Ecco s'alza il sipario su Tripoli

Redazione

Forze armate straniere occupano un paese arabo e impiccano il suo leader mentre noi ridiamo e stiamo a guardare. Perché il consiglio di Sicurezza non indaga sull'impiccagione di Saddam Hussein? l leader di un paese membro della Lega araba è stato impiccato. Non mi interessano le sue scelte politiche o i nostri dissapori nei suoi confronti. Tutti abbiamo qualcosa da ridire contro Saddam, siamo tutti in disaccordo l'uno con l'altro.

    Forze armate straniere occupano un paese arabo e impiccano il suo leader mentre noi ridiamo e stiamo a guardare. Perché il Consiglio di sicurezza non indaga sull'impiccagione di Saddam Hussein? Il leader di un paese membro della Lega araba è stato impiccato. Non mi interessano le sue scelte politiche o i nostri dissapori nei suoi confronti. Tutti abbiamo qualcosa da ridire contro Saddam, siamo tutti in disaccordo l'uno con l'altro. Non c'è niente che ci tiene assieme a parte questa sala. Saddam è stato impiccato, perché? Tra poco potrebbe essere il vostro turno (risate)
    Muammar Gheddafi al vertice della Lega Araba a Damasco, 29 marzo 2008

    La lettera è datata 3 aprile 2011, il mittente è il Fronte popolare per la liberazione della Libia, il destinatario è l'emiro del Qatar, il contenuto è esplicito: il Consiglio nazionale di transizione dei ribelli libici ha firmato “un accordo che attribuisce il 35 per cento del petrolio ai francesi in cambio di un sostegno totale e permanente al nostro Consiglio”. Il quotidiano Libération ha lanciato ieri lo scoop in prima pagina, nel giorno del vertice degli amici della Libia organizzato a Parigi, e per ore non si è fatto che parlare di quell'accordo, di quel patto siglato quindici giorni dopo l'inizio dell'operazione militare approvata dall'Onu, quando il comando stava passando formalmente all'Alleanza atlantica, dopo una fase iniziale matta e disperatissima in cui ognuno – francesi, inglesi e americani – faceva per sé, sperando di risolvere in poco tempo la faccenda Gheddafi. Si mormorava persino che a mettere in giro quella lettera fosse stata l'Italia che con la sua posizione altalenante nei confronti di Tripoli teme ora di non avere più una fetta della torta libica – certo non più la fetta enorme che aveva prima della missione. Mentre sottobanco si facevano calcoli, si cercava di capire quali aziende fossero implicate e da quando, si facevano proiezioni sulla produzione petrolifera dei prossimi mesi con conseguente spartizione, il Quai d'Orsay e il Consiglio libico univano (come sempre) le forze e dichiaravano: quella lettera è un falso, non c'è mai stato alcun accordo, la missione è umanitaria, siamo andati lì per salvare il popolo libico da morte certa, il presidente Nicolas Sarkozy l'ha ripetuto allo sfinimento. “Era di pubblico dominio il fatto che i paesi più impegnati con i ribelli sarebbero stati i più considerati dal Consiglio nei giorni a venire”, chiosava Libération: Parigi è stata la prima a riconoscere il Consiglio, il 10 marzo 2011, “bombarderemo anche da soli” dichiarò fiero Sarkozy. Il petrolio, ha ripetuto Alain Juppé, ministro degli Esteri, non c'entra nulla: eravamo presenti in Libia prima, ci saremo anche dopo, i contratti futuri saranno siglati “sulla base del merito e non per favoritismi politici”. Il merito non è esattamente il mercato, e i più meritevoli ora sono i francesi.

    Alle quattro di ieri il colonnello Muammar Gheddafi,
    che taceva dal giorno della caduta del bunker di Bab al Aziziya, ha parlato. “Le tribù di Sirte e Bani Walid sono armate e indomabili, non si arrenderanno”, ha detto in un messaggio audio consegnato ad al Rai tv, un'emittente satellitare amica con base in Siria (è la stessa dalle cui frequenze il figlio Saif al Islam, mercoledì, ha esortato alla resistenza contro “i ratti” di Bengasi). Parlando da località ignota – per Abdel Majid Mlegta, comandante dei ribelli a Tripoli, il rais è a Bani Walid, roccaforte della potente tribù Warfalla, 150 chilometri a sud della capitale – Gheddafi ha accusato i ribelli del Cnt: sono divisi tra loro e contro la Nato, costretti a ricorrere a mercenari per combattere il popolo libico. S'è rivolto ai suoi con tono messianico: “Continuate a combattere, anche quando non sentirete più la mia voce”. “Non siamo donne, andremo avanti nella lotta”. Gheddafi è incendiario: “Lasciate che sia una guerra lunga e che la Libia venga avvolta dalle fiamme, io combatterò”.

    “C'è gente che è stata al potere più a lungo di me, come la regina Elisabetta in Inghilterra”

    Messaggio telefonico, 24 febbraio 2011

    Forze speciali, servizi segreti, diplomazia. Il Regno Unito ha usato tutte le armi a disposizione nella missione libica perché, come ha detto il premier David Cameron ieri, “abbiamo imparato la lezione dell'Iraq”: non ci saranno forze occupanti (una volta si chiamavano forze di liberazione, ma ognuno arraffa quel che vuole della dottrina dell'interventismo umanitario), il post Gheddafi sarà gestito dai libici.

    Ecco perché prima della caduta di Tripoli, il Foreign Office ha lavorato a stretto contatto con l'MI6, con il ministero della Difesa e soprattutto con Alan Duncan, ora sottosegretario nel dipartimento per lo Sviluppo internazionale ma da sempre uno dei manager più influenti del settore petrolifero britannico, nonché grande amico di William Hague, il ministro degli Esteri. Secondo la rivelazione del Times di ieri – arrivata con lo stesso tempismo di Libération, le teorie del complotto sullo zampino italiano si moltiplicano – da aprile è stata formata una “Libyan Oil Cell”, un team dedicato alla questione del greggio creato su richiesta del premier Cameron. Sei persone sceltissime, prima guidate da un ammiraglio poi da un diplomatico navigato, hanno ottenuto obiettivi significativi: i porti sotto il governo di Gheddafi sono rimasti bloccati e il rifornimento di Tripoli è stato impedito; la Lloyd di Londra ha aiutato con assicurazioni speciali il lavoro delle navi di Bengasi, lasciando che il petrolio fosse pagato in contanti nonostante le restrizioni imposte dagli Stati Uniti; funzionano alla grande i rapporti tra i ribelli e Vitol, la compagnia svizzera che forniva petrolio ai ribelli senza richiedere pagamenti immediati; i ribelli hanno interrotto la pipeline per Zawiya una volta arrivati sulle montagne Nafusa. Secondo una fonte politica ripresa dal Times, “quando c'è stato da spingere sul petrolio come motivo per eliminare Gheddafi e sostenere i ribelli, il Regno Unito si è messo bene alla guida”. Il team lavorava al Foreign Office, ma dipendeva direttamente dal governo, almeno fino al mese scorso quando è tornato sotto il cappello del ministero degli Esteri dopo che ci sono state liti indiavolate sul ruolo e l'indipendenza della cellula. Duncan è tornato alla sua primaria attività, dicono ora i beninformati, ma che quest'attività non abbia a che fare con il petrolio libico è difficile, così come nessuno crede che il team sarà presto smantellato.


    “Ti ho già detto che anche se gli Stati Uniti e la Libia entrassero in guerra, Dio non voglia, rimarrai sempre mio figlio, e ho per te tutto l'amore che avrei per un figlio, e non voglio cambiare l'idea che ho di te”.
    Lettera al presidente americano Obama, 20 marzo 2011

    Senza le forze americane la guerra di Libia non sarebbe stata vinta. Il Pentagono ha tenuto un low profile permanente perché, come è noto, i militari non volevano impantanarsi in un'altra operazione, per lo più in un paese in cui gli interessi degli Stati Uniti non sono poi tanto coinvolti. Il presidente Barack Obama ha messo la faccia nelle occasioni ufficiali – discorsi e articoli congiunti con Sarkozy e Cameron – ma poi è rimasto nelle retrovie, secondo quella che gli esperti chiamano la strategia del “leading from behind” e che forse, in modo meno pomposo, si chiama assenza di dottrina, pragmatismo, barlumi sparsi di idealismo, barlumi sparsi di realismo. Il risultato per Obama è la vittoria della “guerra dei francesi” (nessun balzo in popolarità, anzi si viaggia sotto il 40 per cento dei consensi già da un po'), peccato che i francesi, senza i rifornimenti degli americani, avrebbero finito le bombe a pochi giorni dall'inizio delle operazioni. John Barry, sul Daily Beast, ha messo in fila tutti i dettagli della partecipazione di Washington alla missione, affidandosi a due fonti della Nato, una americana e una europea, e le armate del Vecchio continente ne escono parecchio male. Dal mare e dall'aria, i mezzi statunitensi hanno impedito che le forze lealiste del regime libico facessero fare all'Alleanza atlantica una figura ben peggiore di quella che ha fatto: i droni sorvegliavano, gli Aegis intercettavano gli Scud, i sottomarini attaccavano, il tutto mentre la stessa Amministrazione cercava di sminuire il suo ruolo nella missione. Il blog dell'U. S. Naval Institute si è messo ad analizzare il sito della marina americana per vedere come veniva raccontata la guerra in Libia e ha dovuto spulciare parecchio prima di accorgersi che persino i riferimenti geografici e dei mezzi coinvolti erano dati in modo vago, se non sbagliato, con tale costanza da confermare la sensazione che l'effetto “no no, non è la nostra guerra” fosse voluto.


    “Siamo pronti a dare armi a un milione di persone, due milioni, tre milioni, comincerà un altro Vietnam. Non ci importa. Ormai non ci importa più di nulla”
    2 marzo 2011, messaggio alla nazione

    Fucili, mitragliatrici, munizioni ma anche duemila lanciarazzi Rpg e 10 mila armi di vario tipo inclusi missili antiaerei portatili SA-7 e SA-14, mortai e missili anticarro. Armi trafugate dai depositi del regime di Gheddafi trafficate un po' ovunque in Nordafrica e Sahel. Le prime indiscrezioni circolarono in aprile quando ambienti vicini all'intelligence israeliana riferirono di convogli sospetti diretti in Sudan, dove le armi libiche sarebbero arrivate sia per alimentare l'esercito del nuovo stato del sud Sudan sia per venire poi girate ai beduini del Sinai che alimentano gli arsenali di Hamas a Gaza interessato soprattutto a missili anticarro. Alcuni di questi, come i russi AT-4 Spigot, sono stati forniti ai ribelli libici anche dall'Italia che pare abbia girato a Bengasi un carico di armi intercettati nel 1994 e diretto in Croazia. Sulla vicenda Roma ha posto il segreto di stato ma una volta arrivate in Libia è difficile sapere che rotta abbiano preso queste armi. I servizi di sicurezza di Algeri hanno invece intercettato almeno un paio di carovane dirette in Mali attraverso le piste sahariane del sud algerino per riempire gli arsenali di al-Qaeda nel Mahgreb islamico, interessato a quanto sembra soprattutto ai missili antiaerei spalleggiabili utili a contrastare gli elicotteri algerini che danno la caccia alle colonne di ribelli e a compiere attentati terroristici contro velivoli civili. La Libia di Gheddafi aveva adottato il sistema yugoslavo della difesa di popolo per trasformare ogni civile in combattente in caso di invasione del Paese. Come in Yugoslavia negli anni 90, anche in Libia la guerra civile ha permesso a chiunque di impossessarsi di armi da guerra e non a caso nel primo mese di ostilità le forze aeree di Gheddafi sono state impegnate soprattutto a colpire i depositi di armi caduti nelle mani degli insorti. Il segretario generale dell'Onu, Ban ki-moon, ha definito la Libia “sommersa di armi leggere” ma a preoccupare i paesi occidentali (e paradossalmente proprio quelli che hanno maggiormente appoggiato e armato le milizie del Cnt) sono soprattutto quelle pesanti. Soprattutto missili antiaerei e anticarro considerato che gli ultimi missili balistici Scud B ancora in servizio sono imprecisi e privi di un reale valore bellico ed eventuali vecchi barili di iprite ancora stoccati in qualche deposito sarebbero pericolosi soprattutto per chi li maneggiasse. Tra le armi in circolazione sul mercato clandestino del Mali vi sono anche parte delle 40 tonnellate di materiale bellico che i francesi hanno paracadutato ai ribelli berberi del Gebel Nefusa, a sud di Tripoli. Centinaia di tuareg sono rientrati in Mali dopo aver combattuto con i lealisti libici imbracciando armi francesi sottratte ai ribelli o girate da qualche doppiogiochista come hanno confermato fonti diplomatiche a Gao, nel nord del Mali.


    “Come può il Consiglio di sicurezza emanare risoluzioni basate su dispacci di agenzia?”

    2 marzo 2011, messaggio alla nazione

    Il titolo del 26 agosto del Monde è indicativo: “Al Qaida dietro la vittoria a Tripoli?” Il punto di domanda non fuga i dubbi del quotidiano, pur sostenitore dell'avventura libica, circa la possibilità che la vittoria su Gheddafi sia paradossalmente da condividere con al Qaida. Dubbi che nascondono certezze: Abdelhakim Belhaj, o Abou Abdallah Al Sadek, governatore militare di Tripoli per conto del Cnt, alla testa delle truppe di Bengasi che hanno conquistato la capitale, uomo di fiducia di Abdel Jalil, ha legami con la galassia di al Qaida. Ha fondato il Gruppo Islamico Combattente (Gic) in raccordo con al Qaida del Maghreb (che ha sempre appoggiato la ribellione, così come Ayman al Zawahiri, successore di Bin Laden). Ma Belhaj non è il solo compagno d'arme scabroso della Nato: il suo braccio destro e cofondatore del Gic, Ali Salabi, secondo Libération, è addirittura membro del Cnt e anche Abu Obeidi al Jarrah, comandante militare di primo piano del Cnt ha indubbi trascorsi nell'estremismo jihadista. L'inquinamento dell'islamismo più radicale del comando politico-militare dei ribelli appoggiati dalla Nato è così apicale che da marzo la città cirenaica di Derna è sotto il comando indisturbato di un Califfato islamico. Il leader di questo Califfato è Abdelkarim al Hasadi, anche lui (come Belhaj e al Jarrah) ex detenuto di Guantanamo che, intervistato dal Sole 24 Ore non ha avuto remore a promettere uno “scenario talebano in Libia” e lanciato appelli ai libici che hanno combattuto con al Qaida in Afghanistan e in Iraq a “liberare ora la loro terra”. Il Califfato islamico di Dena ha una sua propaggine anche a al Beida, sotto il comando di Kheirallah Barâassi, anch'egli dal passato qaidista. Un quadro più che inquietante, che preoccupa al massimo non solo l'Algeria, ma anche il presidente del Ciad Idriss Debay che ha denunciato su Jeune Afrique il fatto che gli islamisti libici di al Qaida si sono impadroniti negli arsenali libici anche di missili terra aria, ora custoditi nel loro santuario di Téneré.

    La presenza di islamisti tra le file del Consiglio nazionale di transizione deve sorprendere poco. Il Libyan Islamic Fighting Group (Lifg), il gruppo islamico militante legato ad al Qaida, i cui membri occupano posizioni importanti all'interno del Cnt, è presente in Libia, soprattutto tra Bengasi e Darna, dall'inizio degli anni Novanta. Questa ramificazione nordafricana di al Qaida è nata dalla guerriglia dei mujaheddin in Afghanistan finanziata dai soldi della Cia, che a fine anni Ottanta combatteva per scacciare i soldati russi dal paese. All'insurrezione parteciparono combattenti da tutto il mondo arabo tra cui, secondo i numeri dell'intelligence, circa un migliaio di libici. Dopo la ritirata russa, nel febbraio del 1989, i mujaheddin libici si ristabilirono nel paese d'origine: la lotta contro il regime di Gheddafi, secolare e anti islamista, era inevitabile. Fu inizialmente un'insurrezione dal basso profilo basata sulla tattica del logoramento e degli attentati mirati: nei primi anni Novanta, secondo gli analisti, morirono nello scontro poco più di 350 persone. Dal 1995 le tattiche dei Lifg mirarono all'eliminazione diretta del rais. Il primo attentato, dello stesso anno, fallì miseramente e Gheddafi ne uscì illeso. L'anno seguente, invece, fu preparata un'imboscata in grande stile a Sirte, allora come oggi roccaforte del rais, e, anche se il colonnello riuscì a fuggire, furono uccise le sue guardie del corpo. Tripoli accusò subito i servizi segreti britannici e cominciò un'operazione militare per schiacciare il movimento islamista. Mesi dopo, le accuse del colonnello furono confermate dalle confessioni di un ex agente dei servizi segreti britannici, David Shayler, secondo cui l'MI6, non solo era a conoscenza dell'attacco, ma finanziò direttamente il Lifg con 100 mila sterline e il tacito assenso dell'allora ministro degli Esteri britannico, Malcolm Rifkind. Oggi la storia sembra ripetersi o meglio non essere mai cambiata: sono stati gli stessi islamisti del Lifg, vista l'occasione per eliminare l'odiato nemico, i primi a imbracciare le armi e di nuovo gli inglesi, che da finanziatori occulti sono diventati protagonisti.


    “Dicono: Gheddafi andrà a Honolulu. Questa è bella. Abbandonare le tombe dei miei antenati e il mio popolo? Dite sul serio?”
    18 luglio 2011, messaggio trasmesso in televisione

    Il Cnt è in grado di governare la Libia, se mai conquisterà le roccaforti di Gheddafi che ancora resistono? E' difficile rispondere e ancor più lo sarà domani, quando il Cnt dovrà dimostrare la capacità di governo anche sulle tribù lealiste sconfitte (i Ghadafa, parte dei Warfalla, i Tuareg e altre tribù del Fezzan). Questo, sempre che il rais fallisca nel disegno di consolidare un “Gheddafistan”, fonte permanente di instabilità nel paese. Se si guarda però a ieri, la risposta diventa negativa. Il 28 luglio, l'uccisione del comandante militare del Cnt Younis al Obeidi ha infatti aperto a Bengasi una crisi politica e tribale mai ricomposta. L'ordine di arrestarlo, secondo il Mossad, venne infatti proprio da Abdel Jalil, mentre il “Comitato 17 febbraio” di Bengasi (che accese la miccia della rivolta) ha accusato del crimine Ali al Essaui (amico intimo di Bernard-Henri Lévy) membro del Cnt che ha firmato il mandato di arresto di Younis al Obeidi. Ma il vero punto d'attrito è che Ali al Tarhuni, responsabile del Cnt per petrolio e finanze ha accusato in conferenza stampa, “membri del Cnt” quali responsabili del delitto. Dopo scontri tribali a Bengasi con un centinaio di morti, e dopo che Jalil ha cambiato la composizione del governo, mantenendo la premiership di Mahmud Jibril (che voci danno assente da settimane da Bengasi per timore del “fuoco amico”) la crisi è stata congelata. Ma la nomina del successore di Younis al Obeidi è stata burrascosa. Jibril ha nominato a capo del Comitato militare di Tripoli al Barrani Shakal (ennesimo ex fedelissimo di Gheddafi), ma ha dovuto revocare poi la nomina per timore di una sollevazione militare. Jalil, per ora, ha imposto Abdelhakim Belhaj, già terrorista islamista e detenuto a Guantanamo. Da oggi, però, tutti i contratti petroliferi e il recupero dei miliardi di beni libici congelati all'estero passano per le mani di Ali al Tarhuni, grande accusatore dei responsabili dell'assassinio di Younis al Obeidi dentro il Cnt. Eccellente premessa per imminenti tempeste.