I fratelli arabi non ne vogliono sapere del bailout palestinese

Redazione

L’Autorità palestinese rischia il fallimento, schiacciata dai debiti e da una crisi finanziaria che pare senza via d’uscita. A oggi il debito totale ammonta a 1,5 miliardi di dollari: servono subito 500 milioni per far fronte alle spese urgenti e (soprattutto) per pagare gli stipendi di luglio ai 154 mila dipendenti pubblici che lavorano tra la Striscia di Gaza e Ramallah. Le casse sono vuote e due settimane fa il presidente Abu Mazen è andato a Riad per chiedere al re Abdullah II di aiutare l’Anp a sopravvivere.

    L’Autorità palestinese rischia il fallimento, schiacciata dai debiti e da una crisi finanziaria che pare senza via d’uscita. A oggi il debito totale ammonta a 1,5 miliardi di dollari: servono subito 500 milioni per far fronte alle spese urgenti e (soprattutto) per pagare gli stipendi di luglio ai 154 mila dipendenti pubblici che lavorano tra la Striscia di Gaza e Ramallah. Le casse sono vuote e due settimane fa il presidente Abu Mazen è andato a Riad per chiedere al re Abdullah II di aiutare l’Anp a sopravvivere. Per tutta risposta, il governo saudita ha concesso 100 milioni di dollari, cifra che servirà solamente a prolungare l’agonia. I segnali della crisi c’erano tutti, e già da mesi la Banca mondiale lanciava l’allarme sulla situazione palestinese: il rischio – dicevano anche esperti e analisti finanziari del Fondo monetario internazionale – era di assistere al collasso della struttura istituzionale a vantaggio delle frange più oltranziste (Hamas) e dell’ingovernabilità. Inoltre, dalla Banca mondiale avvertivano che la situazione del bilancio statale descritta dal premier, Salam Fayyad, era a dir poco “fantasiosa”. Il primo ministro prevedeva infatti per il 2012 una spesa di 3,5 milioni di dollari a fronte di un deficit totale stimato tra i 750 milioni e il miliardo di dollari. La situazione reale, però, è ben diversa: l’Anp spenderà tre volte tanto rispetto a quanto riuscirà a produrre in termini di ricchezza. Il governo israeliano – che in un contesto di sicurezza regionale già precario teme più di tutti l’indebolimento di Fatah e la crescita di Hamas – ha già trasferito come anticipo quasi 45 milioni di dollari delle tasse pagate dai palestinesi alle autorità di Ramallah, anche perché il Fmi ha fatto sapere di non poter fare nulla, dal momento che l’Anp “non è un’entità statale”.

    Ma è la riluttanza dei paesi arabi (e soprattutto delle ricchissime monarchie del Golfo) a dare una mano ai palestinesi ad aver portato i Territori sull’orlo del collasso economico. Abu Mazen si era appellato all’emiro del Qatar, chiedendogli solidarietà per “la causa palestinese” e soprattutto tanti milioni di dollari per rimpinguare le casse vuote. Anche i principi di Doha, però, hanno deluso le attese dell’anziano successore di Yasser Arafat: gli aiuti ci saranno, ma saranno miseri, quasi inutili. Promettono sempre tanto ai fratelli palestinesi, gli emiri e gli sceicchi della penisola araba, ma poi versano sempre meno dollari: 462 milioni nel 2009, 290 nel 2011 e non più di 115 nel 2012. Un trend in costante calo che neanche gli Stati Uniti riescono più a colmare, anzi. Negli anni di George W. Bush, Washington inviava all’Anp somme variabili tra i 150 e i 500 milioni di dollari, mentre con il democratico Barack Obama gli aiuti sono scesi a soli 50 milioni.
    Abu Mazen sapeva che la scelta unilaterale e dirompente di chiedere il riconoscimento all’Onu e l’ingresso nell’Unesco gli avrebbe creato ben più di un problema: Israele aveva promesso battaglia, bloccando i trasferimenti di almeno 100 milioni di dollari derivanti dai dazi doganali, imposte varie e tasse, mentre gli Stati Uniti avevano protestato e congelato i fondi destinati all’Unesco. Quello che i vertici di Fatah non si sarebbero mai attesi è il gelo dei paesi arabi più ricchi: investono nel calcio europeo, riforniscono di soldi e armi i ribelli libici e cercano un ruolo da protagonisti nella crisi siriana, ma non se la sentono di contribuire alla causa palestinese. E’ una questione di affari, di interessi strategici e politici. La crisi mondiale c’è per tutti, anche per i miliardari di Dubai e Abu Dhabi. Non è tempo di scatenare guerre per difendere gli stipendi palestinesi.