Damasco spara sulle proteste, Ankara rinvia lo scontro (per ora)

Redazione

“Ratti di tutto il mondo unitevi!”: con questo striscione, irrisoria citazione delle maledizioni lanciate dal colonnello Gheddafi contro i rivoltosi libici, primo segnale di creatività e ironia in tutta la rivolta araba, ieri un corteo di 15 mila persone ha occupato l'autostrada che collega Damasco ad Aleppo; durante il percorso sono state bruciate bandiere iraniane, russe (a causa dell'appoggio che Mosca continua a dare al regime siriano) e di Hezbollah.

    “Ratti di tutto il mondo unitevi!”: con questo striscione, irrisoria citazione delle maledizioni lanciate dal colonnello Gheddafi contro i rivoltosi libici, primo segnale di creatività e ironia in tutta la rivolta araba, ieri un corteo di 15 mila persone ha occupato l'autostrada che collega Damasco ad Aleppo; durante il percorso sono state bruciate bandiere iraniane, russe (a causa dell'appoggio che Mosca continua a dare al regime siriano) e di Hezbollah. Tra gli slogan più sentiti: “Urlate al mondo che Bashar è privo di legittimità”, “Il popolo vuole la caduta del regime”, “Bashar non è più il mio presidente”.

    Nel centunesimo giorno della protesta le truppe della Quarta divisione di Maher el Assad hanno sparato a Irbil, Barza, al Qadam, al Ghota e al Shams, quartieri della periferia di Damasco, segno che ormai tutta la cintura della capitale è mobilitata e che il regime riesce a mantenere il controllo solo del centro città, così come accade ad Aleppo (dove però giovedì sono stati arrestati 120 studenti). Cortei con sparatorie anche a Hama, a Latakia e anche a Homs, dove un corteo ha occupato per ore tutta la centrale piazza Assi. Nel complesso sono una ventina le vittime del sedicesimo venerdì della protesta, tra di loro anche Rateb al Orabi, un bambino di 12 anni, colpito dagli agenti nel corso di una protesta a Shammas nella periferia di Homs.

    Sul piano politico, oltre la conferma della capacità del movimento di resistere alla repressione più dura e alla totale mancanza di presa delle promesse “riformiste” ribadite da Assad, la notizia di maggior rilievo è l'ammutinamento di alcuni reparti del Primo battaglione, che secondo al Arabiya si sono schierati con i manifestanti e si sono scontrati con la polizia che li stava attaccando ad al Kiswah, a sud di Damasco. La notizia è stata smentita dalla televisione di stato, ma – se non certa – è sicuramente attendibile perché ormai da un mese, a iniziare da Daraa, la città che ha dato inizio alla rivolta, si susseguono notizie di diserzioni, di passaggio di campo soprattutto di soldati sunniti, a fianco dei dimostranti e di loro scontri a fuoco con i lealisti. Queste defezioni sono state confermate anche dalla testimonianza video del colonnello Hossein Harmouch dell'Undicesima divisione, profugo in Turchia assieme agli sfollati di Jisr al Shughur, difesi dal suo battaglione ribelle dalla razzia di Maher el Assad in uno scontro a fuoco in cui sono morti 120 militari dalle due parti (sepolti poi dalle truppe del regime in fosse comuni senza testa e senza documenti per impedirne l'identificazione).

    Si è un po' stemperata la tensione tra Turchia e Siria, dopo che giovedì il governo di Ankara aveva reagito con proteste informali all'avvicinarsi minaccioso di carri armati e truppe siriane a ridosso del confine presso la cittadina turca di Giuvecci. Dopo aver convocato d'urgenza nella notte l'ambasciatore siriano ad Ankara e dopo un concitato colloquio col suo omologo siriano Moallem, il ministro degli Esteri turco, Ahmet Davoutoglu, ieri ha proclamato una posizione di prudente attesa: “Speriamo che la Siria riesca a rinnovarsi in una maniera tranquilla e che esca da questa situazione ancora più forte: noi faremo tutto il possibile per assisterla nell'attuazione di riforme che la rinnovino nella stabilità rendendola più forte”.

    Queste parole sono ben più attendiste di quelle pronunciate nei giorni scorsi dal premier Recep Tayyip Erdogan, che aveva definito “assolutamente deludente” il discorso di Assad che prometteva riforme. Ma non bisogna dimenticare che Davutoglu è l'ideatore di una dottrina, ora piuttosto in crisi, basata sul principio “nessun problema con i vicini”: ora si trova a ospitare decine di migliaia di profughi siriani nei campi della Mezzaluna Rossa e ha ben presente che da qui a poco la Turchia – che peraltro è l'unico paese che fornisce ospitalità e aiuti alle organizzazioni dei dissidenti siriani – rischia di trovarsi in conflitto non soltanto con la confinante Siria, ma anche con la Repubblica islamica d'Iran che, attraverso Hezbollah e i pasdaran, gioca un ruolo di prima fila nella repressione della rivolta siriana.