
Call me maybe, Sergio
La strategia attendista di Marchionne manda in tilt l'establishment
Il telefono piange. Almeno per ora. Al Lingotto, sembra, non è arrivata la richiesta di “un incontro urgente” da parte del ministro dello Sviluppo, Corrado Passera, né da parte del responsabile del Welfare, Elsa Fornero. Di sicuro Sergio Marchionne non chiamerà per primo: prima del 30 ottobre, almeno, quando annuncerà alla comunità finanziaria i conti del terzo trimestre, ogni comunicazione sul piano dell’azienda sarà prematura. Ma l’unica certezza, in mezzo a tante ipotesi, è che ormai nessuno si fa più illusioni: l’ipotesi di una ritirata della Fiat dall’Italia rischia di essere più di un’ipotesi.
Il telefono piange. Almeno per ora. Al Lingotto, sembra, non è arrivata la richiesta di “un incontro urgente” da parte del ministro dello Sviluppo, Corrado Passera, né da parte del responsabile del Welfare, Elsa Fornero. Di sicuro Sergio Marchionne non chiamerà per primo: prima del 30 ottobre, almeno, quando annuncerà alla comunità finanziaria i conti del terzo trimestre, ogni comunicazione sul piano dell’azienda sarà prematura. Ma l’unica certezza, in mezzo a tante ipotesi, è che ormai nessuno si fa più illusioni: l’ipotesi di una ritirata della Fiat dall’Italia rischia di essere più di un’ipotesi. E di fronte a questa prospettiva il tiro a Marchionne è diventato una sorta di sport nazionale, scrive Alessandro Penati, voce dissonante del coro su Repubblica: “Da Berlusconi alla Cgil, da Mediobanca alla Lega”, tutti accomunati dal risentimento contro la dittatura dei mercati di cui Marchionne, forse suo malgrado, è diventato un simbolo. Di qui il pressing che per tutta la giornata ha visto in azione politici di ogni tipo, i falchi dei metalmeccanici (“Fiat non dice la verità, si è illusa e ha illuso”, accusa Giorgio Airaudo della Fiom) e le colombe che si sono battute per il contratto di Pomigliano (“Non mi pento – dice Raffaele Bonanni, segretario generale della Cisl – Noi con quell’accordo abbiamo costretto la Fiat a investire 800 milioni di euro a Pomigliano”). Ma dopo le intemerate di Diego Della Valle e lo sfogo di Cesare Romiti, ha parlato pure Romano Prodi che ai tempi dell’Iri (e di Romiti) contribuì a scegliere Fiat per il futuro dell’Alfa. “E’ insostenibile perdere il settore dell’automobile”, ha detto ieri dal palco dell’assemblea dell’Unindustria di Bologna. “Un grande paese industriale come l’Italia non può non avere un’industria automobilistica forte”, ha commentato nella stessa sede il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi che però, a chi gli chiedeva se avrebbe incontrato Marchionne, ha risposto: “Non è previsto. Personalmente non ho mai avuto la possibilità di conoscerlo. Se capiterà lo incontrerò volentieri”. Un’ammissione che la dice lunga sulla distanza che ormai separa Marchionne e buona parte dell’establishment italiano.
Difficile, date le premesse, che il ceo di Fiat e Chrysler possa fornire risposte soddisfacenti al ministro Fornero che fa sapere che “ho molte cose da chiedergli”. Semmai, Marchionne risponderà che Fabbrica Italia è un progetto ormai archiviato da tempo, come dimostrano le interviste e gli interventi degli ultimi mesi. Colpa della congiuntura? Certo, perché nessuno poteva prevedere una gelata di questo tipo, che ha messo in ginocchio aziende come Renault e Peugeot che sulla carta sembravano ben più solide di Fiat. Ma non dimenticatevi che fin dall’inizio “Fabbrica Italia” prevedeva di esportare almeno 300 mila veicoli all’anno negli Stati Uniti, cosa che si è rivelata impossibile: in materia di salario, produttività e flessibilità siamo distanti anni luce dalle condizioni accettate dai sindacati inglesi. Colpa degli investimenti mancati? A distruggere un’azienda o un paese, non sono gli investimenti mancati, ma quelli sbagliati. Vedi la parabola di Psa, foraggiata dai prestiti di Stato che hanno compensato i limiti dell’azionista di riferimento, la famiglia Peugeot, ma hanno condizionato le scelte dei manager, costretti a investire in Francia e a non firmare le alleanze necessarie. Gli eredi degli Agnelli, per fortuna (loro), si sono confrontati negli ultimi anni con uno stato tutt’altro che prodigo di aiuti. Ma hanno aspettato troppo anche loro, dice qualche osservatore, per andare a presidiare i mercati che contano.
E adesso? Non chiedete l’impossibile, ammonirà Marchionne. Noi stiamo mettendo a punto un piano nella previsione di anni difficili, non meno di questi. Sarà una navigazione complessa, in cui è assurdo far promesse da marinaio. La Fiat in Italia ci resterà. Senz’altro si terrà ben stretta la filiera del lusso, Ferrari e Maserati, né intende cedere ai tedeschi l’Alfa. Loro, semmai, sono il vero nemico: hanno negato a Fiat la Opel, ora vogliono prendere il resto dell’industria europea per fame, praticando sconti da brivido e ostacolando iniziative comuni in sede Ue. Insomma, non resta che navigare a vista nel mare della crisi. Senza fretta: ogni giorno che passa, in questa bonaccia, è un giorno di cassa integrazione a Mirafiori come a Cassino o negli altri stabilimenti del gruppo. Ovvero, a pagare il prezzo è lo stato. Intanto i lavoratori si avvicinano alla pensione: e chiudere una fabbrica di tute blu dai capelli grigi costa ogni giorno di meno.


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