Il "magico quotidiano" di Lucio Dalla, cantautore felice
Per cinque anni – e precisamente dal 1977 al 1981 – Lucio Dalla ha rasentato la perfezione, come forse mai nessuno nella musica leggera italiana prima e dopo di lui
Pubblichiamo il capitolo dedicato a Lucio Dalla dell'antologia "Canzone Italiana, 1861-2011", storia e testi a cura di Leonardo Colombati, edito da Mondadori Ricordi
Per cinque anni – e precisamente dal 1977 al 1981 – Lucio Dalla ha rasentato la perfezione, come forse mai nessuno nella musica leggera italiana prima e dopo di lui. Gli album Come è profondo il mare (1977), Lucio Dalla (1979) e Dalla (1980) – con il corollario del live Banana Republic (1979) in collaborazione con De Gregori e del mini-lp Dalla Q-Disc (1981) – testimoniano una creatività straripante e soprattutto una felicità assoluta; felicità intesa come gioia pura del cantare e fare musica, libido nell’atto creativo che magicamente lascia traccia di sé negli esiti: ascoltare Dalla, quel Dalla, migliora la qualità del tempo speso a farlo non tanto perché ci si sente intellettualmente sollecitati o perché si resta intrappolati dal potere incantatorio della musica, ma perché quelle note, quella voce sprigionano un’energia positiva davvero contagiosa. E questo, nonostante il mondo che lui racconta sia sempre sull’orlo della catastrofe, pieno di malefici uccellacci, (53) di russi ed americani col dito pronto a premere un bottone rosso, (54) di angeli di Dio che bestemmiano e prigionieri coi piedi insanguinati, (55) sotto un cielo da cui penzola «una stella senza luce», che poi si rivela essere «quella del brodo Star». (56) Un mondo che ai «pesci, dai quali discendiamo tutti, […] indubbiamente» deve «sembrar cattivo»; (57) ma tra questo sfondo minaccioso e l’uomo – ecco il miracolo che compie Dalla – «c’è tutto il “magico quotidiano” (fatto di tutto e di niente, di incontri, di amori, di sogni), che l’uomo stesso scatena dal suo “io” perché intervenga a mutare il senso, se non il corso, delle cose». La “vittima della storia” diventa così «la misura di una vita degna di essere vissuta e “bella da cantare”, se non altro per il fatto di sapersi riprodurre e di produrre sogni, di soffrire l’amore e le ingiustizie, di amare, di godere, di avere paura per sé e per i figli».(58) A un manipolo di dèi che si pettinano aspettando l’Apocalisse, l’uomo può così rispondere: «e per che cosa mi dovrei pentire, / di giocare con la vita e di prenderla per la coda? / Tanto un giorno dovrà finire / e poi, all’eterno ci ho già pensato: / è eterno anche un minuto, ogni bacio ricevuto / dalla gente che ho amato».(59)
Prima di quel Lustro d’Oro, c’è stata per Dalla una gavetta lunghissima, iniziata nel 1958: «mia madre» ricorderà «non si è mai opposta al fatto che io facessi il musicista. Anzi, era molto soddisfatta; tant’è che io con un po’ di amarezza smisi di andare a scuola in quinta ginnasio per andare a suonare a Roma e avevo dei dubbi che mi levò lei. “No” disse, “va’ a Roma immediatamente a suonare e a divertirti! È meglio avere un artista in casa che un bidello”»(60). Il ragazzo suona con Chet Baker,61 fa da session- man nei dischi balneari di Edoardo Vianello, e nel 1963 viene convinto da Gino Paoli ad usare la voce per cantare e non solo per prodursi in folli scat (62). Nel 1966 la Arc gli pubblica un album intitolato 1999, dove vengono raccolti tutti i 45 giri incisi nel biennio precedente, quando hanno provato a lanciarlo come cantante soul, una sorta di clone di Fausto Leali. C’è anche “Paff… bum!” che Dalla ha presentato a Sanremo assieme agli Yardbirds. Terra di Gaibola (1970) e Storie di casa mia (1971) sono gli album che completano la prima trilogia discografica del Nostro; le musiche le compone lui, i testi sono affidati a Sergio Bardotti, Paola Pallottino e Gianfranco Baldazzi, alcune canzoni diventeranno dei classici: “Occhi di ragazza” (già interpretata da Morandi), “Itaca”, “Il gigante e la bambina” (scritta per Ron) e soprattutto “4/3/43”, presentata a Sanremo ’71. Un anno dopo, Dalla tornerà al Festival con “Piazza Grande”: «santi che pagano il mio pranzo non ce n’è / sulle panchine in Piazza Grande, / ma quando ho fame di mercanti come me qui non ce n’è. / Dormo sull’erba e ho molti amici intorno a me, / gli innamorati in Piazza Grande: dei loro guai dei loro amori tutto so, sbagliati e no» (63).
“4/3/43” e “Piazza Grande” sono due canzoni d’impianto nazionalpopolare, che danno al bolognese la prima notorietà, ma che non riescono a soddisfarlo pienamente dal punto di vista artistico. L’incontro col poeta Roberto Roversi inaugura la seconda fase della carriera di Dalla, quella più sperimentale, concretizzatasi in una nuova trilogia: Il giorno aveva cinque teste (1973), Anidride solforosa (1975) e Automobili (1976). A far scoccare la scintilla fra i due, dopo qualche prova alla Libreria Palmaverde di Bologna, fu il verso «nevica sulla mia mano», da “La canzone d’Orlando”. «Rimasi come scioccato da questo meccanismo» ricorda Dalla, «e da lì cominciammo ad andare avanti. […] Roversi mi ha insegnato cose ininsegnabili. Per partenogenesi, per osmosi, tirandomi da lontano delle freccine con la cerbottana mi ha fatto capire delle cose che non avrei mai capito né a scuola né da solo né andando tre volte sul monte Sinai. Ho capito soprattutto l’organizzazione del pensiero della canzone, la parola, il senso, il segno, la forza» (64).
Roversi vuole fare “canzoni civili”, e ne scrive parecchie: sul primo disco ci sono “L’auto targata ‘To’”, sugli emigrati, e “L’operaio Gerolamo”, che parla degli incidenti sul lavoro. Anidride solforosa è un album sull’inquinamento ambientale e fieramente anticapitalista (“La borsa valori”). Automobili è un capolavoro di poesia in musica, un concept-album, un poema eroicomico sulla Fiat, le corse, Nuvolari, il mito futurista delle macchine. L’incipit è una irresistibile “Intervista con l’Avvocato”: «buongiorno, grazie Avvocato, / sono del “Manchester Guardian”. / Non le farò perdere tempo; / questa è la prima domanda: / la Fiat nella sola Torino / ha centoventimila operai, / quindicimila le industrie / legate a questo destino. […] / Ora sbaracca a Vòlvera la fabbrica con i ricambi, / la fonderia a Crescentino?». La risposta di Agnelli è un’esilarante e incomprensibile scat di Dalla… Poi «si fa un balzo indietro in una Italia bombardata e contadina dove ancora le velocità inusitate del motore a scoppio sono sintomo e simbolo di progresso; […] un’Italia dove si aggira ancora “una morte secca per i campi a falciare il grano”»(65): è “Mille miglia” – divisa in due parti –, la cronaca di quel grandioso spettacolo su quattro ruote, una cosa alla Cecil De Mille, racconto di eroi come Arcangeli, Varzi, Campari, Biondetti e poi lui, Nuvolari, il campione a cui è dedicata la canzone eponima. “L’ingorgo” e “Il motore del Duemila” sono le due facce della stessa medaglia: realtà e mitologia del mostro tecnologico creato da un mondo-industria che non sa immaginare il futuro. Il finale è cinematografico: «dall’alto piove una neve verde / portata dall’ombra della sera; / scoppiano tre stelle all’improvviso, / enormi come un grande riflettore, / sopra all’auto scalcinata / al margine di un campo, / dentro a un’auto in demolizione / dove due ragazzi senza tempo / fanno l’amore» (“Due ragazzi”).
«Alla fine Roversi si ritirò» ricorda Dalla. «Fu un trauma. […] Dopo Roversi non avrei mai immaginato di poter scrivere testi con altri. È come quando scopi con la Schiffer; a un certo punto lei non c’è più e al suo posto c’è un pastore tedesco. Allora capii che dovevo cominciare a scrivere i testi delle mie canzoni»(66). È l’estate del 1977: Dalla si ritira nella sua casa alle Tremiti e tira fuori otto canzoni. «All’inizio è stato difficile. Ma dopo i primi tre o quattro versi, ho capito che non solo era necessario, ma anche divertente…»(67). Quando in autunno esce Come è profondo il mare, le prime reazioni sono stupite: possibile che un mese di isolamento da parte di un musicista che non ha mai sviluppato un proprio linguaggio letterario possa dotarlo della tecnica e dell’ispirazione necessaria a scrivere versi così belli? Sono accessibili e aperti, divertenti e anomali: prese di coscienza in flussi di coscienza; licenze a “delirar per vero”. «Lucio è navigatore e superstite nel mezzo d’un mare come un fuoco. È l’Ulisse che canta con tensione poetica la forza dell’amore e il coraggio nella disperazione, attraversando la storia umana, tra ricordo e irrazionale, sorpreso e allucinato.»(68). «Siamo noi, siamo in tanti, ci nascondiamo di notte / per paura degli automobilisti, dei linotipisti» canta nella title-track, disegnando un paesaggio soffocante e ostile; e in “Quale allegria” – forse l’episodio più alto del disco –: «Senza Dalla allegria, uscire presto la mattina, la testa piena di pensieri, / scansare macchine, giornali, tornare in fretta a casa; / tanto oggi è come ieri». “Il cucciolo Alfredo” è ambientata «tra le case e i palazzi di una strada all’inferno»; ma – ecco lo “scarto” tipico in Dalla – al protagonista, «avvilito e appuntito, / con i denti da lupo tradito» basta cantare «in modo diverso / la canzone senza note di uno che si è perso, / canzone diversa ma canzone d’amore», ed ecco che l’oscena realtà è solo un drappo da scostare: «se la sua è cattiveria io la prendo per mano / e ce ne andremo lontano». Così, il protagonista del “Disperato erotico stomp”, rinchiuso nel suo appartamento, pensa «a delusioni, a grandi imprese. / a una tailandese; / ma, dice, l’impresa eccezionale, / dammi retta, è essere normale. / Quindi, normalmente, sono uscito dopo una settimana: / non era tanto freddo e normalmente ho incontrato una puttana. / A parte il vestito, i capelli, la pelliccia e lo stivale, / aveva dei problemi anche seri e non ragionava male. / Non so se hai presente una puttana ottimista e di sinistra… / Non abbiamo fatto niente, ma son rimasto solo, solo / come un deficiente»; ricorrerà – e sarà un passo celeberrimo, in qualche modo “rivoluzionario” – alla masturbazione, ma noi gli prestiamo le parole di un altro pezzo dell’album: «io me ne vado via / […] dove se apri le orecchie non le chiudi per la rabbia e lo spavento, […] dove puoi rinunciare alla gioia per una sottile tenerezza, […] dove puoi uccidere il tuo passato o il Dio che ti ha creato […] / e correre insieme agli altri ad incontrare il tuo futuro / che oggi è proprio tuo.».(69) L’umanità in Dalla vince sempre. Lui spiega: «io amo la realtà anche quando è orribile. Amare la realtà significa presentarla attraverso meccanismi accessibili. Significa trovare in ogni momento quel barlume di ottimismo che ti aiuta ad andare avanti pur continuando a osservare, a tenere gli occhi bene aperti sul mondo. Vedere il lato buono in ogni cosa è una conquista che costa fatica».(70)
La musica, poi, tirata a lucido, amplifica lo spettacolo, complice il gioco di squadra tra Dalla e i produttori Alessandro e Renzo Cremonini; oltre a Sandro Centofanti e Ron, che si dividono le tastiere con Lucio, la band che per due settimane registra tutto negli studi romani è il nucleo degli Stadio: Fabio Liberatori (effetti elettronici), Marco Nanni (basso) e Giovanni Pezzoli (batteria). Un anno più tardi si aggiungerà Ricky Portera alla chitarra elettrica e andranno a registrare il nuovo album al Castello di Carimate. Il titolo è, semplicemente, Lucio Dalla ed esce nel febbraio del 1979: «non un elemento fuori posto. Non un verso, non un passaggio, non una nota che non dovrebbero stare dove stanno».(71) Si ha la sensazione di ritrovarsi di fronte ad un unicum, un qualcosa che non è riuscito neppure a Battisti e a De André e che con assoluta probabilità non succederà più: parliamo del “disco perfetto”. «Sembra che Dalla abbia trovato l’alchimia giusta per dire ciò che sente, anche le cose più difficili e contorte, con una fluidità di scrittura che sembra piovuta dal cielo, una manna di cui cibarsi. […] Ogni minimo particolare, ogni suono è stato levigato, ripulito.»(72) Si parte dallo scenario apocalittico di “L’ultima luna”, un mondo al suo ultimo giorno con le scimmie per strada, signori eleganti con le orecchie insanguinate, file di prigionieri in ceppi: finché non «sospesero i giochi e si spensero le luci, cominciò l’inferno; / la gente corse a casa perché per quella notte ritornò l’inverno». A questo punto parte l’assolo chitarristico di Portera – uno dei due-tre più celebri della storia della nostra canzone – al termine del quale ci si presenta questa scena kubrikiana: «l’ultima luna la vide solo un bimbo appena nato: / aveva occhi tondi e neri e fondi e non piangeva; / con grandi ali prese la luna tra le mani, tra le mani, / e volò via e volò via: era l’uomo di domani l’uomo di domani».(73) La seconda traccia, “Stella di mare”, è un crescendo mozzafiato, in cui il pianoforte s’arrampica sul ritmo dettato dal basso di Nanni (protagonista di tutto il disco) e la batteria di Pezzoli: «Così stanco da non dormire. / Le due di notte: non c’è niente da fare. / Mi piace tanto poterti toccare / o stare fermo e sentirti respirare ». “La signora” è l’amaro ritratto delle insoddisfazioni borghesi; “Tango” si apre con gli archi arrangiati da Reverberi e la fisarmonica di Gianni Ziglioli e si chiude con una quartina fulminante: «Morena è lontana e aspetta, / suona il suo violino ed è felice: / nel sole è ancora più bella e non ha fretta, / e sabato è domani». La dolcissima “Notte” è un tipico stream of consciousness dalliano, con alcuni versi mozzafiato: «notte bianca come il vestito di una sposa, / in leggera discesa così che il corridore stanco si riposa, / dura da masticare, a pezzi tra i denti, notte da sputare, / così noiosa che si addormenta sul divano e mi viene addosso». “L’anno che verrà” è l’ennesimo squarcio visionario: «c’è una certa amarezza che gira per la canzone» spiega Dalla; «perché in fondo è una canzone che parla di noi: “sacchi di sabbia alla finestra”… Li mettono adesso: questo è il paese degli antifurti. È un discorso pessimista, in qualche modo; però c’è, alla fine, il riscatto: anche se l’anno prossimo sarà brutto, io ci voglio essere. È questa la novità».(74)
E poi c’è “Anna e Marco” – forse la canzone della vita. Cinema in miniatura, coi due giovani protagonisti che «vivono in periferia il disagio della loro condizione esistenziale, apparentemente senza futuro e destinata a risucchiarli in una vita fatta di routine e fughe in città il sabato sera, per sognare una ipotetica America, simbolo di una dimensione di vita diversa e più gratificante. “Ma l’America è lontana, dall’altra parte della luna” e allora conviene cercare di cambiare almeno qualcosa, visto che non si può cambiare per intero la direzione della propria vita; e quale miglior cambiamento che iniziare una storia d’amore, proprio loro due, Anna e Marco?».75 Rivela Dalla: «io ho due protagonisti fissi, ideali, che sono Lui e Lei. Innanzi tutto non sono generazionali ma plurigenerazionali; possono essere ragazzini come Anna e Marco o i due adulti di “Futura”, o i vecchi di “Ciao”. […] I grandi ragionamenti li fanno [loro], i protagonisti, e li fanno perché gli cadono addosso, come una nevicata, perché sono stupefatti da un tramonto o perché non gli si infila il bigolo nel posto giusto… Quindi la scrittura di una canzone è sempre sceneggiatura, ciò mi consente di creare una forma di esasperazione dei sentimenti che se dovessi costruirla su di me sarebbe una falsificazione assoluta, visto che sono tutt’altro che esasperato. Mi dispiace dover ammettere pubblicamente di essere un tipo tranquillo; può succedermi di tutto, può arrivare un’eruzione dell’Etna a portarmi via la casa, ma ritengo che al mondo non ci sia niente di veramente definitivo e letale».(76)
In Lucio Dalla c’è pure “Cosa sarà”, un pezzo cantato in duetto con Francesco De Gregori e già uscito – in una differente versione – come lato B del 45 giri “Ma come fanno i marinai” nel dicembre del 1978. L’8 luglio di quell’anno, Lucio e Francesco avevano richiamato quarantamila persone al Flaminio di Roma. Quella del ’79 sarà la loro estate col tour negli stadi di Banana Republic, da cui scaturirà l’omonimo album live. Il più venduto della storia della musica italiana.(77)
Terzo preziosissimo tassello della trilogia “cruciale” è l’album Dalla, pubblicato nel settembre del 1980 e, come il suo predecessore, subito in vetta alla hit parade. Sembra impossibile, ma il miracolo si ripete anche a livello qualitativo: “Balla balla ballerino” detta il sound, sempre ad opera degli Stadio; nessuno riuscirà mai più a creare un vero e proprio rock d’autore come quello del Dalla a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, dove non c’è la minima traccia di citazioni o – peggio – scimmiottamenti esterofili, ma è tutto al tempo stesso internazionale e italianissimo. “Il parco della luna” è una favola noir in cui il Nostro mostra – se ce n’era ancora bisogno – di essersi impadronito della tecnica dei migliori parolieri: «sono più di cent’anni che al parco della luna / arriva Sonni Boi con i cavalli di legno e la sua donna Fortuna, / i denti di ferro, gli occhi neri / puntati nel cielo per capirne i misteri. […] Di notte va a caccia / e con il cavallo raccoglie chi si è perduto».(78) Lo sfondo comune a tutti i brani è quello di «un destino che fa paura; ma è solo un paesaggio che si avvicina e si allontana con dissolvenze incrociate»; non è un inferno, ma un purgatorio in cui «corrono, consolatorie, le immagini di un’infanzia difesa allo spasimo, con i suoi giocattoli e il suo kitsch: la nave illuminata, Sonni Boi e il luna-park, l’angelo ballerino. In un repertorio vastissimo di visi, di personaggi picareschi, di donne dolcissime o cattive, Dalla sembra cercare i corpi da amare, i capelli da contare, le sorprese e le ricompense al peso della vita».(79)
“Mambo” racconta di una love-story agrodolce, ma quel che impressiona è lo sfondo, cupo, senza spiragli.(80) “Meri Luis” è un brano fondamentale per capire il Dalla “sceneggiatore”, insuperabile deus ex machina shakespeariano a cui alla fine esce spontaneo un grido di gioia che ce lo fa amare per sempre: «Però la vita com’è bella / e com’è bello poterla cantare!». “Cara” è una serenata sentimentale, ironica e intelligente, semplicemente perfetta: «quanti capelli che hai, non si riesce a contare; / sposta la bottiglia e lasciami guardare / se di tanti capelli, ci si può fidare». “La sera dei miracoli” è un classico diorama notturno in stile Dalla, “Futura” è una natività postmoderna che è ormai entrata a far parte non solo dell’Olimpo della nostra canzone ma anche del nostro immaginario collettivo.
Un’intensità del genere è difficile da sostenere. Dalla ci prova e nel 1981 ci riesce a metà, nel senso che pubblica Dalla Q-disc, quattro canzoni che in realtà sono tre: “Telefonami tra vent’anni”, “Madonna Disperazione” e “Ciao a te”; la quarta traccia è una rilettura jazz di “You’ve Got a Friend” di Carole King. Ne viene fuori un Dalla ancora ispirato, ormai libero di fare piazza pulita di molti cascami ideologici e di residui demagogici connessi alla canzone d’autore del periodo. Poi, nel 1983, arriva la crisi: il nuovo album s’intitola 1983 – appunto – e «alterna intuizioni geniali a momenti di abbandono, slanci formidabili a segni di stanchezza. […] L’autore ne è pienamente consapevole, tanto da affermare: “L’ho registrato a caldo, senza una progettazione e senza tenere conto dell’interlocutore, del pubblico a cui mi rivolgo”».(81) Qualche anno dopo chiarirà il concetto: «mentre stavo registrando 1983 ero impegnato a rinnovare il mio contratto discografico, non mi andava molto di fare quel disco. L’errore era già alla base: centrare il disco sul mio personaggio; resi la mia situazione di cantante e autore più seria di quello che doveva essere. Cantavo su una sedia, davo le coordinate, mentre il soggetto delle mie canzoni è sempre stato la gente, non ho mai soggettivizzato tranne in episodi volutamente ironici come “Disperato erotico stomp”».(82)
Non è un caso che Dalla espungerà in eterno le canzoni di 1983 dalle scalette dei suoi concerti; anche se è un peccato, almeno per quanto riguarda la title-track (lungo e complesso racconto autobiografico giocato tra passato, presente e futuro), “Camion” (con quel finale illuminante: «amante è solo chi ama, non quello che è amato») e la meravigliosa “L’altra parte del mondo”. Sarà questo, comunque, l’ultimo disco che Dalla realizza con gli Stadio. A partire da Viaggi organizzati (1984), cambia la musica, letteralmente: per andare appresso alla nuova ossessione telematico-fantascientifica – un po’ Blade Runner un po’ Star Wars – il bolognese apre ai suoni campionati, alla plastica, alla disco-dance. “Washington” è lo scarto più evidente tra vecchio e nuovo;(83) “Tutta la vita” è la canzone più convincente, un “ritratto dell’artista maturo” che confessa una certa stanchezza: «tutta la vita / a far suonare un pianoforte / lasciandoci dentro anche le dita / su o giù o nel mezzo alla tastiera; / siamo sicuri che era musica?».(84) Bugie esce a Natale del 1985 e segna un ritorno di Dalla alla comunicazione immediata, dopo gli ultimi lavori giudicati un po’ troppo ostici sia dalla critica che dal pubblico. Qui, al contrario, è tutto semplice – pure troppo. “Se io fossi un angelo” diventa subito una hit; “Soli io e te” è il pezzo più convincente, una moderna “Anna e Marco” di grande romanticismo: «“Non stavi bene neanche te / in quello schifo di locale: / almeno qui fuori si può respirare, parlare senza urlare, / e nella notte camminare… solo io e te.”/ […] E parlavamo più piano, soli, / sperando che la notte non finisse, / o il silenzio li portasse lontano, / più lontano, così lontano… / magari dentro un film, / di quelli belli che ti fanno star male / e poi, quasi senza parlare: / “dammi ancora un bacio”, / e han deciso di tornare». L’album vende ottimamente, si organizza una lunga tournée anche in America, un album dal vivo – doppio – è in allestimento e a missaggio completato Dalla decide di aggiungervi un inedito di studio: si chiama “Caruso” e diventa una delle più famose canzoni italiane nel mondo, vendendo più di nove milioni di copie. È anche la chiusura del cerchio: attraversata con genialità tutta l’epoca eroica del cantautorato “chic” – per così dire – Dalla torna alla vena nazional-popolare di “4/3/43”, e il progetto successivo, il disco-tour Dalla/Morandi (1988) in coppia con l’ex “ragazzo di Monghidoro” non fa che confermare la svolta.
Gli anni Novanta si aprono con Cambio (1990) e il tormentone di “Attenti al lupo”. Tre anni dopo esce Henna, disco più complesso con almeno due grandi canzoni, “Don’t touch me” e la title-track, un apologo in cui riecheggiano certe suggestioni di “Come è profondo il mare”. Nel 1996 Canzoni vende oltre un milione e mezzo di copie, trainato dal brano “Canzone”; ma qui siamo ormai a un pop piuttosto insipido, lontanissimo dai guizzi di un tempo. Il nostro si è tagliato la barba, s’è fatto fare un mostruoso parrucchino biondo platino dall’amico Cesare Ragazzi e continua a pubblicare album così così (Ciao nel 1999, Luna matana nel 2001, Il contrario di me nel 2007, Angoli nel cielo nel 2009), dandosi anche all’opera, alla regia teatrale e alla conduzione di show televisivi. Nel 2010, a sorpresa, Dalla e De Gregori si riuniscono per un tour insieme (con relativo album live) chiamato Work in progress, trentuno anni dopo Banana Republic.
«Se dovessi fare l’analisi chimica dell’esistenza, sarebbe la musica a scorrere sopra ogni altra cosa. Per me la musica è tutto, da trent’anni dormo soltanto se la ascolto continuamente. In tutte le mie case ho uno stereo, un iPod o un lettore che rimangono accesi tutta la notte e, se qualcuno li spegne, io mi sveglio. È la musica che mi fa entrare nel resto della vita».85
di Leonardo Colombati
NOTE
53 “Siamo dèi”, dall’album Dalla.
54 “Futura”, dall’album Dalla.
55 “L’ultima luna”, dall’album Lucio Dalla.
56 “Treno a vela”, dall’album Come è profondo il mare.
57 “Come è profondo il mare”, dall’album omonimo.
58 L. Dalla, Parole cantate, a c. di G. Baldazzi, Newton Compton, Roma 1988.
59 “Siamo dèi” 60 Intervista di Daria Bignardi a Lucio Dalla per il programma tv Le invasioni barbariche, 28 novembre 2008. Lucio Dalla è nato a Bologna il 4 marzo 1943. Suo padre, direttore del club di tiro a volo della città (ricordato in “Come è profondo il mare”) morì sette anni più tardi. La madre, che faceva la sarta, mandò il bambino a istruirsi presso il collegio vescovile di Treviso. Tornato a Bologna dopo le elementari, Lucio iniziò ad appassionarsi alla musica, ed ebbe in regalo un clarinetto per i suoi tredici anni; iniziò così a suonare con un gruppo jazz chiamato Rheno Dixieland Band assieme al futuro regista Pupi Avati. 61 «Chet Baker viveva a Bologna, e c’erano vari gruppi che lo accompagnavano; io ero uno dei più presenti perché mancava sempre il clarino. […] Ancora più giovane, mi capitò di suonare con Bud Powell, Charlie Mingus, Eric Dolphy…» (L. Dalla, E forse fu per gioco, o forse per amore, cit.). 62 Ricorda Massimo Catalano: «Lucio suonava con me nel complesso dei Flippers, partecipammo nel 1963 al Cantagiro con un brano intitolato “I Watussi”, insieme a Edoardo Vianello. A quella manifestazione partecipava anche Gino Paoli, che ci rubò letteralmente Lucio, facendolo diventare un cantante del suo clan. Noi ci incavolammo molto con Gino» (in S. Micocci, Lucio Dalla. Canzoni, Lato Side, Roma 1979). «Paoli aveva scritto uno spiritual per me. Era intitolato “Lei”» precisa Dalla. «La critica mi osannava, […] il pubblico invece era di parere opposto. […] Ero io che peccavo di presunzione: credevo di poter fare il cantante impegnato e invece con la faccia che mi ritrovavo suscitavo solo risate e reazioni opposte» (L. Dalla, E forse fu per gioco, o forse per amore, cit.).
63 «Non mi diverte molto fare dal vivo “Piazza Grande”; se fosse per me non la metterei mai in scaletta, eppure non c’è concerto che la gente non me la chieda alla fine; e mentre la suono mi piace, mi diverte» (M. Cestoni, Lucio Dalla. L’intervista, in «Blu», gennaio 1987). «È una canzone che vive anche per la ragione per cui faccio questo mestiere, cioè il piacere di stare con gli altri, in mezzo agli altri; di essere, oltre che me stesso, gli altri» (L. Dalla, E forse fu per gioco, o forse per amore, cit.). 64 L. Dalla, E forse fu per gioco, o forse per amore, cit.
65. Danilo Moroni, Musica e nuvola, in «Muzak», giugno 1976. 66. L. Dalla, E forse fu per gioco, o forse per amore, cit. Ancora in un’intervista del gennaio 1978, per promuovere l’uscita di Come è profondo il mare, Dalla dichiarava: «questa è una piccola parentesi in cui io mi volevo esprimere; la collaborazione con Roversi continuerà senz’altro ancora e potrà avere sviluppi sempre più positivi» (in Elia Perboni, Lucio dove vai?, in «Gong», gennaio 1978). La separazione artistica tra Dalla e Roversi, invece, sarà definitiva. 67 L. Dalla, Parole cantate, cit. 68 Fabio Russo, Lucio Dalla: “Come è profondo il mare”, in www.ondarock.it.
69 “… E non andar più via”. «Per essere un vero artista devi essere un po’ sciamano. Il presente è frammentato e devi poter capire dove ci porta. Io ho sempre visto il tempo come un’onda, concepisco il futuro come un’eco che viene dal passato, anzi penso che sia lo spostamento in massa del passato. Non era forse uno sciamano Pasolini? E Fellini? Se vedi Ginger e Fred ti sembra l’Italia di oggi» (in G. Dall’Arti, M. Parrini, Catalogo dei viventi, cit.). «Se prendi il testo di “Futura”(1980) c’è “i russi, i russi, gli americani”, li immaginavo già alleati; in “Telefonami tra vent’anni” (1981) c’è “butta i numeri tra le stelle”, ecco la telematica. Oppure una canzone dell’album Henna che si chiama “Don’t touch me” (1993), dove un ricercatore, un elaboratore di programmi per computer ha perso la sua donna e la cerca proprio attraverso il computer: una forma di anticipazione di Internet. […] Il futuro è sempre stato [per me] una specie di campanella da suonare, tipo Musichiere: senti qualcosa che ti riguarda, corri, vai avanti, suoni la campana e ti entra dentro» (L. Dalla, E forse fu per gioco, o forse per amore, cit.). 70 L. Dalla, E forse fu per gioco, o forse per amore, cit.
71 Mario Bonanno, Anni affollati, cit. 72 Fabrizio Pezzoli, Lucio Dalla: “Lucio Dalla”, in 100 dischi ideali per capire la nuova canzone italiana, cit. 73 La luna ricorre molto spesso nelle canzoni di Dalla, da “Stella di mare” ad “Anna e Marco”, da “Balla balla ballerino” a “Il parco della luna”… C’è la luna in “La sera dei miracoli”, in “Futura”, in “1983”, in “Aquila”, in “Caruso”… «Il mio mondo» spiega lui «è un mondo notturno, questo per ragioni professionali oltre che di simpatia. Mi sembra quindi abbastanza logico che io mi riferisca spesso alla luna. La luna per me è l’immagine della città, non è un’immagine evocativa come può essere il mare, è un qualcosa di estremamente concreto: io Roma, Bologna, Milano me le ricordo attraverso le loro lune, queste palle che schiacciano le case, i palazzi» (Nicola Sisto, Guardare il futuro. Intervista a Lucio Dalla, in «Nuovo Sound», marzo 1979).
74 L. Dalla, E forse fu per gioco, o forse per amore, cit. 75 D. Salvatori, Il grande dizionario della canzone italiana, cit. 76 L. Dalla, E forse fu per gioco, o forse per amore, cit.
77 Banana Republic, pubblicato nel settembre del 1979, fu il primo album live ad arrivare al primo posto in classifica: vi rimase per dieci settimane, due in più rispetto a Va bene, va bene così di Vasco Rossi (1984). Il primato di permanenza in classifica – quarantaquattro settimane – spetta a Alé-oó di Claudio Baglioni (1982). Ad accompagnare Lucio Dalla sono gli Stadio (Gaetano Curreri, Fabio Liberatori, Marco Nanni, Ricky Portera e Giovanni Pezzoli). Il gruppo di De Gregori è quello dei Cyan (George Sims, Franco Di Stefano, Roger Smith e Alberto Visentin). Tutti gli arrangiamenti sono di Ron, che fa i cori e suona il piano. La canzone che dà il titolo all’album è una cover di un brano del cantante country Steve Goodman. “Gelato al limon” di Paolo Conte – in un aggressivo arrangiamento rock – è cantata in duetto da Lucio e Francesco, che insieme interpretano anche “La canzone di Orlando” e “4/3/1943” dal repertorio del primo, “Quattro cani” (dal repertorio del secondo) e la conclusiva “Ma come fanno i marinai”, introdotta da un accenno di “Addio a Napoli”. Da solo Dalla canta “Piazza Grande”; mentre De Gregori propone “Bufalo Bill” e “Santa Lucia”. 78 “Sonni Boi” è molto felliniana. Del resto, Dalla è un grande ammiratore del regista riminese, con cui nel 1991 ha scambiato anche quattro chiacchiere (gustosissime) in radio. In quell’occasione, Fellini ricordò quando andò a vedere Dalla in concerto: «la prima volta che ti ho visto, al Teatro Tenda di Roma, è stata una visione un po’ infernale (come la discoteca del mio ultimo film La voce della luna). Sono entrato e, in mezzo a un gran fumo, ti ho visto in fondo a un palco; dalla platea mandavano urla e strida come pipistrelli […] e decibel quasi irraggiungibili. Laggiù c’eri tu, dietro una tastiera. Con il tuo cuffiotto in testa; apparivi come un’immagine salgariana, un corsaro, un pirata… Sandokan!» (Quando Fellini ragionò di musica con Lucio Dalla, in L. Dalla, E forse fu per gioco, o forse per amore, cit.).
79 L. Dalla, Parole cantate, cit. 80 «Anni fa ho scoperto Robert Walser e me ne sono innamorato, l’ho letto d’un fiato. Poi, Jorge Luis Borges, ultimo grande classico, moderno Omero. Il suo racconto 25 agosto 1983 ha influenzato la parte non dico pessimistica ma amara» dell’lp Dalla. (L. Dalla, E forse fu per gioco, o forse per amore, cit.). 81 L. Dalla, Parole cantate, cit.
82 In M. Cestoni, Lucio Dalla. L’intervista, cit. 83 In Viaggi organizzati c’è anche l’ingresso di un nuovo produttore, Mauro Malavasi, «sicuramente la persona più stimolante con cui abbia mai lavorato in Italia e fuori» dirà Dalla. «L’album è stata una lunga session prima di tutto tra me e Malavasi, che eravamo i due protagonisti, con la partecipazione di Costa, il bassista-fonico. […] Su “Washington” abbiamo discusso fino all’ultimo giorno, visto che Costa e Malavasi la consideravano una canzone minore, una cosa del tipo di quelle di cinque o sei anni fa. Alla fine sono riusciti ad afferrare qual era il mio scopo: far ballare in discoteca una canzone dai contenuti drammatici» (in Stefano Pistolini, Lucio. Frammenti di un progetto, in «Fare Musica», febbraio 1985). 84 «Il testo di “Tutta la vita” è straordinario» dice Dalla. «Ho impiegato più di un mese e mezzo per realizzarlo. Una frase come “al limite fisico del racconto” ha in sé qualcosa di folle che mi piace da impazzire. La critica, naturalmente, ha immediatamente ipotizzato che avessi costruito il testo mettendo una serie di frasi una dietro l’altra» (in S. Pistolini, Lucio. Frammenti di un progetto, cit)
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