
Quinto di venti capitoli sulla biografia politica berlusconiana
La caduta del Cav. sotto il fuoco dei pm e la regia di scalfaro
Il vero trionfo per Berlusconi arriva alle europee del 10 giugno, dove si vota con il sistema proporzionale e ogni partito corre per sé. Forza Italia ottiene il 30,6 per cento dei voti e 27 seggi. Gli elettori in valore assoluto sono 10.089.139, quasi due milioni in più delle politiche di meno di tre mesi prima. Alleanza nazionale ottiene il 12,4 per cento, la Lega si ferma al 6,5 per cento (creando malumori e paure che saranno esiziali per il futuro del governo Berlusconi). Complessivamente, il polo di centrodestra arriva a sfiorare il cinquanta per cento dei consensi.
di Alessandro Campi e Leonardo Varasano
L’onda travolgente
Il vero trionfo per Berlusconi arriva alle europee del 10 giugno, dove si vota con il sistema proporzionale e ogni partito corre per sé. Forza Italia ottiene il 30,6 per cento dei voti e 27 seggi. Gli elettori in valore assoluto sono 10.089.139, quasi due milioni in più delle politiche di meno di tre mesi prima. Alleanza nazionale ottiene il 12,4 per cento, la Lega si ferma al 6,5 per cento (creando malumori e paure che saranno esiziali per il futuro del governo Berlusconi). Complessivamente, il polo di centrodestra arriva a sfiorare il cinquanta per cento dei consensi.
Tra le perle della campagna elettorale per il Parlamento di Bruxelles spicca la veemente protesta dei popolari Rosa Russo Iervolino, Nicola Mancino e Beniamino Andreatta, che si rivolgono al Garante per l’editoria per bloccare la vendita in edicola – giudicata in contrasto con la legge che disciplina la propaganda elettorale – di una pubblicazione intitolata “Berlusconi Story” consegnata in allegato alla rivista Trend Italia Viaggi, venduta al pubblico al prezzo di 3.900 lire. La pubblicazione – si legge nella nota di protesta – è “pervasa da un tono apologetico e trionfalistico a sostegno di Forza Italia e del suo leader”. Si tratta in effetti di un opuscolo al limite dell’encomiastico, riccamente illustrato. I tre non possono immaginare che con parecchie integrazioni fotografiche e con una grafica più raffinata, con testi opportunamente revisionati, con una diversa copertina e con un nuovo titolo sparato a caratteri cubitali, “Una storia italiana”, la “Berlusconi story” pubblicata quasi clandestinamente dall’editrice Portoria (e della quale si chiede, peraltro inutilmente, il sequestro) diverrà un almanacco illustrato ufficiale grazie al quale il Cavaliere metterà a segno tempo dopo il suo ennesimo colpo propagandistico: in occasione della vittoriosa campagna elettorale per le politiche del 2001, il fotoromanzo che racconta la storia privata e pubblica di Berlusconi verrà infatti stampato in quindici milioni di esemplari e inviato in spedizione postale gratuita a tutte le famiglie italiane. A rivelare la derivazione di quest’ultima pubblicazione dall’opuscolo originario sarà un particolare sfuggito ai solerti redattori: l’oroscopo di Silvio Berlusconi del 2001 è lo stesso del 1994! L’operazione pubblicistico-agiografica verrà ripetuta, ma con minore fortuna, nel 2006, con la spedizione agli elettori di un album fotografico intitolato questa volta “La vera storia italiana”.
Il primo intoppo
Passerà alla storia come il “decreto salvaladri”. Per gli avversari è la prima legge-vergogna concepita da Berlusconi a beneficio proprio o dei propri sodali nei guai con la legge. E’ nei fatti il primo atto formale di una riforma della giustizia che non si farà mai e di una guerra con la magistratura che non avrà mai fine. Il 13 luglio 1994 – mentre gli italiani sono distratti dai mondiali di calcio: quello stesso giorno, sconfiggendo la Bulgaria, la Nazionale conquisterà la finale contro il Brasile – il consiglio dei ministri approva, con voto unanime, un decreto legge presentato dal Guardasigilli Biondi, che modifica in modo sostanziale le procedure per la custodia cautelare. Per tutta una serie di reati cosiddetti finanziari, che vanno dalla concussione al peculato, dalla bancarotta fraudolenta al finanziamento illecito, dal falso in bilancio alla frode fiscale, la carcerazione preventiva viene vietata e sostituita, al massimo, dagli arresti domiciliari. Resta obbligatoria solo per i reati considerati più gravi: omicidio, sequestro di persona, associazione mafiosa. L’intento del provvedimento è garantista sul piano giuridico, ma sono anche evidenti le implicazioni politiche: si tratta di porre un freno all’abuso dell’arresto come strumento di confessione forzata, di cui si sospetta la magistratura abbia fatto un gran uso durante le inchieste di Tangentopoli. Il decreto viene firmato l’indomani dal Quirinale. Ma bastano ventiquattro ore di vigenza per capire quali ne siano gli effetti pratici (la scarcerazione o la richiesta di scarcerazione di centinaia di detenuti in tutta Italia) e per scatenare la reazione compattamente negativa della magistratura, che lo definisce “inaccettabile, improvvisato e incostituzionale”. Il pool di Milano ricorre a un’azione di protesta clamorosa: Di Pietro, a nome dei colleghi schierati al suo fianco, legge davanti alle telecamere del Tg3 un comunicato con il quale si annunciano dimissioni in blocco. Fini e Bossi, dinnanzi all’irrigidimento della magistratura, alla mobilitazione dell’opinione pubblica e ai malumori che vengono dalle rispettive basi elettorali, fanno marcia indietro. Lo stesso Berlusconi, pressato dalle opposizioni, tenta di scaricare sul solo Biondi e sugli uffici legislativi del ministero la responsabilità di un provvedimento che in realtà ha fortemente voluto ma del quale, evidentemente, non ha calcolato la portata e del quale, spaventato dalle reazioni che ha suscitato, non vuole più attribuirsi la paternità. Alla fine, il 19 luglio, si decide perciò di far affossare il decreto – del quale, in una settimana, hanno usufruito oltre 2.500 detenuti, compresi diversi nomi eccellenti delle inchieste di Mani Pulite – dalla stessa maggioranza che l’ha proposto (“abbiamo peccato di dilettantismo”, dirà Giuliano Ferrara commentando la forzata e repentina retromarcia dell’esecutivo).
Ritorno in azienda
Il motore delle due vittorie elettorali berlusconiane e della rapida affermazione del marchio di Forza Italia (ribattezzato non a caso dagli analisti il “partito-azienda”) è stato rappresentato dal management della Fininvest, in particolare dai dirigenti e dai funzionari di Publitalia, la struttura, guidata da Marcello Dell’Utri, che si occupa della raccolta pubblicitaria del gruppo e dunque ne rappresenta il polmone finanziario. Sono stati proprio i capi-area di Publitalia, coordinati dal vice-presidente della società Domenico Lo Jucco, a gestire la selezione dei candidati e la loro formazione, a intessere rapporti e relazioni sul territorio, a coordinare le attività e le iniziative del neonato partito e a organizzare la campagna elettorale nei singoli collegi sia alle politiche che alle europee. Una decina di loro – tra i quali Enzo Ghigo, Giancarlo Galan e Gianfranco Micciché, destinati a fortunate carriere politiche – si ritrovano eletti alla Camera e a Bruxelles. Per gli altri – in occasione della convention annuale di Publitalia che si svolge a metà settembre a Montecarlo (chiusa, a titolo di curiosità, da un concerto di Lucio Dalla) – si decide il rientro in azienda e la rinuncia all’impegno nelle strutture di partito (diversi di loro operano, in quel momento, come coordinatori regionali del partito). Nell’occasione, Dell’Utri riconosce con orgoglio: “Publitalia non ha contribuito alla campagna elettorale di Forza Italia: Publitalia ha fatto la campagna elettorale e ha creato dal nulla il più forte partito italiano”. Ma non si tratta solo di tornare alle proprie occupazioni dopo aver raggiunto l’obiettivo che ci si era prefissi. Si tratta anche di affrontare un crescente malessere politico. E’ dall’inizio dell’estate, infatti, che all’interno di Forza Italia e tra i parlamentari eletti si levano voci critiche: preoccupate dello strapotere degli uomini della Fininvest, lamentano la mancanza di democrazia interna e le eccessive commistioni tra scelte politiche e affari aziendali (di questi umori si farà portavoce, tra gli altri, Tiziana Parenti, che per questa ragione, durante la citata convention, si becca pubblicamente l’epiteto di “ingrata” da Micciché, che appunto ricorda dal palco come il successo di Forza Italia sia stato dovuto proprio alla struttura di Publitalia).
La dura arte del governo
Bossi ha temuto Berlusconi sin dal primo giorno in cui quest’ultimo ha manifestato la volontà di entrare in politica. Senza la nascita di Forza Italia, che al nord le ha drenato parecchi voti e consensi, la Lega sarebbe stata, con ogni probabilità, il maggior beneficiario del terremoto politico-elettorale determinato da Tangentopoli. Il Cavaliere, agli occhi del leader leghista, non è solo un’espressione del vecchio sistema di potere (al cui crollo è riuscito furbescamente a sopravvivere), è anche un uomo immensamente ricco, sul quale gravano inoltre sospetti pesanti: dall’essere stato iscritto alla P2 all’aver avuto rapporti con la criminalità organizzata siciliana. Bossi teme di essere fagocitato o comunque messo in ombra dal suo alleato, come ha dimostrato il voto per le europee. C’è anche una distanza culturale ed estetico-antropologica tra i due: i piccoli imprenditori artigiani e agricoli, i valligiani e i lavoratori che votano per la Lega poco hanno a che fare con le signore ben vestite e con i quarantenni rampanti che costituiscono lo zoccolo duro del berlusconismo. Il risultato di quest’atteggiamento è una sorta di conflitto permanente tra i due alleati, ben visibile già durante la campagna elettorale per le politiche e durante le trattative per la nascita del governo, ma destinato a diventare esplosivo nell’autunno-inverno. In Parlamento, proprio con l’idea di contenere lo strapotere del Cavaliere, la Lega comincia sempre più spesso a fare fronte comune con i Popolari e con il Pds, lasciando intendere in più occasioni di essere disposta a creare una nuova maggioranza. Il 21 novembre, durante la discussione al Senato della legge finanziaria per il ’95, i leghisti, schierandosi dalla parte delle opposizioni parlamentari e dei sindacati, arrivano a chiedere lo stralcio del disegno di riforma previdenziale messo a punto dal ministro Dini, che in realtà dovrebbe costituire uno degli atti qualificanti del disegno riformistico dell’esecutivo. Durissimo lo scontro in Aula con Fini, che accusa il leader leghista di giocare allo sfascio e di voler tradire il mandato degli elettori. Al termine del suo intervento, Fini viene acclamato anche dai deputati azzurri. Qualcuno si spinge a presentarlo come il vero leader del centrodestra e il naturale successore del Cavaliere (tale sarà considerato per i successivi quindici anni, sino a che il conflitto politico latente tra i due sin dal primo momento non esploderà anch’esso, con esiti reciprocamente catastrofici). Al termine della giornata si distingue per sobrietà e preveggenza – a considerarlo con il senno del poi – il commento, senza ombra di ironia, di Francesco Storace: “Gianfranco? Il più grande statista del secolo”.
Uomo avvisato, mezzo affondato
Il summit del G7, svoltosi dall’8 al 10 luglio nella Napoli di Bassolino rimessa a lucido per l’occasione, è stato un discreto successo organizzativo per l’Italia e per Berlusconi la prima importante vetrina internazionale. Il 22 ottobre, sempre nella città partenopea, il presidente del Consiglio – reduce da una tornata elettorale amministrativa piuttosto deludente per il suo partito – è chiamato a inaugurare e presiedere una conferenza internazionale sulla criminalità promossa dall’Onu. La sera prima, viene informato da Gianni Letta che due ufficiali dei carabinieri si sono recati a Palazzo Chigi per consegnargli un invito a comparire per il 26 dello stesso mese. Deve essere interrogato in qualità di indagato nell’ambito di un’inchiesta sulla corruzione nella Guardia di Finanza che tra le altre imprese ha coinvolto la Edilnord di Paolo Berlusconi e, per l’appunto, alcune aziende della galassia di Silvio: Mondadori, Mediolanum, Videotime. Il 21, nel pomeriggio, la notizia del provvedimento arriva anche all’orecchio di due giornalisti del Corriere della Sera, che il giorno dopo, in esclusiva, titola in prima pagina: “Milano, indagato Berlusconi”. La crisi politica con la Lega, intenzionata a disarcionarlo, è già innescata da settimane, ma la clamorosa notizia dell’inchiesta che coinvolge il presidente del Consiglio, resa pubblica in forme tanto eclatanti nel bel mezzo di un simposio internazionale, contribuisce ad accelerarla e a renderla irreversibile. Caustico sull’episodio il commento di Indro Montanelli: “Più che un invito a comparire, è un invito a scomparire”.
La sfiducia mai votata
Bossi ha da settimane contatti riservati sempre più frequenti con Buttiglione e D’Alema. Dopo l’incidente mediatico-giudiziario di Napoli, cui si è aggiunta il giorno successivo la notizia che anche la procura di Roma ha iscritto Berlusconi sul registro degli indagati (l’accusa, in questo caso, è di aver messo a punto un patto di spartizione del mercato pubblicitario tra Rai e Fininvest sfruttando la sua posizione istituzionale), si comincia a parlare con insistenza di un “governo di tregua” o di un “governo delle regole” che dovrebbe occuparsi di riformare la legge elettorale, di varare una normativa anti-trust e di un riassetto dello stato in chiave federalista. Il capo dello stato, Oscar Luigi Scalfaro, fa sapere di essere contrario ad “accelerazioni elettoralistiche” e adombra la possibilità di un governo del presidente in caso di crisi. Che esplode formalmente il 21 dicembre, quando in Parlamento vengono presentate due mozioni di sfiducia: una del Pds, una congiunta di Popolari e Lega. Durante il dibattito in aula Berlusconi tiene un discorso veemente: difende il proprio operato e lancia accuse durissime nei confronti del Carroccio, accusato di tradimento e slealtà. L’indomani si reca al Quirinale per dimettersi, evitando così una sfiducia formale. Quello stesso giorno Repubblica titola con soddisfazione: “Addio Cavaliere”.
Il ribaltone
Berlusconi e Fini pretendono un rinvio del governo alle Camere (pensando di poter fare leva sul malumore che si è creato nella Lega, dove parecchi parlamentari, a partire da Maroni, non condividono l’idea di rompere col centrodestra) ovvero chiedono elezioni anticipate, ma il capo dello stato – come lasciato intendere nei giorni precedenti – ha altro in mente: un esecutivo tecnico sostenuto da una nuova maggioranza parlamentare (che sarà in effetti composta da Pds, Popolari e Lega nord). E’ il “ribaltone”, da quel momento in poi una delle parole più abusate della politica italiana e una delle accuse più frequentemente indirizzate contro gli avversari nei momenti di crisi parlamentare. A guidare il governo tecnico (il primo della storia repubblicana in senso proprio, composto soltanto da burocrati di stato, professori ed esperti economici, mentre Berlusconi ha cercato in un primo momento di farvi inserire ministri “politici” e parlamentari della sua maggioranza) viene chiamato, su indicazione (assai sofferta) dello stesso centrodestra, Lamberto Dini (si era anche pensato a Cossiga, e prim’ancora a Giuseppe De Rita e Scognamiglio). Berlusconi finisce per accettarlo come soluzione (astenendosi al momento della fiducia, dopo aver minacciato un voto contrario) quando gli viene assicurato – direttamente dal presidente della Repubblica secondo la versione che il primo ha sempre accreditato e il secondo sempre smentito – che avrà un programma d’azione ben definito e che nuove elezioni verranno fissate entro il giugno successivo. Ma a convincerlo che si tratti della soluzione in fondo meno traumatica, non potendo ottenere lo scioglimento anticipato delle Camere a breve termine, sono anche i sondaggi (che attestano il gradimento degli italiani per una soluzione tecnica) e le preoccupazioni per il referendum che incombe, da lì a pochi mesi, sul suo impero televisivo. Un’ulteriore garanzia è rappresentata dalla nomina di due personalità a lui gradite in dicasteri chiave: alle Telecomunicazioni va Agostino Gambino, che ha fatto parte dei tre “saggi” scelti da Berlusconi nel 1994 per il blind trust delle sue aziende, alla Giustizia va Filippo Mancuso, un magistrato in pensione noto per il suo garantismo e per il suo eloquio barocco, nonché amico personale di Cesare Previti e per nulla estimatore del pool milanese.
In ogni caso, già al momento del suo insediamento, il 25 gennaio 1995, si capisce che il governo Dini, dovendosi occupare anche di riforme economiche e segnatamente di pensioni, durerà ben oltre l’estate. Per certi versi, la nascita di quest’ultimo sotto l’occhiuta regia di Scalfaro è un piccolo capolavoro di perfidia costituzionale, che ben si riassume in questa formula: “Un uomo del Polo, voluto dal Polo, alla guida di un governo non voluto dal Polo” (Bruno Vespa). Quanto alla Lega, che del ribaltone è la vera responsabile dal punto di vista politico, si spinge sino ad accusare l’ormai ex alleato Berlusconi di ogni nefandezza: non solo di volersi comprare i parlamentari leghisti e di voler favorire una scissione nel Carroccio attraverso il titubante Maroni (che a causa di questo sospetto sarà costretto da Bossi ad un lungo Purgatorio), ma di essere un mafioso conclamato, un riciclatore di denaro sporco e un trafficante di droga. Bossi si dà come compito di cacciare i fascisti da Milano e arriva a chiedere alla magistratura di “verificare se, nei confronti della Fininvest, non esistano gli estremi della ricostituzione del partito fascista. Se così fosse, si proceda all’oscuramento di quelle televisioni”. Sino alla riappacificazione politica tra i due, avvenuta sul finire del 1999, resteranno questi i toni abitualmente utilizzati dalla Lega e soprattutto dal suo leader nei confronti del Cavaliere.
Ancora urne
Solo una vittoria significativa alle elezioni regionali del 23 aprile 1995 potrebbe avallare la richiesta di Berlusconi di elezioni politiche anticipate. Ma la marcia trionfale del suo partito – dopo le vittorie alle politiche e alle europee – per la prima volta si interrompe: Forza Italia (che nel frattempo ha inglobato Rocco Buttiglione, dopo la spaccatura del Ppi in due tronconi causata, sostanzialmente, dalla novità della candidatura di Romano Prodi quale premier del centrosinistra, annunciata ufficialmente il 2 febbraio) ottiene il 23 per cento dei voti, mentre il Pds col 25 per cento dei consensi diventa il primo partito d’Italia. La causa dell’arretramento viene imputata allo scarso radicamento territoriale di Forza Italia e alla scelta di uomini sbagliati. Antonio Martino, più sbrigativamente, parla di “candidati impresentabili”. A queste elezioni risale un infortunio televisivo che diventerà celebre: Emilio Fede, direttore del Tg4 e berlusconiano fervente, prendendo per buoni gli exit poll e le proiezioni forniti dalla Datamedia di Luigi Crespi e dalla Cirm di Nicola Piepoli assegna a urne ancora sigillate la vittoria al Polo in undici regioni (su quindici), conficcando sulla carta d’Italia alle sue spalle altrettante bandierine azzurre. Salvo appunto vedere smentite le previsioni dai dati reali, con la conseguente sostituzione degli stendardi azzurri con quelli rossi.
Ben più incoraggiante per Berlusconi è invece l’esito del referendum dell’11 giugno 1995. Si votano in totale dodici quesiti, tre dei quali – quello sulla concentrazione delle reti televisive, quello sulle limitazioni alle interruzioni pubblicitarie e quello sul tetto alla raccolta pubblicitaria – riguardano direttamente la Fininvest.
“Difendi le nostre serate. Vota No”, recitano i manifesti fatti affiggere in tutta Italia dal gruppo (che durante la campagna elettorale subisce lo shock dell’arresto, nella sede di Publitalia, di Marcello dell’Utri, accusato di false fatturazioni legate alle sponsorizzazioni sportive). Il voto, al di là del merito delle singole questioni, è una sorta di referendum sulla televisione commerciale: più che vinto politicamente da Berlusconi, perso culturalmente e socialmente dalla sinistra, i cui elettori (in particolare quelli della sinistra estrema, stando all’analisi dei flussi) si scopre che guardano e apprezzano i programmi di intrattenimento trasmessi dalle reti berlusconiane più dei loro capi politici. “D’Alema rappresenta l’élite, noi il popolo”, prova a spiegare Fausto Bertinotti, che deve tuttavia difendersi dall’accusa di essere un “berluscomunista”. Sull’onda di questo risultato favorevole al Cavaliere, si torna a parlare di elezioni anticipate, che anche Gianni Agnelli, per quanto apprezzi Dini, sembra sostenere: “I tecnici non possono durare all’infinito”, dice parlando agli imprenditori a Cernobbio.
Movimento o partito?
I mesi passati all’opposizione e la prima battuta d’arresto mettono Forza Italia, nata come macchina elettorale e movimento di opinione nel giro di poche settimane, dinnanzi a un dilemma: continuare ad avere una struttura agile e leggera (rivelatasi tuttavia inefficace al momento del voto amministrativo) o darsi un assetto più tradizionale? Un quesito, detto per inciso, destinato a non trovare una risposta univoca in tutti gli anni a venire. Dopo il piano organizzativo messo a punto da Cesare Previti nell’ottobre 1994 (la sua nomina a coordinatore nazionale del partito, dopo le brevi reggenze di Domenico Mennitti e Luigi Caligaris, risale al mese precedente), che insiste su un modello organizzativo “snello e leggero”, oltreché verticistico e accentrato, su un partito senza tessere e iscritti, nel quale i candidati vengono scelti dal basso col meccanismo delle primarie (in realtà mai attuate), nella prima metà del 1995 si decide che è giunto il momento di dare a Forza Italia un diverso e più funzionale assetto: viene allargato il nucleo dirigente del partito e vengono accresciuti i livelli organizzativi territoriali, vengono create strutture di settore e si procede alla nomina di coordinatori a tutti i livelli periferici, nascono i “promotori azzurri” (il cui reclutamento è affidato a Giovanni Dell’Elce) e si decide di valorizzare la militanza e la base degli attivisti.
Alta finanza
Con una complessa operazione finanziaria, che conduce in prima persona e della quale egli stesso fornisce i particolari alla stampa, il 20 luglio Berlusconi cede parte significativa della sua partecipazione azionaria in Fininvest mantenendo tuttavia il controllo del gruppo e, soprattutto, risanandone i conti. E’ il “Progetto Wave”, che già nel maggio precedente era stato annunciato da Fedele Confalonieri, che del gruppo – dopo la scelta berlusconiana di entrare in politica – è il presidente. L’operazione prevede un aumento di capitale di 1.830 miliardi sottoscritto da tre nuovi soci (Leo Kirch, Johann Rupert e Al Waleed) ai quali vengono riconosciuti il 25 per cento della nuova società denominata Mediaset Spa e quattro posti (su ventuno) nel consiglio di amministrazione di quest’ultima. L’intenzione dichiarata dal Cavaliere è di cedere un altro 20 per cento attraverso un ulteriore aumento di capitale, all’incirca dello stesso importo appena sottoscritto, per poi approdare in Borsa. Secondo Giuliano Amato, presidente dell’Antitrust, l’operazione di cessione di un consistente pacchetto azionario non risolve però il problema del conflitto di interessi: “Anche una partecipazione minima, in teoria anche il possesso di una sola azione, può rappresentare una remora in materia. Anche il solo sospetto che una scelta sia stata motivata dal desiderio di rispondere a un certo interesse, pur in buona fede, può mettere a repentaglio la legittimità sotto il profilo dell’interesse generale”.
Un passo indietro
La notizia che Berlusconi sarà processato per corruzione della Guardia di Finanza, suggerisce a Paolo Mieli, sul Corriere della Sera del 15 ottobre, le seguenti considerazioni: “Il rinvio a giudizio (…) e il processo a suo carico rendono più difficile al Cavaliere di Arcore, quantomeno per una lunga stagione, cimentarsi in prima persona nel tentativo di riconquistare Palazzo Chigi. [Dovrà] rassegnarsi a fare quel famoso passo indietro che in molti gli abbiamo suggerito di compiere da oltre un anno”. Parole solo saggiamente inutili o frutto anche di una cattiva lettura della realtà politica? Il consiglio, che i successivi avvenimenti politici renderanno in ogni caso superfluo, viene tuttavia preso sul serio degli uomini di An, che si chiedono con insistenza chi possa eventualmente sostituire il Cavaliere come leader del centrodestra dopo il suo eventuale ritiro dalla scena. Più che di Fini, negli ambienti della destra si parla con insistenza di Di Pietro, che si è dimesso dalla magistratura nel dicembre dell’anno precedente: con un breve e polemico comunicato di denuncia (“Mi sento usato, utilizzato, tirato per le maniche, sbattuto ogni giorno in prima pagina…”) e un gesto teatrale trasmesso in diretta televisiva (la toga da magistrato lasciata cadere dalle spalle) che sono l’annuncio del suo imminente e fortunato ingresso in politica. Dapprima in proprio, poi in alleanza con la sinistra, per la delusione dei postfascisti che nei suoi modi rudi e autoritari hanno sovente riconosciuto, sin dai tempi di Mani pulite, “uno di loro” e un potenziale compagno di strada.
Addio (anche) a Dini
Giustizia e pensioni, come già era accaduto con il governo Berlusconi, decidono le sorti anche di quello tecnico. Ma con una leggera differenza: questa volta la riforma previdenziale di Dini (sebbene in una versione più edulcorata rispetto a quella presentata quando era ministro dell’Economia del Cavaliere) viene approvata (in agosto), peraltro con l’astensione decisiva di Forza Italia. Prosegue invece anche con Dini il muro contro muro tra potere esecutivo e ordine giudiziario. Il casus belli sono le ripetute ispezioni presso la procura milanese ordinate dal Guardasigilli Filippo Mancuso (sulla scia di quanto aveva già fatto il suo predecessore, Alfredo Biondi), che sembrano gettare parecchie ombre sull’operato del pool di Mani pulite (in realtà non verranno riscontrate né violazioni procedurali né abusi di diritto). Dini non è entusiasta dell’operato del suo ministro, che entra nel mirino della stessa maggioranza che sostiene il governo, Lega e Pds in testa. Si arriva a chiederne le dimissioni attraverso una mozione individuale di sfiducia (la prima della storia della Repubblica) che viene infine votata e approvata dal Senato – dopo un drammatico confronto parlamentare, nel corso del quale Mancuso attacca sia Dini (assente dall’Aula) sia la presidenza della Repubblica – il 19 ottobre. Le due mozioni di sfiducia al governo presentate dal Polo e da Rifondazione comunista danno l’idea che la crisi è imminente. Dini si salva al momento del voto su di esse, il 25 ottobre, con la promessa formale a Bertinotti (in cambio del ritiro della mozione) che si dimetterà entro la fine dell’anno.
di Alessandro Campi e Leonardo Varasano
(5. continua)
I quattro precedenti capitoli sono stati pubblicati il 12, il 17, il 23 e il 25 ottobre e sono disponibili su www.ilfoglio.it


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