Con cento morti al giorno la Siria è peggio dell'Iraq del 2005
Arrivano gli osservatori. Oggi entra in Siria la prima squadra di osservatori mandata dalla Lega araba a controllare la situazione, dopo l'accordo con il regime. Seguiranno centinaia di esperti – anche avvocati e medici legali – con il compito di capire che cosa stia succedendo (i giornalisti internazionali sono tenuti fuori dal paese, oppure sono portati a casa del presidente Assad per interviste che non hanno contatto con la realtà) e di fermare le violenze.
di Paola Peduzzi e Daniele Raineri
Arrivano gli osservatori. Oggi entra in Siria la prima squadra di osservatori mandata dalla Lega araba a controllare la situazione, dopo l'accordo con il regime. Seguiranno centinaia di esperti – anche avvocati e medici legali – con il compito di capire che cosa stia succedendo (i giornalisti internazionali sono tenuti fuori dal paese, oppure sono portati a casa del presidente Assad per interviste che non hanno contatto con la realtà) e di fermare le violenze. Ci saranno pure inviati del Bahrain, il regno del Golfo accusato per la mano pesante contro i suoi rivoltosi sciiti. Sembra che siano guidati – se fosse confermato, è una scelta sciagurata – da un generale sudanese nel mirino della Corte internazionale di Giustizia per crimini di guerra. Si teme che Damasco usi la tattica dei villaggi Potëmkin, quelle facciate di legno che secondo la leggenda furono piazzate dal principe Grigorij Aleksandrovic Potemkin sul percorso della zarina Caterina II durante un viaggio in Crimea. Gli stessi greggi di pecore erano spostate lungo la strada e figuranti sorridenti facevano credere all'imperatrice che tutto andasse come nel migliore dei mondi possibili. In porto, una flotta di navi mercantili truccate da navi da guerra coronava lo sforzo e l'inganno. Il regime non è nuovo a forzature propagandistiche: la tv di stato ha sostenuto che la rivolta libica a Tripoli fosse una sceneggiata girata negli studi di al Jazeera e trasmessa per indebolire il morale degli altri arabi. Confessioni di “terroristi” vanno regolarmente in onda e ieri è stata organizzata una grande esercitazione militare con bombardieri, elicotteri e carri armati per dare l'immagine di un esercito compatto e pronto a usare i suoi mezzi. Secondo fonti siriane, il regime sta già spostando i prigionieri politici nelle caserme, che in quanto zone militari sono escluse dalla missione degli osservatori.
Il terremoto nei salotti parigini. Nel 2008, Assad partecipò alle celebrazioni parigine invitato dal presidente francese, Nicolas Sarkozy. Era il culmine di una strategia di appeasement portata avanti da Parigi – con la collaborazione dell'America – per sottrarre la Siria dall'asse del male bushiano. Assad sembrava un leader duro ma ragionevole, e molti si convinsero che con l'appoggio di Damasco si potessero risolvere molti guai, dalla liberazione del caporale Shalit alle faide intrapalestinesi. Parigi s'illuse che si sarebbe potuto allentare il rapporto tra Siria e Iran e investì su una “special relationship” con Assad. Ora la Francia ha voltato le spalle al suo ex “amico” e anzi è la più attiva nel denunciare le brutture della dittatura e a chiamare a raccolta la comunità internazionale – agisce assieme alla Turchia, anche se negli ultimi giorni la questione del genocidio armeno sta facendo saltare, a suon di sgarbi telefonici, quest'alleanza. Sarkozy è stato tra i primi a riconoscere l'opposizione siriana come interlocutore politico, anche perché vive in casa: storicamente gli esuli siriani riempiono i salotti parigini, tengono lezioni alla Sorbona, spiegano che cosa accade nell'opaca Damasco. Ma, come già accaduto con opposizioni di altri paesi, non tutto è trasparente nemmeno da quella parte.
Il buono, il brutto, il cattivo. Burhan Ghalioun è il capo del Consiglio nazionale siriano (che esiste già dal 2005, ma che ora sta vivendo una nuova giovinezza grazie al gemello libico) con sede a Parigi. Se si potesse creare un leader dell'opposizione al computer, verrebbe fuori Ghalioun. E' nato, sessantasei anni fa, a Homs, una delle città più martoriate dalla repressione degli Assad, è cresciuto nella politica e con la politica, quando aveva dieci anni già discuteva di comunismo, panarabismo, nazionalismo e democrazia. Arrivato a Damasco come studente, divenne presto uno dei più ricercati dai servizi segreti, con tutto quel che questo comporta: arresti, botte, minacce a tutta la famiglia. Con l'arrivo di Hafez Assad, Ghalioun lasciò la Siria, sarebbe rientrato vent'anni dopo, per seppellire suo padre. Nel frattempo è diventato uno dei più solidi oppositori del regime e dei regimi di tutta la regione (scrisse un manifesto per la democrazia in Algeria, tanto per non far innervosire nessuno) e ora, dalla sua casa modesta in un quartiere modesto di Parigi, sommerso di piante perché così era abituato a Homs, rilascia dichiarazioni da sogno: romperemo i rapporti con Iran e Hezbollah, normalizzeremo i rapporti con Israele, siamo anche disposti a ridare a Gerusalemme il Golan. Ovviamente questo basta a renderlo inviso a gran parte dei siriani, che pure combattono contro il regime. Il rapporto più difficile è quello con il capo dell'esercito dei dissidenti, Riad al Asaad, un colonnello con i baffi che comanda dal confine turco le operazioni militari contro l'esercito regolare di Damasco. Per quel che si sa, Asaad è la mente dietro gli attacchi più spettacolari e mortiferi ai danni del partito di regime e dell'esercito, ma secondo alcuni rappresenta il problema più grave per l'opposizione: formalmente c'è un patto tra Ghalioun e Asaad, ma il primo dice sempre al secondo di smetterla con le violenze. Il colonnello non ci sente, combatte la violenza con la violenza, ma questo rende difficile per la comunità internazionale sostenerlo, soprattutto per quei paesi che hanno imparato sulla loro pelle che schierarsi, in una guerra civile a così alto tasso d'armamenti da emtrambe le parti, non porta mai a buoni risultati (la Russia ne ha approfittato chiedendo all'Onu sanzioni sia per l'esercito regolare sia per l'esercito ribelle). A complicare ancora di più i rapporti tra opposizione e resto del mondo – quelli sul campo hanno detto al Monde che si sentono abbandonati – c'è il più cattivo di tutti: lo zio di Assad, Rifaat, meglio noto come “il macellaio”, l'autore del massacro di Hama. Immortalato come un diplomatico di lungo corso, al telefono su una scrivania luccicante, Rifaat ha detto in un'intervista al Figaro di qualche settimana fa che suo nipote Bashar deve andarsene perché non può mantenere il controllo del paese con i carriarmati e la repressione è durata troppo a lungo senza di fatto avere successo. Così anche il macellaio è entrato a far parte dell'opposizione all'attuale regime di Damasco.
Cento morti tra gli ulivi. Idlib è una piccola città nel nord, a soli tre quarti d'ora di automobile da Aleppo, vicino al confine con la Turchia. Anzi, in quella zona il territorio turco forma un cuneo tra il mare Mediterraneo e la Siria e cade verso sud a formare un becco di un centinaio di chilometri. La zona collinosa e coperta da alberi di olivo è diventata il più grande corridoio per l'andirivieni di disertori e ribelli siriani con la Turchia. Due giorni fa i soldati di Damasco hanno chiuso in una sacca almeno un centinaio di commilitoni in fuga verso il confine e verso la salvezza e li hanno uccisi – il numero preciso, 111, è stato dato da Rami Abdulrahman dell'Osservatorio siriano per i diritti umani, un'organizzazione con base a Londra che ha contatti clandestini in Siria. La Francia ha immediatamente condannato senza troppe verifiche “il massacro senza precedenti”. In due giorni, lunedì e martedì, il numero dei morti sarebbe stato di 250. Idlib è uno dei fronti più violenti dei combattimenti tra l'esercito libero di Siria – i ribelli, soprattutto disertori sunniti – e il regime. Da domenica, almeno 17 veicoli dell'esercito regolare sono stati distrutti. E' così vicina alla Turchia da essere la zona ideale per la creazione della cosiddetta “buffer zone”, una porzione di territorio siriano che eventualmente dovrebbe essere sorvegliata da soldati turchi e fare da rifugio per gli sfollati – e, ineluttabilmente, da rifugio sicuro per la guerriglia. Il regime vuole evitare che si trasformi nella Bengasi siriana e poi vicino c'è la paciosa Aleppo, capitale d'affari del paese, che assieme a Damasco resiste nell'illusione che la rivoluzione possa spegnersi. Il contagio per ora non c'è ancora stato, a dispetto della prossimità – tranne che tra le teste calde degli studenti all'università, ieri attaccati dagli uomini di Assad. Ma se Aleppo cade, Damasco resta sola e la vita del regime s'accorcia.
Pare Ramadi. Da Idlib andando verso sud, verso la capitale Damasco difesa dal grosso delle truppe e verso il confine con il Libano, c'è prima Hama – rasa al suolo nell'81 dal padre del presidente Bashar el Assad, Hafez – e poi Homs. Oltre a essere così in mezzo, sulla strada di collegamento, Homs è anche la zona dove per la prima volta, lo scorso luglio, hanno cominciato ad agire i battaglioni dell'esercito libero di Siria e che meglio si riesce a difendere dagli attacchi degli uomini di Assad. La guerra civile siriana è partita da lì. Se Idlib è la Bengasi siriana – ovvero la città vicina al confine dove è più probabile che comincino gli aiuti internazionali – Homs è la nuova Misurata, la zona più contesa e investita con più violenza dai combattimenti. O forse è la nuova Ramadi, per rispolverare il nome della città dell'Iraq occidentale dove si combatté con più durezza tra il 2004 e il 2007. Il bollettino quotidiano delle notizie che si può ricostruire dalle fonti, compresa l'agenzia di stato, da leggere con freddezza e cautela, ricorda lo scenario iracheno: un colonnello con le gambe amputate per colpa di una bomba nascosta sotto la macchina, guerriglieri che sparano da un taxi in corsa, altri che prendono di mira bus militari. Mai, però, durante la guerra in Iraq, ci furono giornate di guerriglia così sanguinose, se non si contano gli attentati di al Qaida contro la popolazione civile. ieri da Homs sono stati rapiti cinque ingegneri iraniani che lavoravano a una centrale in cosntruzione nei paraggi. Il fatto di arrivare dall'Iran, alleato del regime, e di lavorare a un progetto di stato vicino al centro della ribellione li ha resi bersagli naturali.
di Paola Peduzzi e Daniele Raineri
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