L'erede di Chávez al bivio fra caudillismo e socialdemocrazia
Forse con Chávez l’ultimo caudillo ha passato la mano. Cinque anni prima che il presidente venezuelano arrivasse al potere, l’ambasciatore e storico Ludovico Incisa di Camerana aveva scritto un libro suggestivo in cui aveva indicato “I caudillos” come la “biografia di un continente”, e contemporaneamente l’ultima manifestazione di un modello di leader militare e politico che risaliva addirittura ai tempi dell’antica Roma. Ma un’analisi più formale si deve a un politologo a sua volta diplomatico: l’attuale ambasciatore argentino in Italia, Torquato Di Tella, che fu anche ministro della Cultura tra il 2003 e il 2004.
Forse con Chávez l’ultimo caudillo ha passato la mano. Cinque anni prima che il presidente venezuelano arrivasse al potere, l’ambasciatore e storico Ludovico Incisa di Camerana aveva scritto un libro suggestivo in cui aveva indicato “I caudillos” come la “biografia di un continente”, e contemporaneamente l’ultima manifestazione di un modello di leader militare e politico che risaliva addirittura ai tempi dell’antica Roma. Ma un’analisi più formale si deve a un politologo a sua volta diplomatico: l’attuale ambasciatore argentino in Italia, Torquato Di Tella, che fu anche ministro della Cultura tra il 2003 e il 2004. La sua tesi contrappone la socialdemocrazia europea al populismo latino-americano: da una parte, la classe operaia matura seleziona da sé i propri leader attraverso il cursus honorum sindacale o del funzionariato di partito. Dall’altro, c’è una plebe rurale che un recente inurbamento ha privato dei “tre padri” tradizionali cui erano abituati a rivolgersi per risolvere i problemi: il padre-patriarca “biologico” della famiglia allargata; il notabile o proprietario terriero e datore di lavoro; il sacerdote. Si cerca dunque un “quarto padre”: patriarca, datore di lavoro e autorità sacrale allo stesso tempo. E questo è tipicamente il militare, proprio per il carisma formale conferito dalla divisa.
Se, come Fidel Castro, Daniel Ortega, Pinochet o ai loro tempi i libertadores Bolívar o San Martín, questo “quarto padre” è anche un leader militare vittorioso, tanto meglio. Perón tecnicamente non ha mai combattuto guerre, e Chávez ogni volta che ha dovuto affrontare una prova militare di persona è stato sconfitto. Ma non importa: basta la divisa. Si capisce a questo punto l’importanza simbolica del gesto con cui Hugo Chávez ha investito a suo erede ufficiale il vicepresidente Nicolás Maduro. A dimostrare il peso che i militari hanno ancora nel suo sistema di potere c’è che al voto amministrativo di domenica sono in divisa ben 12 dei 23 candidati governatori.
Maduro però non è un militare, ma un sindacalista, ex guidatore di autobus. Conobbe Chávez attraverso sua moglie Cilia Flores, attuale procuratore generale, che da avvocatessa condusse una campagna a favore di Chávez quando questi era in carcere dopo il fallito golpe. Maduro corrisponde insomma al tipo di profilo che Di Tella assegna alla socialdemocrazia di tipo europeo, e che è d’altronde quello del brasiliano Lula. Un po’ lo è anche Evo Morales in Bolivia, ma i suoi cocaleros indios non sono la classe operaia occidentale, per cui finisce per forgiare un profilo ancora diverso di leader terzomondista: a metà tra il leader di una corporazione e il capo tribale. Tutto indica che la stessa sinistra latino-americana al governo ha messo in movimento meccanismi che stanno cambiando le vecchie logiche.
Già ministro degli Esteri, dopo le presidenziali Maduro era stato designato vicepresidente – che in Venezuela è anche un premier alla francese – al posto di Elías Jaua, un professore universitario di sociologia radicale e pasticcione su cui Chávez ha in pratica scaricato le responsabilità per la cattiva gestione dell’economia. Ora, però, nel rivelare la necessità di una nuova operazione chirurgica – avvenuta martedì con successo, stando al messaggio del vicepresidente – Chávez ha anche tagliato corto sulla successione: “Se si presentasse qualche circostanza che mi inabiliti a continuare sul fronte della presidenza, Maduro la deve concludere. La mia opinione ferma, assoluta, totale, irrevocabile è che in questo scenario, voi scegliate Nicolás Maduro come nuovo presidente del Venezuela”. Il 10 gennaio è in programma una cerimonia di giuramento cui Chávez dovrà assolutamente essere presente per iniziare il suo nuovo mandato. Se i medici cubani gli vieteranno di muoversi fino a quel giorno, ai sensi della Costituzione il presidente dell’Assemblea nazionale, Diosdado Cabello, sarà tenuto a indire nuove elezioni presidenziali.
Tecnicamente non è ancora la fine per Hugo Chávez, né fisica né politica. Ma il crollo improvviso poco dopo la vittoria e la segretezza con cui di nuovo è stato gestito il suo soggiorno a Cuba fanno ritenere probabile l’analisi che stava filtrando da ambienti dell’opposizione: in realtà il male non era stato curato ma soltanto calmato con un’overdose di farmaci che ha permesso l’illusione del recupero. Ora il presidente venezuelano sta pagando il conto.
Correa, l’erede geopolitico
Non c’è però soltanto lo scenario interno. La malattia ha impedito infatti a Chávez di presenziare al vertice del Mercosur di Brasilia, in cui il Venezuela celebrava la propria ammissione, la Bolivia di Evo Morales vedeva accogliere la sua domanda di adesione e anche Rafael Correa era accolto come ospite speciale. Sarebbe stato il suo trionfo geopolitico, con l’integrazione tra i paesi governati da una sinistra più moderata e quelli dalla sinistra radicale. A questo punto si apre anche la questione su chi sarà l’erede di Chávez a livello regionale, in un quadro cioè dove il compromesso tra modello lulista e modello chavista dovrà avvenire su una posizione intermedia: più radicale di quello che è stato finora l’esempio brasiliano, ma allo stesso tempo anche post caudillista.
Per il successo del suo modello economico e la pubblicità che si è fatta sul caso Assange, l’erede “esterno” potrebbe essere proprio l’economista Rafael Correa, il “Chicago boy di sinistra”. Non a caso si sta agitando per convincere l’Opec ad adottare una carbon tax sulle esportazioni di petrolio che è già stata ribattezzata “Correa tax”. Non a caso Heinz Dieterich, grande ispiratore del socialismo del XXI secolo, ha detto che “Correa è chiamato ad assumere il ruolo di avanguardia politica latinoamericanista”. E sempre non a caso Correa è volato a Cuba a visitare Chávez prima dell’operazione. Quasi a voler ottenere un’investitura esplicita.
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