Ecco il pensiero elitario

Redazione

Abbiamo ora un partito politico americano e uno europeo. Non tutti gli americani che hanno votato per il partito europeo vogliono diventare europei. Ma non ha importanza, perché è quello per il quale hanno votato. Votano per la dipendenza, per la mancanza di ambizione, e per l’insolvenza”. In pochi hanno riflettuto tanto a lungo, o tanto intensamente su come le democrazie possano preservare la libertà individuale e la virtù nazionale quanto l’eminente scienziato politico Harvey Mansfield.

di Sohrab Ahmari

    Abbiamo ora un partito politico americano e uno europeo. Non tutti gli americani che hanno votato per il partito europeo vogliono diventare europei. Ma non ha importanza, perché è quello per il quale hanno votato. Votano per la dipendenza, per la mancanza di ambizione, e per l’insolvenza”.
    In pochi hanno riflettuto tanto a lungo, o tanto intensamente su come le democrazie possano preservare la libertà individuale e la virtù nazionale quanto l’eminente scienziato politico Harvey Mansfield. E nel momento di valutare lo stato dell’esperimento americano di autogoverno al giorno d’oggi, la sua diagnosi è deprimente, e lui non è mai stato senza peli sulla lingua.
    Giovedì abbiamo intervistato Mansfield all’Harvard Faculty Club. Quest’anno ricorre il cinquantesimo anniversario del suo curriculum di docente universitario. Non è facile essere l’intellettuale conservatore più in vista in un’istituzione che è scivolata sempre più a sinistra in questo mezzo secolo. “Vivo in uno stato a partito unico e molto più significativamente in un’università mono-partitica”, dice il professore ottantenne con un sospiro. “E’ disgustoso. D’altra parte ce la faccio, e molto bene, perché tutti pensano che il fatto che io sia qui significa che le cose che dico di Harvard non possono essere vere. Sono una specie di cagnolino, di mascotte del dissenso”.
    In parte il suo isolamento al campus ha a che fare con la natura del sapere di Mansfield. In un momento nel quale i suoi colleghi sono ossessionati dai metodi quantitativi oggi di moda, e con gli ancor più di moda “studi identitari”, Mansfield si tiene ben stretta una tradizione più antica, che considera il canone occidentale come la guida migliore per gli affari umani. Per lui, la filosofia greca e i libri di pensatori come Machiavelli e Tocqueville non sono curiosità storiche; Mansfield li vede come scrittori che si battono eroicamente con problemi politici e morali, questioni senza tempo e rilevanti universalmente.

    “Tutta la scienza sociale moderna tratta di percezioni,” dice, “ma questa è una denominazione impropria – in quanto trascura di distinguere fra percezioni e percezioni erronee”.
    Prendiamo il voto. “Puoi contare votanti e voti,” dice Mansfield. “E la scienza politica lo fa un sacco, e questo è molto utile perché in effetti i voti si possono contare. Uno vale uno. Ma se vogliamo essere seri sul vero significato di votare, passiamo immediatamente alla nozione di un votante informato. E se vogliamo essere seri su questo, si va direttamente al voto come scelta saggia. Ecco, quello sarebbe un vero votante. Gli altri sono votanti di minore importanza, o persino non votanti del tutto. Stanno solo indicando una credenza, o un capriccio, ma non stanno facendo una scelta saggia. Ecco perché probabilmente non sono saggi”.
    Con questo metro di misura, l’elettorato che ha conferito un secondo mandato a Barack Obama è stato poco saggio – il presidente ha conquistato una “vittoria meschina”, dice Mansfield. “I democratici non hanno detto niente sui loro piani per il futuro. Tutto quello che hanno fatto era attaccare l’altra parte. La campagna di Obama è stata fatta solo di slogan rivolti agli americani, a quelli nella classe media: ‘sono dalla vostra parte’. Non importa cosa succederà dopo, questo silenzio riguardo al futuro è inquietante”.
    A un certo livello il silenzio di Obama rivela l’esaurimento dell’agenda progressista, il cui culmine spirituale è rappresentato dalla sua presidenza, dice Mansfield. L’ala liberal “dipende dall’idea che le cose miglioreranno e il progresso sarà attuato attraverso l’implementazione dell’uguaglianza”. Dice, quindi, che durante la campagna 2012 i progressisti erano “confinati nella difesa di ciò che avevano già raggiunto o semplicemente compivano piccoli progressi – prestiti agli studenti, condom gratuiti. I Democratici sono il partito dei profilattici gratuiti. Tipico”.
    Ma il rifiuto dei democratici di parlare del futuro in termini positivi, aggiunge, rivela anche l’intento del partito di creare “uno stato assistenzialista o del welfare, che toglie i problemi dal tavolo delle contrattazioni e li trasferisce al di sopra della politica”. Lo scopo finale, teme Mansfield, è quello di mettere da parte la tradizione costituzionale americana in favore di una “costituzione materiale fondata su misure progressiste che la sinistra ha approvato e che non possono essere revocate. E questo è ciò che diventerebbe fondamento del nostro sistema politico – non la Costituzione”.
    E’ un progetto iniziato alla fine dello scorso secolo da “un’alleanza di esperti e vittime”, afferma Mansfield. “Gli scienziati sociali e gli scienziati politici erano intensamente coinvolti nella fondazione di un movimento progressista. Quello che hanno fatto quegli esperti è stato trovare dei modi per migliorare il benessere dei poveri, degli incompetenti, di tutti quelli che avevano il diritto al voto ma che nemmeno riuscivano a governare le loro vite. E ancora adesso vediamo nel Partito democratico l’alleanza fra eminenti laureati e vittime sociali”.
    La campagna di Obama – ed è questo il punto, l’esempio – ha diviso il pubblico in sottosegmenti di risentimento classificato per razza, sesso e classe sociale. “Le vittime sono di tipo differente”, afferma Mansfield, “quindi sono trattate in modo differente. Premi bottoni diversi per farle reagire”.
    La minaccia all’autogoverno è chiara. “I padri fondatori volevano che il popolo vivesse ai sensi della Costituzione”, dice Mansfield. “Ma i progressisti vogliono che la Costituzione viva regolandosi sul popolo americano”.

    Harvey Mansfield Jr. è nato nel 1932 a New Haven, in Connecticut. I suoi genitori erano ferventi New Dealer, e mentre era studente universitario ad Harvard Mansfield si definiva un democratico liberale.
    Seguirono un anno nel progetto Fulbright a Londra, e due anni nell’esercito. “Non fui mai in combattimento”, dice. “In realtà sono finito per un anno in Francia, in quello che l’esercito chiama il “good duty” ad Orléans, che permette di raggiungere facilmente Parigi. Quindi anche se ero di leva, me la spassavo”.
    Il ritorno alla vita accademica e il dottorato ad Harvard erano probabilmente inevitabili, ma Mansfield si trasformò decisamente anche dal punto di vista politico. “Ruppi con i liberali sulla questione comunista”, dice. “La mie forze propulsive erano l’anticomunismo e la mia percezione era che i democratici fossero troppo teneri col comunismo, per usare un’espressione piuttosto spiacevole del tempo, spiacevole ma vera”. Iniziò anche a mettere in discussione il progressismo a casa. “Vedevo esposte le fragilità del governo centrale, una dopo l’altra. Tutto quello che cercavano di fare non funzionava e in realtà ci faceva stare peggio, rendendoci dipendenti da un motore che andava sempre più frequentemente giù di giri”.
    Il suo primo impiego di docente arrivò nel 1960 a Berkeley, all’Università della California. In California conobbe il filosofo tedesco-americano Leo Strauss, che all’epoca lavorava alla Stanford University. “Strauss fu fondamentale nel mio divenire conservatore”, afferma. “Quello fu un cambio totale di prospettiva rispetto ad una mera questione di appartenenza al partito”.
    Strauss aveva studiato gli antichi testi greci. Fra le altre cose sostenevano che “nella democrazia ci sono il bene e il male, il libero e lo schiavo” e che “la democrazia può produrre una mente servile e una nazione altrettanto servile”. La sfida politica posta a ogni generazione, capì Mansfield allora, è “difendere il buon modello di democrazia. E per fare ciò si deve essere consapevoli delle differenze e delle disuguaglianze umane, specialmente le disuguaglianze intellettuali”.

    Le élite americane attuali preferiscono accantonare “i fatti immutabili, antidemocratici” concernenti la disuguaglianza umana, afferma. I progressisti vanno anche oltre: “Pensano che l’uso principale della libertà è creare più uguaglianza. Non vedono che c’è persino troppa uguaglianza! Non vedono i limiti dell’equalizzazione democratica” – come, ad esempio, il fatto che la redistribuzione della ricchezza non solo porterebbe in bancarotta la fiscalità pubblica, ma corromperebbe lo spirito nazionale.
    “Gli americani danno per scontata la disuguaglianza”, afferma Mansfield. Il popolo americano “protegge frequentemente le diseguaglianze votando contro la distruzione delle ricchezze dei ricchi, o il loro esproprio. Non votano per tutte le misure di livellamento, quindi vengono condannati come se soffrissero di falsa coscienza ideologica. Ma quella è reale consapevolezza, perché il popolo americano vuol fare funzionare la democrazia, e così fanno i conservatori. I liberali d’altra parte vogliono solo rendere la democrazia più democratica”.
    L’uguaglianza non intaccata dalla libertà invita al disastro, afferma. “C’è una differenza fra rendere una forma di governo più simile a se stessa”, dice Mansfield, “e renderla fattibile”. Portata agli estremi, la democrazia può portare alla “massa guidata da un governo ignorante, o indifferente”.
    Considerate la crisi dei sussidi. “I sussidi sono un attacco al bene comune”, dice Mansfield. “Essi dicono che ‘prendo quello che è mio, e non importa quale sia lo stato della nazione quando me lo prendo’. Quindi sono una sorta di bond o di rendita annuale. Quello che fa il sussidio è fornire la versione del governo simile a quella di un’assicurazione privata, che è migliore perché il governo fornisce garanzie migliori di quelle di un’azienda privata”.
    E questo accade finché il governo non fallisce, come succede in tutta Europa.
    “I repubblicani dovrebbero voler riprendersi la nozione di bene comune”, afferma Mansfield. “Un modo di farlo è mostrare che non possiamo permetterci i sussidi così come sono, che abbiamo sempre sottostimato i costi. ‘Costo’ è solo una parola economica per bene comune. E se i repubblicani possono rendere comprensibile che i famosi diritti acquisiti non sono irrevocabili, ma aperti alla negoziazione e alla disputa politica così come alla riforma, allora penso che possano realizzare davvero qualcosa”.
    La dimensione dello stato del benessere non è ciò che lo rende così soffocante, dice Mansfield. “Quello che rende pericoloso per il bene comune lo stato assistenziale  sono i sussidi garantiti, così che non ci si chiede mai quali spese siano state fatte o saranno fatte”. Meno importanti al momento sono la spesa e le aliquote fiscali. “Non penso si possa capire la presenza o l’assenza di un buon governo”, dice, “guardando solo alla percentuale del pil che il governo utilizza. Non è una cifra irrilevante, ma non è decisiva. La cosa decisiva è se sia possibile riformare, se la riforma sia una possibilità politica”.
    Dopodiché viene il problema della pratica politica dei conservatori. “I conservatori dovrebbero essere il partito del giudizio, non dei principi”, dice. “Ovviamente ci sono principi conservatori – mercato libero, valori famigliari, forte difesa nazionale – ma tali principi devono essere difesi con l’uso del giudizio. I conservatori hanno bisogno di essere intelligenti, e non devono usare i loro principi come sostituti dell’intelligenza. I principi hanno bisogno di esistere perché il giudizio possa essere distinto dall’opportunismo. Ma quando si concede qualcosa sui principi, non significa automaticamente che si sia opportunisti”.

    Né l’essere flessibili significa abbandonare gli elementi principali dell’agenda  conservatrice – inclusi i valori culturali – in risposta a una momentanea sconfitta elettorale. “I democratici hanno il loro focus culturale, l’attacco ai ricchi ed agli indifferenti,” dice Mansfield. “Quindi i repubblicani hanno bisogno di un focus culturale da opporre loro, per esempio il fatto che la bontà o la giustizia nella nostra nazione non sono semplicemente il trasferimento delle risorse ai poveri e ai vulnerabili. Dobbiamo prendere misure per insegnare ai poveri e ai vulnerabili a essere un po’ più indipendenti e per premiare l’indipendenza, non solo dare un assegno del governo. Questo significa autogoverno come governo di se stessi, e come pensi di ottenerlo senza moralità, responsabilità e religione?”
    Quindi è ancora possibile tornare indietro dal ciglio del burrone che porta all’europeizzazione americana? Mansfield è ottimista: “C’è materiale per la ripresa – dice – l’ambizione, ad esempio. Insegno in un’università dove tutti gli studenti sono ambiziosi. Tutti vogliono fare qualcosa di grande delle loro vite”. Questo contrasta con gli studenti che ha incontrato in Europa, dice, dove “era deprimente vedere giovani con ambizioni limitate, persone istruite benissimo e molto intelligenti eppure così rachitiche nelle ambizioni”. Aggiunge con un sorriso: “La nostra altra risorsa principale è la Costituzione”.

    di Sohrab Ahmari

    (Traduzione di Marion Sarah Tuggey)
    Copyright Wall Street Journal per gentile concessione di MF/Milano Finanza