
Psicosi calcistiche. Così nasce la leggenda della maledizione del Benfica
Animo, compagni lusitani! Ché non di soli trionfi vive un club, e la memoria è amica anche di chi sbanda all’ultima curva e inciampa al traguardo. Centimetri, secondi: cosa importa. Ci vuol talento a saper vincere, ma più ne occorre per saper perdere in modo rocambolesco. E ripetersi, e ripetersi ancora.
di Ronald Giammò
Animo, compagni lusitani! Ché non di soli trionfi vive un club, e la memoria è amica anche di chi sbanda all’ultima curva e inciampa al traguardo. Centimetri, secondi: cosa importa. Ci vuol talento a saper vincere, ma più ne occorre per saper perdere in modo rocambolesco. E ripetersi, e ripetersi ancora. La sconfitta nasce orfana. Non è infatti tra i protagonisti della finale di Europa League dell’altro ieri che il Benfica deve rintracciare il colpevole della sua débâcle. Non è stato Ivanovic, il difensore del Chelsea che a sessanta secondi dallo scadere ha visto il pallone rimbalzargli in testa per poi insaccarsi in rete con parabola imprevedibile; nulla si può rimproverare a Jorge Jesus, l’allenatore portoghese che aveva portato i suoi fin lì grazie a un ruolino di marcia impeccabile; né si può tanto meno prendersela con l’arbitro di giornata che, anzi, con un rigore concesso alle Aquile aveva riequilibrato le sorti della sfida. Il responsabile era assente e aveva fatto perdere le sue tracce sessant’anni fa.
Si chiama Béla Guttmann. Ungherese, nato a cavallo del Novecento, fu allenatore di calcio e ingranaggio decisivo di un movimento, quello magiaro, che dominò la scena europea nella prima metà degli anni Cinquanta. Nomade per vocazione e orgoglioso di natura, Guttmann arrivò sulla panchina del Benfica nel 1960 centrando lo scudetto al primo colpo. Innovatore tanto negli schemi quanto nell’interpretazione del suo ruolo (trattava da sé il suo compenso con i vertici del club; età, naso dei giocatori e meteo gli dettavano la formazione da mandare in campo), lo stupore intorno a lui si accrebbe quando l’anno dopo riuscì a regalare al Benfica la sua prima Coppa campioni. Stupore che si trasformò in fama eterna nella stagione successiva quando concesse il bis contro l’invincibile Real Madrid. Forte dei suoi successi, andò quindi a ridiscutere i termini del suo contratto con il suo presidente. Questi gli negò l’aumento richiesto e Guttmann, offeso, chiuse la porta dietro di sé. Non prima di aver scagliato su quel club ingrato la seguente maledizione: “Da qui a cento anni nessuna squadra portoghese sarà due volte campione d’Europa e il Benfica senza di me non vincerà mai una Coppa dei campioni”. Sul momento il presidente non ci fece caso. Il Benfica era la squadra più forte d’Europa, collezionava trofei e finali, e se anche la sfortuna si fosse frapposta tra lei e le coppe, la statistica avrebbe infine rimesso a posto le cose.
E così venne il 1963, la finale di Wembley contro il Milan, il vantaggio lusitano con Eusebio, la rimonta di Altafini e quello strano disagio che dà il veder realizzata una superstizione. Idem nel 1965, contro l’Inter, e nel 1968 contro il Manchester Utd, e negli anni Ottanta quando la corsa del Benfica si arrestò prima contro i piccoli belgi dell’Anderlecht e poi contro gli olandesi del Psv. Il finale è storia più recente e racconta della sconfitta di Vienna nel 1990, ancora per mano del Milan, fino alla beffa di due sere fa. In totale fanno sessant’anni di urla di gioia strozzate in gola. Una psicosi collettiva, una cultura condivisa. Triste come un fado, inesorabile come una sentenza.
di Ronald Giammò


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