Militari a Damasco

Redazione

Al direttore - In queste ore a Homs Bashar el Assad sta “completando il lavoro” iniziato nel 1982 dal padre Hafez el Assad con il massacro di Hama, quando oltre 10 mila civili vennero uccisi prima con l’uso dell’artiglieria pesante e dei tank, poi sterminati casa per casa. Trent’anni dopo sono ripresi i massacri su larga scala e l’occidente è incapace di agire, bloccato dal veto di Russia e Cina al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

di Gianni Vernetti, Senatore di Alleanza per l’Italia

    Al direttore - In queste ore a Homs Bashar el Assad sta “completando il lavoro” iniziato nel 1982 dal padre Hafez el Assad con il massacro di Hama, quando oltre 10 mila civili vennero uccisi prima con l’uso dell’artiglieria pesante e dei tank, poi sterminati casa per casa. Trent’anni dopo sono ripresi i massacri su larga scala e l’occidente è incapace di agire, bloccato dal veto di Russia e Cina al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

    La Russia, anche in vista dell’appuntamento elettorale, ha rispolverato l’anacronistica retorica delle sfere d’influenza, facendo valere il proprio potere di veto e oscillando fra la tentazione di una “Cold War 2.0” e un più utile allineamento con l’occidente. Quest’ultima scelta, peraltro, rappresenterebbe il modo migliore per conservare i propri asset militari nel Mediterraneo (Tartous). La Cina, tutta protesa all’imminente e pilotato cambio di leadership, è oramai diffidente nei confronti di ogni possibile cambio di regime e tale scelta è condizionata da valutazioni “interne”: nel 2011 il budget cinese per la “sicurezza interna” ha superato la spesa militare. La Lega araba rappresenta senza dubbio un elemento di novità nel quadro mediorientale e potrebbe essere un fattore innovativo per affrontare il dossier siriano.

    La primavera araba e un Iran quasi nucleare hanno risvegliato dal torpore un’organizzazione che si è limitata a promuovere retorica panarabista e anti israeliana senza assumere mai il ruolo di vero player geopolitico regionale. Il cambio di regime in Tunisia, Egitto e Libia, la nuova assertività del Qatar a partire dal ruolo svolto in Libia, la paura dei paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo nei confronti della crescente minaccia iraniana hanno condotto la Lega araba su posizioni inimmaginabili fino a poco tempo fa. La rottura con Damasco seguita dalla legittimazione del Syrian National Council e la posizione molto dura nei confronti di Russia e Cina dopo il veto al Palazzo di Vetro ne hanno mutato il posizionamento geopolitico e la propensione a poter svolgere un ruolo molto più attivo nella gestione del dossier siriano.

    Alla luce di queste considerazioni Europa e America devono assumere alcune decisioni urgenti. Nell’ordine: decidere che è nostro diritto/dovere intervenire per proteggere la popolazione civile dal massacro in corso, optando per una iniziativa di ingerenza umanitaria nel quadro della dottrina della “Responsability to Protect”. Contemporaneamente, decidere che il cambio di regime in Siria è un nostro chiaro interesse (sì, esiste un “interesse nazionale” euro-americano), per diversi motivi: indebolimento dell’Iran; riduzione della pressione su Israele; restituzione di una piena sovranità al Libano; rottura dei legami fra Siria, Hezbollah, Hamas; drastico miglioramento delle condizioni di sicurezza regionale; miglioramento delle condizioni di sicurezza dei paesi arabi del Golfo.

    Gli “amici della Siria”
    Un intervento in Siria è dunque giusto e anche utile. Le modalità politiche e militari dell’intervento in Siria ricorderanno il Kosovo del 1999. La Siria è per la Lega araba ciò che fu per noi europei la Serbia: una dittatura che aveva perso ogni legittimità internazionale dopo i massacri in Croazia e Bosnia e che stava per compierne di ulteriori nei confronti della minoranza kosovara. Allora promuovemmo un intervento militare senza il consenso del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per difendere il diritto a esistere dell’ultima comunità musulmana in Europa e per far cadere una delle ultime satrapie europee. Oggi dobbiamo intervenire per difendere i siriani nel loro desiderio di democrazia e per cambiare un regime che esporta instabilità, terrorismo e insicurezza.

    Lega araba, Europa, Stati Uniti e Turchia dovranno dunque promuovere una coalizione ad hoc (gli “Amici della Siria” come definita da Hillary Clinton) per promuovere in tempi rapidi un’azione politico-militare comune. Anche se gran parte del lavoro dovrà essere svolto dalle forze euro-americane, la Lega araba ne dovrà conservare la leadership sul modello di quanto accaduto in Costa d’Avorio nel 2010. Credo che il timing politico e militare potrebbe essere il seguente.

    1. Riconoscimento del Syrian National Council quale legittimo rappresentate del popolo siriano e rottura delle relazioni diplomatiche con il regime di Assad.

    2. Istituzione di una No Fly Zone sulla Siria e avvio di un intervento militare mirato alla riduzione delle capacità offensive di Assad per interrompere l’offensiva militare contro i ribelli e la popolazione civile. Le operazioni aeree saranno condotte dalla Nato su mandato della coalizione “Friends of Syria”, con la partecipazione di forze armate aeree di alcuni paesi arabi (Qatar, Emirati Arabi Uniti, Giordania, Arabia Saudita). Le basi militari in Turchia svolgeranno lo stesso ruolo svolto dalle basi italiane nell’intervento in Libia.

    3. Sostegno militare alla Free Syrian Army con forniture di materiale bellico da parte dei paesi arabi della coalizione e dalla Turchia. Gli stessi paesi potrebbero inviare istruttori sul campo una volta che verranno realizzate le prime aree liberate.

    4. Creazione di una “Zona Libera” al confine con la Turchia per organizzare corridoi e assistenza umanitaria nei confronti dei possibili ingenti flussi di profughi.

    5. Sostegno logistico ai governi dell’Iraq e della Giordania per il controllo e il monitoraggio della lunga e porosa frontiera con la Siria per prevenire i rischi di infiltrazioni di gruppi terroristici islamisti.

    6. Accordo con la Russia per l’utilizzo della base militare di Tartus per il coordinamento delle operazioni umanitarie.

    di Gianni Vernetti, Senatore di Alleanza per l’Italia