Piano d'attacco
E se bombardassimo il regime siriano? Non sarebbe una buona idea
L'intervento in armi contro il regime di Bashar el Assad non è “nemmeno una remota possibilità” per il ministro degli Esteri britannico William Hague e da Parigi la portavoce del ministero degli Esteri della Francia, Christine Fages sottolinea che “le situazioni in Libia e in Siria non sono simili” e “non è prevista alcuna opzione di natura militare” contro il regime di Damasco.
L'intervento in armi contro il regime di Bashar el Assad non è “nemmeno una remota possibilità” per il ministro degli Esteri britannico William Hague e da Parigi la portavoce del ministero degli Esteri della Francia, Christine Fages sottolinea che “le situazioni in Libia e in Siria non sono simili” e “non è prevista alcuna opzione di natura militare” contro il regime di Damasco. Lunedì il segretario generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen, ha precisato che nello scenario siriano mancano due condizioni fondamentali – e quasi impossibili – per un eventuale intervento dell'Alleanza Atlantica: una risoluzione dell'Onu che autorizzi l'uso della forza e la coesione dei paesi dell'area mediorientale a sostegno di un'iniziativa militare. Gli analisti sostengono che l'intervento non si può fare, e che se si facesse finirebbe male. Ecco perché.
Ancora insabbiati in Libia. La Nato non ha le capacità militari per un'azione risolutiva nei confronti del regime siriano considerato che i contributi offerti dai singoli partner sono per ora inadeguati persino a sconfiggere la Libia di Gheddafi, che sul piano militare dispone di forze almeno dieci volte inferiori per tecnologia e capacità al dispositivo bellico di Damasco. Gran Bretagna e Francia, che sostengono insieme oltre il 60 per cento dello sforzo della guerra, cominciano a lamentare problemi di affaticamento del personale e carenze di armi e dipendono sempre più dagli Stati Uniti per i supporti. Il 26 maggio scorso il Pentagono ha ammesso ufficialmente di fornire bombe e componenti alle forze europee per sostenere lo sforzo bellico sulla Libia. Un problema che non riguarda per ora l'aeronautica italiana ma che ha invece determinato il rientro a Taranto della portaerei Garibaldi perché i suoi cacciabombardieri Harrier, protagonisti di centinaia di sortite, hanno esaurito bombe e missili.
La Siria è un osso troppo duro. Le forze siriane sarebbero in grado di opporre una discreta resistenza con i 450 cacciabombardieri (un centinaio i Mig 29) e soprattutto con le centinaia di batterie di missili antiaerei anche molto moderni come i SA-22, i Pantsyr, SA-11 e 19, il meglio delle armi di difesa aerea che la Russia da tempo fornisce al suo migliore cliente mediorientale. Damasco potrebbe poi impiegare decine di missili balistici SS-21 e Scud armati di testate chimiche e biologiche. Gli Scud D, prodotti in Corea del nord, hanno un raggio d'azione di 750 chilometri e possono colpire Israele, Cipro, l'Iraq, la Turchia e altri paesi dell'area.
Chi mette le basi per i bombardieri? La risoluzione 1.973 dell'Onu vieta categoricamente ogni azione di terra in Libia. Visti i precedenti e la delicatezza della regione, è improbabile che anche un'operazione in Siria possa sottrarsi all'imperativo del “no boots on the ground”, ovvero: no a un'operazione di terra. Ma da dove possono decollare droni e caccia della coalizione? La Siria è circondata da paesi che non si opporrebbero all'intervento, ma che nemmeno hanno la minima intenzione di concedere le proprie basi militari – per una questione ovvia di equilibri regionali nessuno vuole apparire complice dell'attacco da fuori a uno stato arabo confinante, soprattutto se il finale è incerto. L'elenco delle basi disponibili in Iraq – quelle americane –, in Turchia (la seconda potenza militare della Nato), a Cipro e in Egitto è nutrito, ma non bisogna farsi illusioni, nessuna sarà disponibile. Israele non può muovere un dito per non incendiare tutto il settore. Per rimediare alla realpolitik degli alleati, i raid sarebbero lanciati da una flotta che stazionerebbe al largo delle coste siriane, con una cautela: nessun mezzo della coalizione può avvicinarsi al porto di Tartous, sede di un'importante base della marina russa. Un incidente con la flotta di Mosca, già contraria all'intervento, complicherebbe irrimediabilmente la missione, vanificando anni di impegno sul fronte già debole del “reset” con la Casa Bianca.
Boots on the ground? Una volta demolito il potenziale di difesa aerea siriano resterebbero poi le incognite di un intervento terrestre. In Libia Gheddafi fa i conti con milizie disorganizzate ma armate. Assad ha invece come nemici soltanto civili disarmati che protestano in strada. In assenza di ammutinamenti in massa dei 480 mila militari dell'esercito (per tre quinti coscritti) che dispongono di quattromila carri armati (per metà T-72), 3.500 blindati e 1.500 cannoni, fermare il regime significherebbe opporsi a Damasco con un'operazione di terra. L'ipotetica forza d'invasione sarebbe simile per numeri e composizione a quella che conquistò Baghdad nell'aprile 2003. Un'opzione impensabile con l'attuale assetto politico e finanziario dell'occidente.
Il veto al Palazzo di Vetro. La posizione intransigente della Russia e della Cina già si impone adesso e si imporrà con ancora più forza al Consiglio di Sicurezza in caso di intervento militare anche soltanto ipotizzato. L'Onu non si pronuncerà neanche con una risoluzione di semplice condanna delle stragi di Bashar el Assad, senza alcuna conseguenza operativa, né militare, ma al massimo approverà una inutile raccomandazione non vincolante. Il veto cinese è inerziale: ogni occasione è buona per Pechino per mandare un messaggio da “potenza mondiale” a Washington. Il veto russo invece è vitale: la Siria è infatti tornata ad essere l'unico paese su cui Mosca può contare nel Mediterraneo e in medio oriente. Il 10 maggio scorso Dmitri Medvedev ha fatto visita a Damasco e ha consolidato quell'asse tra Damasco e Mosca, che fu centrale per la politica estera dell'Urss. A Tartous e Latakia fervono i lavori per le due basi per la flotta russa e i tank che sparano a Hama, i T-72, sono forniti dalla Russia, così come i proiettili e tutto l'armamento siriano, aviazione compresa. Tanto basta perché Mosca faccia di tutto per impedire ogni replica della Libia.
Dove colpire? L'aviazione siriana non ha una prontezza e una potenza di fuoco paragonabili a quelle della Coalizione impegnata in Libia – c'è da ricordare che i jet israeliani che attaccarono nel 2007 un impianto nucleare segreto vicino a Deir al Zour – una città dove oggi i carri armati sparano contro i cortei di protesta – erano già tornati in patria prima che i caccia siriani riuscissero anche soltanto ad alzarsi in volo. Bisognerà imporre comunque una “no fly zone”, per poi passare a un intervento più selettivo, a tutela dei civili nel mirino del regime. Le basi aeree da neutralizzare sono venticinque, più due aeroporti a uso esclusivamente civile, il Bassel al Assad di Latakia e quello di Palmyra, più all'interno del continente. Anche la marina militare di Damasco, per quanto non temibile, andrà messa in condizione di non nuocere. I porti da attaccare sono tre, quattro compreso quello intoccabile di Tartous – un attracco delicato, dove c'è personale della flotta russa del Mar Nero. A quel punto, senza la minaccia di essere abbattuti, gli aerei alleati potrebbero colpire i battaglioni corazzati con cui il regime degli Assad sta setacciando le città ribelli. Oltre ai carri armati, si potranno colpire le basi dell'esercito più isolate, ma difficilmente si potrà mirare ai punti di comando dell'esercito, troppo integrati all'interno dei nuclei urbani. Per evitare che Damasco reagisca lanciando missili sui paesi vicini, si dovranno bombardare anche basi come quelle di Al Safir, vicino ad Aleppo, e di Adra, 25 chilometri a nord della capitale, dove, al fondo di una ripida valle desertica, sarebbero custodite le decine di missili Scud in grado di colpire a centinaia di chilometri di distanza.
La rappresaglia contro Israele. Hezbollah è il grilletto puntato da Damasco su Israele: a un intervento militare in Siria seguirebbe, verosimilmente, un'immediata rappresaglia del Partito di Dio. Nel 2006, durante la guerra con Israele, Hezbollah lanciò 4.000 razzi oltre il confine sud e dalla fine delle ostilità l'arsenale del movimento islamico è cresciuto rispetto a prima in modo esponenziale, con l'aiuto di Iran e Siria: le ultime stime dell'intelligence di Gerusalemme calcolano che Hezbollah può contare oggi su 40 mila missili; non più soltanto a corta gittata, ma anche i razzi Scud a lunga gittata, di probabile provenienza iraniana, in grado di colpir Tel Aviv e Gerusalemme. E il gruppo libanese si è preparato anche a resistere alla risposta di Israele. Nel 2010, un documento dell'intelligence israeliana ha rivelato le postazioni segrete di Hezbollah lungo il confine: 550 bunker usati come depositi di armi, trecento posti di sorveglianza e altri cento depositi nascosti tra i villaggi. Sul confine sud di Israele, invece, il regime degli Assad potrebbe contare sull'azione di Hamas, la cui leadership da anni vive e opera a Damasco, sotto la protezione dello stato: in risposta a un attacco contro le forze di sicurezza della Siria, razzi Qassam e Grad cadrebbero sul sud di Israele in pochissimo tempo.
La rappresaglia in Iraq. Il regime di Teheran non assisterà in silenzio alla caduta di Damasco, testa di ponte della grande alleanza sciita. L'Iran ha già spedito i suoi uomini in Siria per offrire le proprie competenze al regime degli Assad – alcuni aiutano nella repressione, altri offrono servizi tecnici, come la costruzione di una rete elettronica per intercettare o bloccare le comunicazioni dei ribelli, con le stesse tecnologie di Nokia Siemens Networks collaudate nella repressione dell'Onda verde, nell'estate del 2009. L'azione più velenosa che Teheran può mettere in atto, però, colpisce in territorio iracheno. Da mesi la minaccia più seria per la stabilità dell'Iraq viene dal sud del paese: è il frutto della rappresaglia dei miliziani del predicatore sciita Moqtada al Sadr, che, dopo tre anni di “studi” in Iran, è tornato ad agitare la rivolta contro il governo di Baghdad e i militari americani. Ritornato alla sua Najaf, al Sadr ha ripreso saldamente le redini della dissolta armata del Mahdi, fondando le Brigate del Giorno promesso. La forza Quds, branca dei pasdaran iraniani specializzata nelle operazioni all'estero, fa la spola tra Teheran e l'Iraq, dove al momento sostiene tre gruppi armati: la Lega dei giusti (Asaib al Haq), le brigate Hezbollah (Kataib Hezbollah) e, appunto, gli uomini di Moqtada al Sadr. A questi va aggiunto l'appoggio ai terroristi di al Qaida, contro cui ha puntato il dito il dipartimento del Tesoro americano la scorsa settimana. Secondo le accuse di Washington, il regime iraniano ha contatti diretti e costanti con almeno sei membri dell'organizzazione fondata da Osama bin Laden. Il canale principale è diretto verso l'Afghanistan, ma tra i nomi elencati dal Tesoro c'è quello di Umid Muhammadi, che viene descritto come “un uomo chiave per al Qaida in Iraq”. Se Damasco fosse attaccata, per Teheran sarebbe molto facile tirare tutti questi fili, orchestrando una rappresaglia violenta in grado di colpire le truppe americane e gli interessi occidentali in Iraq.
L'opposizione siriana c'è. Addurre il poco peso dell'opposizione siriana tra le motivazioni dell'immobilismo occidentale ha del tragicomico. Ancora meno si sapeva dell'opposizione in Tunisia ed Egitto e tanto poco si sapeva della composizione del Cnt libico, per cui conto la Nato fa la guerra, che ora si scopre che l'autore del putsch che ne ha reso possibile la nascita, il generale Fattah Younis al Obeidi, è stato ucciso da seguaci del presidente Jalil, tanto che a Bengasi i partigiani delle due fazioni del Cnt si stanno sparando. Il panorama siriano è noto: forte l'impianto dei Fratelli Musulmani, soprattutto a Hama. Poi, una miriade di organizzazioni che il 17 luglio a Istanbul hanno formato un Consiglio di salute nazionale diretto da figure di alto profilo come Walid al Bunni e Haitham al Maleh. Sullo sfondo, l'ambigua figura dell'ex braccio destro di Assad, Abdel Halim Khaddam, fuggito a Parigi nel 2005. Ma quel che conta è che a Daraa, Latakia, Hama e altrove si è formata una radicata ed eroica leadership locale. Un interlocutore più che valido, se solo si volesse.
La Lega araba, naturalmente, tace. Che cosa direbbe la Lega araba? Per ora, è come se non esistesse. Tace, e tacciono le capitali arabe, al massimo esortazioni a Bashar el Assad perché avvii riforme, sì che Damasco non ha oggi neanche il fastidio di relazioni interarabe tese mentre maciulla città e manifestanti con i suoi carri armati. Due le eccezioni: la vicina Turchia, con un Tayyip Erdogan che ha scoperto che “l'eterno amico siriano” su cui aveva impostato addirittura il baricentro della sua espansione “neo ottomana” in terra araba è inaffidabile, che poco può fare, tranne occupare, in via solo difensiva, una striscia di Siria, ma che certo non può intervenire militarmente su Damasco. Interviene al massimo invece l'Arabia Saudita, ma al coperto: finanzia, aiuta, arma la resistenza contro l'odiato Baath (in Siria agiscono effettivamente piccoli gruppi armati di resistenti, che hanno ucciso centinaia di militari, non sono invenzioni del regime) e punta a riprendere il controllo politico del Libano. Ma lo fa sottotraccia, senza apparire; attende per esporsi – al solito – che altri si scoprano e impieghino alla luce del sole la forza per abbattere un regime sempre mal tollerato. Tace il Qatar, che pure ha manovrato come pochi in Libia, così come la Giordania e anche l'Iraq, che pure continua a soffrire gli attentati degli ex baathisti che hanno i loro santuari al di là del confine siriano. La ragione di tanto imbarazzo e silenzio è facilmente comprensibile: a differenza della Tunisia e dell'Egitto (e ancor più della Libia), la rivolta siriana dimostra ormai da 20 settimane di avere uno straordinario radicamento sia nel territorio, che nelle tribù. Quelle stesse tribù (come quella, grandissima, dei Shammar) che hanno i loro affiliati anche all'interno dei propri confini. Con la rivolta siriana, la paura del contagio, di una dinamica violenta, dal basso, è diventata frenetica in tutti i regimi arabi, in primis nei regni ed emirati del Golfo. Tutti vorrebbero la caduta di Assad, ma nessuno vuole che avvenga per mano di una rivoluzione popolare, degli emarginati, la prima, vera, in terra araba.
E se non volessero loro? Il rischio, per la coalizione interventista, è di imbarcarsi in una campagna militare che gli stessi siriani oppressi ritengono quantomeno indesiderabile. Un dissidente di Hama, contattato al telefono dal Guardian ieri, l'ha detto chiaramente: “Vogliamo che l'occidente agisca, ma non chiediamo certo un intervento militare, non ne abbiamo bisogno. Ci serve pressione, piuttosto, una forte pressione politica su Damasco”. L'inconcludenza di mesi di raid Nato sulla Libia è stata d'insegnamento anche per il fronte d'opposizione in Siria. Alle perplessità dei dissidenti si vanno a sommare quelle dei cristiani, che, in quanto minoranza, si sentono più al sicuro se al potere c'è un'altra componente religiosa minoritaria, quella alawita, di cui gli Assad fanno parte. Senza contare che anche i sunniti più agiati stanno con il regime, in quella che sembra sempre meno una rivoluzione religiosa contro un despota di fede differente e sempre più una lotta di classe. Se e quando il regime degli Assad cadesse sfinito, dopo migliaia di raid alleati, a festeggiare in piazza potrebbero essere in molti meno di quelli che la coalizione aveva messo in preventivo.
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