace alcune colonie ebraiche non saranno all'interno dei confini di Israele. Bisogna negoziare, ma non torniamo indietro al 1967. Voglio essere molto chiaro su questo punto: saremo generosi sulle dimensioni dello stato palestinese ma irremovibili sul confine, che va negoziato, non imposto”. Il premier israeliano ha fissato le condizioni per riprendere una trattativa che negli ultimi due anni – complice anche un'affinità mai scattata fra lui e Obama – non ha fatto nessun passo avanti: Hamas deve essere emarginata, i soldati di Tsahal devono rimanere lungo il Giordano (punto di attrito con l'Amministrazione), Gerusalemme deve rimanere unita e soprattutto Abu Mazen deve pronunciare la formula magica: “Accetterò l'esistenza di uno stato ebraico”. La risposta del leader dell'Anp è arrivata qualche minuto dopo la fine dell'intervento di Netanyahu attraverso il suo portavoce: “Netanyahu mette altri ostacoli sulla strada della pace”. E ancora: “Non accetteremo alcuna presenza israeliana nel futuro stato palestinese, che deve basarsi sui confini del 1967, con Gerusalemme est capitale”. Il negoziatore palestinese Saeb Erekat ha parlato di una “pace di occupazione”, raffreddando ogni possibilità di dialogo sulla bozza tratteggiata da Netanyahu al Congresso.

    Le aperture fatte da Bibi a Washington gli consentono di tornare in patria con un buon bottino politico: ha ottenuto il sostegno americano contro il voto dell'Onu a settembre sul riconoscimento dello stato palestinese e può esibire alcune concessioni pragmatiche ai palestinesi. Lo schema, nonostante i dissapori di protocollo, piace anche a Obama, che tirando fuori in modo esplicito i confini del '67, ha ammiccato a quel mondo arabo in fermento che l'America sostiene e Israele guarda con timore.