L'Europa e l'Italia

Redazione

Se si guardasse all’area dell’euro come a un’entità unitaria, nella forma ad esempio di uno stato federale, non emergerebbero allarmi sulla tenuta del suo impianto monetario e finanziario, pur nella preoccupazione per le ripercussioni della crisi su ciclo economico, intermediari e mercati. Ma una unione politica in Europa ancora non c’è.

    Pubblichiamo il capitolo “L’Europa e l’Italia” delle Considerazioni finali del governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, nel corso dell’assemblea ordinaria dei partecipanti tenuta ieri.

    Se si guardasse all’area dell’euro come a un’entità unitaria, nella forma ad esempio di uno stato federale, non emergerebbero allarmi sulla tenuta del suo impianto monetario e finanziario, pur nella preoccupazione per le ripercussioni della crisi su ciclo economico, intermediari e mercati. Ma una unione politica in Europa ancora non c’è. Questo rende alla lunga l’unione monetaria più difficile da sostenere; sono necessari passi avanti concreti nella costruzione europea; va definito un percorso che abbia nell’unione politica il suo traguardo finale, scandendone le singole tappe. Ricordando le parole di Tommaso Padoa-Schioppa alla vigilia del changeover dalla lira all’euro: “L’insidia è di credere che l’euro sia l’ultimo passo, che l’Europa unita sia ormai cosa fatta. Chi più fortemente volle la moneta unica, la volle perché aiutasse a compiere altri passi, non perché fosse l’ultimo”. Si devono rammentare le ragioni originarie fondamentali del progetto europeo, anche in sfere che trascendono l’agire economico.

    L’economia dell’area dell’euro è da tempo integrata; comprende oltre 300 milioni di cittadini, quasi 20 milioni di imprese. Considerata nel suo insieme, ha conti con l’estero bilanciati; un disavanzo e un debito del settore pubblico previsti quest’anno poco sopra, rispettivamente, il 3 e il 90 per cento del pil; famiglie con una ricchezza finanziaria lorda che è 3 volte il loro reddito disponibile annuo e un indebitamento pari al reddito; un debito finanziario aggregato delle imprese pari al prodotto di un anno. Sono dati che configurano un’economia solida ed equilibrata, per molti aspetti più di altre aree avanzate del mondo.
    L’unione monetaria europea ha suggellato in questi anni l’integrazione economica, rilanciandola. I paesi tradizionalmente più virtuosi hanno dato al resto dell’area un contributo speciale: l’esempio di buone politiche, oculate nella spesa pubblica e attente alle necessità di un sistema produttivo strutturalmente competitivo, di una concordia nazionale di fondo intorno agli obiettivi della stabilità dei prezzi e della coesione sociale. Hanno beneficiato di una valuta forte ma non sopravvalutata, dell’assenza di svalutazioni competitive, di un mercato più ampio di quello nazionale, di facile accesso.

    I paesi, come il nostro, che venivano da ripetute crisi inflazionistiche e valutarie ne hanno ricavato prezzi stabili e tassi d’interesse bassi, due fondamentali precondizioni di sviluppo economico. Ne abbiamo profittato poco.
    Inerzia politica, inosservanza delle regole e scelte economiche errate hanno favorito l’emergere di squilibri interni, a lungo offuscati dall’euro e ignorati dai mercati, che rischiano oggi di mettere a repentaglio l’intera costruzione. Si avverte la mancanza di fondamentali caratteristiche di una federazione di stati: processi decisionali che favoriscano l’adozione di politiche lungimiranti, nell’interesse generale; risorse pubbliche comuni per la stabilità finanziaria e per la crescita; regole davvero condivise e azioni concordate e tempestive sul sistema finanziario e sulle banche. Sono compiti e condizioni che esorbitano dalla sfera d’azione del Sistema europeo di banche centrali: investono responsabilità politiche, nazionali e comunitarie. L’Eurosistema, la Banca centrale europea, non possono essere chiamati a farsene carico; possono colmare vuoti temporanei d’azione, contribuire alle analisi e al disegno delle politiche.

    Nell’ultimo triennio, sotto la spinta delle tensioni sui mercati, sono stati fatti passi importanti per rafforzare la governance dell’area. Ma i processi decisionali, condizionati dal metodo intergovernativo e dal principio dell’unanimità, sono ancora lenti e farraginosi. Serve un cambio di passo.
    Nell’immediato, servono soprattutto manifestazioni convergenti della volontà irremovibile di preservare la moneta unica: se i governi, le autorità europee, la stessa Banca centrale europea valutano positivamente i progressi compiuti dai paesi in difficoltà nel risanamento finanziario e nelle riforme strutturali, ne deve seguire un loro impegno attivo a orientare in tal senso anche le valutazioni dei mercati. I differenziali attuali di rendimento dei titoli pubblici non sembrano tener conto di quanto è stato fatto: alimentano ulteriori squilibri, determinando una redistribuzione di risorse dai paesi in difficoltà a quelli percepiti più solidi; impediscono il corretto operare della politica monetaria unica; sono fonte di rischio per la stabilità finanziaria, un ostacolo alla crescita.
    Vanno resi più efficaci sul piano operativo gli strumenti di assistenza finanziaria agli stati in difficoltà. Va prevista la possibilità di agire tempestivamente sui mercati dei titoli e di effettuare interventi diretti a favore degli intermediari, con procedure più flessibili, meno penalizzanti per i paesi beneficiari che rispettino le regole dell’unione. Deve essere possibile utilizzare in modo incisivo le risorse, significative, già stanziate dagli stati membri. E’ nell’interesse di tutti.

    Anche sulla crescita economica l’Europa stenta. Sebbene le leve per rianimarla siano soprattutto in mano alle autorità nazionali, l’avvio immediato di progetti comuni e cofinanziati di investimento, con particolare attenzione ai paesi più deboli, può costituire un importante segnale per i cittadini e per gli investitori che oggi guardano soprattutto alle scarse prospettive di sviluppo di singoli stati o regioni.
    La disponibilità di maggiori risorse comuni e anche l’istituzione da più parti proposta di un fondo ove trasferire i debiti sovrani che eccedano una soglia uniforme, da redimere gradualmente in tempi e modi ben definiti, sostanziano una forma di unione fiscale che non può essere disgiunta da regole cogenti, da poteri di controllo e intervento.
    L’azzardo morale di chi fida sull’aiuto altrui per perseverare nelle cattive politiche del passato va evitato con una forte pressione politica e normativa, esigendo il rispetto degli impegni concordati, sulla base di programmi ambiziosi ma allo stesso tempo realistici. Sta ai paesi in difficoltà attuare quelle riforme che permettano di ricuperare competitività e ridurre gli squilibri accumulati, coi tempi e la gradualità appropriati, ma senza sconti di ambizione. Sta ai paesi più forti aiutare questo processo non ostacolando il riequilibrio, realizzando progressi strutturali che favoriscano la domanda.

    Deve essere contrastata la pericolosa tendenza alla rinazionalizzazione dei sistemi finanziari. In primo luogo, devono essere a tutti i costi evitate misure che, prese in buona fede ma con un’ottica puramente nazionale, impediscano di fatto l’operare del mercato unico e della politica monetaria comune.
    Va accelerato il passaggio verso un sistema uniforme di regole e sorveglianza sul settore finanziario, in particolare nell’area dell’euro. Di pari passo occorre considerare l’istituzione di meccanismi di garanzia e assicurazione comuni, in grado di rasserenare i risparmiatori, prevenire il panico e fughe destabilizzanti di capitali. Progressi rapidi nella costituzione di un fondo europeo per la risoluzione delle crisi bancarie contribuirebbero a ridurre l’incertezza sui mercati.
    L’Italia ha importanti compiti da svolgere. Li ha già iniziati, su tre fronti diversi ma interconnessi: un settore pubblico che tenga i conti in ordine, non sprechi, agevoli l’economia; un sistema bancario solido ed efficiente; un sistema produttivo che sappia e possa innovare, competere e crescere.

    La critica alle banche di essere disattente alle esigenze dell’economia non è corretta: sono esposte in misura rilevante nei confronti delle famiglie e delle imprese meritevoli di credito, anche se in difficoltà; possono continuare a sostenerle. Tuttavia, al di là del breve termine, la tensione tra il livello degli impieghi e la stabilità della provvista finirà inevitabilmente per riflettersi sull’attività di intermediazione. La capacità di offerta dei sistemi bancari va ripensata. Allo stesso tempo, la revisione della normativa sul capitale, l’azione di supervisione e le pratiche di mercato spingono le banche verso un più attento controllo dei rischi; impongono profitti più bassi ma più stabili di quelli del decennio precedente la crisi. Gli azionisti bancari devono esserne consapevoli.
    Da tempo era chiara in Italia l’urgenza di due azioni di politica economica obbligate e interrelate: mettere il bilancio pubblico su una dinamica sostenibile e credibile; rianimare la capacità di crescita dell’economia attraverso incisive riforme strutturali. Il governo le ha intraprese entrambe.

    La prima azione è stata rapida, decisiva: secondo le previsioni correnti il disavanzo pubblico sarà quest’anno ben al di sotto del limite del 3 per cento; l’anno prossimo sarà vicino al pareggio strutturale e il debito pubblico inizierà a scendere in rapporto al pil, grazie anche al completamento della riforma previdenziale; il saldo primario è in forte e crescente avanzo; la spesa corrente diversa dagli interessi diminuisce in termini reali da due anni.
    Si è però pagato il prezzo di un innalzamento della pressione fiscale a livelli ormai non compatibili con una crescita sostenuta. L’inasprimento non può che essere temporaneo. La sfida si sposta: occorre trovare, oltre a più ampi recuperi di evasione, tagli di spesa che compensino il necessario ridimensionamento del peso fiscale. Se accuratamente identificati e ispirati a criteri di equità, i tagli non comprometteranno la crescita; potranno concorrere a stimolarla se saranno volti a rimuovere inefficienze dell’azione pubblica, semplificare i processi decisionali, contenere gli oneri amministrativi. I margini disponibili per ridurre il debito anche con la dismissione di attività in mano pubblica vanno utilizzati pienamente.

    La seconda azione, quella delle riforme strutturali, ha incontrato maggiori e più diffuse resistenze, ma ha comunque già conseguito importanti risultati; ha aperto un vasto cantiere, i cui lavori vanno proseguiti, con energia accresciuta e visione ampia, dall’istruzione alla giustizia, alla sanità. L’impegno è a sfoltire e razionalizzare le norme, a non far salire la spesa pubblica complessiva; le priorità di spesa possono però essere riviste a parità di saldo di bilancio, ad esempio a favore dell’istruzione e della ricerca. Uno sforzo finanziario aggiuntivo il paese può chiederlo ai suoi imprenditori, perché rafforzino il capitale delle loro imprese, nel momento in cui viene loro assicurata una semplificazione dell’ambiente normativo e amministrativo in cui operano: ne beneficeranno gli investimenti, si irrobustirà la struttura produttiva, migliorerà il rapporto con le banche.
    L’azione di politica economica può anche svolgersi in sequenza, un dossier alla volta, ma è bene che siano comunicati e ribaditi con nettezza il disegno complessivo e la posta in gioco. Tirarci fuori dallo stretto passaggio che attraversiamo impone costi a tutti. Sono costi sopportabili se ripartiti equamente e con una meta chiara. Il percorso non sarà breve.
    La società italiana non può non confrontarsi con un mondo cambiato, che non concede rendite di posizione. Al tempo stesso, la politica deve assicurare la prospettiva di un rinnovamento profondo che coltivi la speranza, vada incontro alle aspirazioni delle generazioni più giovani.

    di Ignazio Visco