Standing ovation, ma ora i palestinesi devono tornare a trattare

Redazione

Efraim Halevy è stato capo del Mossad israeliano fra il 1998 e il 2002. Ora è convinto che l'azzardo di ieri di Abu Mazen alle Nazioni Unite, con la richiesta di dichiarare stato la Palestina, finirà per essere un gigantesco regalo a Hamas. La richiesta al Consiglio di sicurezza  – dice Halevy – è destinata ineluttabilmente a infrangersi contro il muro del veto americano, che è l'unica certezza di questa Assemblea generale dove il presidente Barack Obama ha pronunciato uno dei discorsi più filo israeliani della sua storia.

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    Gerusalemme. Efraim Halevy è stato capo del Mossad israeliano fra il 1998 e il 2002. Ora è convinto che l'azzardo di ieri di Abu Mazen alle Nazioni Unite, con la richiesta di dichiarare stato la Palestina, finirà per essere un gigantesco regalo a Hamas. La richiesta al Consiglio di sicurezza  – dice Halevy – è destinata ineluttabilmente a infrangersi contro il muro del veto americano, che è l'unica certezza di questa Assemblea generale dove il presidente Barack Obama ha pronunciato uno dei discorsi più filo israeliani della sua storia (e Newsweek fra due giorni pubblicherà uno scoop del proprio esperto di difesa, Eli Lake: Obama ha concesso agli israeliani le bombe antibunker di profondità che il suo predecessore George W. Bush aveva negato e che servono a Gerusalemme per bombardare i siti sotterranei dove l'Iran lavora al nucleare).

    Il ridimensionamento di Abu Mazen seguirà in automatico al veto: l'Anp, che a Ramallah campa anche grazie ai finanziamenti di Washington e ai legami economici con Israele – migliaia di palestinesi lavorano per l'economia di Gerusalemme – rivelerà di essere impotente. Hamas guadagnerà prestigio e considerazione. “Una sconfitta palestinese non equivale sempre a un successo israeliano”, scrive Halevy: in questo caso, il no ad Abu Mazen sarà paradossalmente un segno del declino nella forza strategica di Israele in medio oriente, come lo è stato l'attacco al Cairo contro l'ambasciata israeliana (sebbene quest'ultimo è stato più facile da decifrare).

    Halevy non è l'unico scettico sul tentativo di indipendenza palestinese. Lo sono pure i diretti interessati. Da un sondaggio fatto tra il 4 e il 10 settembre dall'agenzia di Nabil Kukali del Centro palestinese per l'opinione pubblica in collaborazione con il Pechter Middle East Polls di Princeton, risulta che soltanto il 23 per cento dei 300 mila palestinesi che abitano a Gerusalemme vorrebbe avere la cittadinanza palestinese: gli altri vorrebbero avere quella israeliana. Il 42 per cento sarebbe persino pronto a spostarsi e a cambiare quartiere per restare sotto la potestà israeliana piuttosto che sotto quella palestinese. Negli scontri che ieri sono avvenuti al checkpoint di Qalandia, che segna il passaggio dal territorio di Gerusalemme a quello di Ramallah, nessun dimostrante cantava slogan a favore del nuovo stato, sebbene Abu Mazen stesse cerimoniosamente forzandone la nascita.

    Per Aaron David Miller, su Foreign Policy, il desiderio dei palestinesi di passare dall'arena su cui hanno un'influenza limitata – ovvero i negoziati bilaterali con Israele – a quella internazionale dove ne hanno di più è tanto comprensibile quanto poco saggia. “Nulla succederà a New York ora o nel prossimo futuro che porterà i palestinesi più vicini a realizzare un vero stato: anzi, potrebbe portarli, in effetti, più lontani”.

    Tutto cospira perché l'Anp, dopo la sua giornata dell'orgoglio al Palazzo di Vetro, e Israele, dopo un anno di indifferenza sulla questione, tornino assieme al tavolo dei negoziati bilaterali. E anche se si è parlato di reazioni drastiche, come la richiesta agli Stati Uniti affinché tagli i fondi alle Nazioni Unite, come successe con Ronald Reagan nel 1989, o l'annessione al territorio di Israele delle colonie, per adesso si tende a escluderle.

    Ofer Zalzberg, dell'International Crisis Group di Gerusalemme, scommette che le due parti troveranno un'intesa per cooperare. Se i palestinesi insistono e il voto dovesse diventare realtà, “il primo ministro israeliano Bibi Netanyahu spera di mantenere lo status quo,  non vuole cambiamenti. Cercherà di guadagnare tempo, di modo che, qualsiasi cosa succeda all'Assemblea generale, perda d'importanza, non sia percepita come qualcosa di grande. Ma Israele non farà i passi radicali di cui si è parlato in questi giorni: bloccare il trasferimento delle tasse, congelare gli accordi di Oslo, annettere blocchi di insediamenti. E' molto improbabile. Israele cercherà di evitare violenze cooperando con l'Autorità nazionale palestinese”.

    Per Avraham Diskin, professore di Scienze politiche all'Interdisciplinary Centre di Herzliya, è necessario aspettare che passi il momento del voto e che il governo di Gerusalemme dia i segnali giusti: “Molto dipende dai colloqui tra America e Israele di queste ore. Il governo israeliano non è soltanto pronto, ma è persino ansioso di andare ai negoziati con i palestinesi. E' un governo falco, tuttavia in passato ha fatto mosse in favore dei negoziati, come congelare per dieci mesi la costruzione di insediamenti. Per ora siamo in una specie di impasse e i palestinesi non sono interessati a negoziare. Israele farà pressioni per testare la situazione. Ci sono diverse strade possibili: Israele potrebbe dichiarare pubblicamente la volontà di negoziare senza precondizioni, lo dirà in privato alla controparte palestinese con cui ha contatti. Non farà pressioni all'Anp. Si è parlato della possibilità che Israele blocchi il trasferimento di tasse, che annetta blocchi di insediamenti. Non penso sia furbo e non penso possa accadere”.

    Il quotidiano britannico Telegraph dice in un lungo editoriale non firmato che non è stata una cattiva mossa da parte di palestinesi chiedere alle Nazioni Unite un riconoscimento formale, perché in questo modo hanno messo tutti gli attori chiave davanti a una scelta da fare e si sono assicurati che il tema fosse ancora una volta all'attenzione del mondo, “dove merita di stare”. Ma tanto ai negoziati si deve tornare ed è meglio accantonare fin da ora ogni scetticismo sulla proposta di Netanyahu di trattare perché tanto “la pace passa soltanto per gli incontri bilaterali con Israele”.

    Considerato che la richiesta di adesione di Abu Mazen al Consiglio di sicurezza sarà bloccata, spiega l'Economist, che lo definisce “il leader palestinese più disposto alla  pace di cui gli isreliani possono disporre”, il leader dell'Anp dovrebbe tornare all' “opzione Vaticano”, ovvero di accontentarsi dello status di osservatore non membro, e concedere delle rassicurazioni agli israeliani, come la rinuncia a portare Israele davanti alla Corte internazionale di giustizia e l'ammissione davanti ai rifugiati palestinesi che la maggior parte di loro non tornerà alle loro case in territorio israeliano.  “E' il prezzo della partizione”.

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