L'incubo di Utoya e la condanna di Breivik
L'autore della strage tra Oslo e l’isola di Utoya è stato condannato a 21 anni di reclusione “con una decisione presa all’unanimità”
Anders Breivik, l'autore della strage di un anno fa tra Oslo e l’isola di Utoya, è stato condannato a 21 anni di reclusione “con una decisione presa all’unanimità”. E’ con queste parole che il giudice Wenche Elizabeth Arntzen ha comminato all’imputato la pena più alta prevista dal sistema giudiziario norvegese che ha giudicato Breivik sano di mente escludendo così il suo internamento a vita in un ospedale psichiatrico. Breivik ha ucciso 77 persone volontariamente, senza nessuna attenunante. La sentenza, prorogabile se l’imputato sarà ritenuto ancora pericoloso, è ciò che lo stesso Breivik aveva auspicato durante le dieci settimane in cui si è svolto il processo. La pena sarà scontata nello stesso penitenziario dove Breivik è rinchiuso da un anno, il carcere di massima sicurezza di Ila. La sentenza è stata accolta con favore da molti dei familiari delle vittime mentre l’imputato, al momento della lettura, è apparso sorridente
Nei giorni successivi alla strage in un editoriale il Foglio aveva scritto che "liquidare l’eccidio con l’emergenza legata all’islam in Europa, a letture massonico-templari bellicose, al pericolo della critica multiculturale, dare patenti intellettuali a un claustrofobico sanguinario come Breivik, è solo una forma di paranoia intellettuale".
La strage di Oslo aveva fornito alla commissaria europea agli Affari interni, la svedese Cecilia Malmström, l’occasione per stigmatizzare le pulsioni xenofobe. Sacrosanto, ma la commissaria confonde due principi troppo diversi: l'integrazione non è, infatti, il multiculturalismo (leggi tutto l'editoriale). Inoltre, numeri alla mano, la Norvegia e tutta la penisola scandinava non sono poi così all'avanguardia nell'accoglienza: con circa venti milioni di abitanti, in Scandinavia ci sono un milione di immigrati residenti o poco più (leggi tutto l'articolo di Roberto Volpi).
"L'incubo della multietnicità", lo aveva chiamato Pietrangelo Buttafuoco, perché "a furia di evocare i fondamentalismi, specie quelli fatti ad arte, vi nascono in casa quelli genuini" (leggi tutto l'articolo). Oppure la posizione di Camillo Langone, "cristiano fondamentalista", che "condivide molte delle preoccupazioni di Anders Breivik, specie quelle riguardanti l’islam, il multiculturalismo e l’indifferenziazione sessuale", ma è molto diverso da lui: "Cattiva è la politica immigrazionista bersaglio degli attentati e cattiva la politica identitaria che supplisce alla mancanza di cultura con la violenza. Cattiva è la religione-fai-da-te di cui il copiaincollista Breivik va considerato l’ultimo apostolo, colui che ha portato alle estreme conseguenze il metodo protestante del libero esame (leggi tutto l'articolo).
Il Foglio aveva poi raccontato le lacrime dello scrittore e giornalista norvegese Bruce Bawe, che nel delirante manifesto del killer di Utoya è citato venti volte a dimostrazione del fallimento multiculturale: "E’ agghiacciante pensare che gli articoli che ho composto nella mia casa nella parte occidentale di Oslo nel corso degli ultimi due anni venissero letti e copiati da questo futuro assassino di massa. Inoltre è agghiacciante vedere il modo in cui si muove da una preoccupazione legittima per i veri problemi a una ‘soluzione’" (leggi tutta l'intervista). Due giorni dopo la strage di Utoya il primo ministro norvegese, Jens Stoltenberg, pronunciò un discorso alla nazione che è considerato il più importante discorso di un leader dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Un manifesto, in cui Stoltenberg ha parlato di "una marcia per la democrazia, per la solidarietà" e soprattutto "per la tolleranza".
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