Se questo è un reato

Redazione

La procura romana ha chiesto che Denis Verdini e Marcello Dell’Utri vengano rinviati a giudizio per “associazione per delinquere diretta a realizzare una serie indeterminata di delitti di corruzione, abuso d’ufficio, illecito finanziamento, diffamazione e violenza privata, caratterizzata dalla segretezza degli scopi, dell’attività e della composizione”. In tutta questa sequela di parole quella che spicca è “indeterminata”.

    La procura romana ha chiesto che Denis Verdini e Marcello Dell’Utri vengano rinviati a giudizio per “associazione per delinquere diretta a realizzare una serie indeterminata di delitti di corruzione, abuso d’ufficio, illecito finanziamento, diffamazione e violenza privata, caratterizzata dalla segretezza degli scopi, dell’attività e della composizione”. In tutta questa sequela di parole quella che spicca è “indeterminata”. Già, perché l’elenco lunghissimo di reati, ai quali si aggiunge addirittura la pressione per distorcere il funzionamento degli organismi dello stato, dovrebbe produrre una serie definita, invece, di specifici procedimenti giudiziari, con l’identificazione, definita, di responsabili, di fatti, magari persino di prove. Invece, c’è soltanto l’uso di una legge bislacca, quella che fu approvata dopo il can-can sulla loggia P2, che non si sa esattamente che cosa vieti e che reato configuri. Da quel che si capisce persino dietro il linguaggio allusivo e poco persuasivo del procuratore aggiunto Pellegrino Capaldo, ci sono stati incontri tra esponenti di un’area politica interna a un partito allo scopo di esercitare pressioni. Insomma si tratta di quella che una volta si chiamava “corrente di partito”. Considerare un reato, per esempio, il fatto che si sia cercato di convincere esponenti della Corte costituzionale della correttezza della legge Alfano, che in quel momento era una legge dello stato, perfettamente in vigore e promulgata dal Capo dello stato, appare perfino ridicolo.

    Lo sappiamo, poi: una corrente, o se si preferisce una lobby, agisce in certe circostanze in modo riservato. Trarne la conclusione che si tratti di un’associazione segreta ha il solo scopo di creare un calderone che nasconda la vaghezza delle prove sui singoli reati, che così si può evitare di contestare specificamente e separatamente, magari fornendo anche le prove necessarie. A tutto questo poi va aggiunto anche un particolare non secondario che rende la storia dell’inchiesta portata avanti dal procuratore aggiunto che sta indagando sulla famosa P3 quantomeno paradossale. Il dottor Capaldo, qualche tempo fa, fu protagonista di un incontro (avvenuto a casa di suo figlio) con l’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti e il suo ex collaboratore Marco Milanese, all’epoca sotto indagine nel suo distretto. In un certo senso si può dire che Capaldo sa bene che la vita degli uomini pubblici spesso è fatta di rapporti lobbistici non sempre facili da comprendere e non sempre ascrivibili a una particolare tipologia di reato.

    Con ogni probabilità, la vicenda della P3 finirà nel nulla, perché, al di là del partito delle procure, c’è ancora a qualche livello della magistratura qualcuno che sa distinguere tra propaganda para politica a mezzo incriminazione e il perseguimento dei reati. Intanto, però, la leggenda nera della P3 si diffonde in modo minaccioso, il che, oltre a danneggiare le persone coinvolte, lancia un messaggio trasversale inquietante. Agire nel campo politico è sempre più pericoloso, specialmente se non si condividono gli obiettivi del partito delle procure (che però non è un’associazione segreta).