Chi sono i ribelli siriani, che armi chiedono e le liti con al Qaida

Redazione

La marcia indietro di Barack Obama sull’ipotesi di una “no fly zone” in Siria non sorprende i ribelli siriani, che continuano però a chiedere aerei da guerra. Dal G8 arriva la notizia di un aiuto finanziario all’opposizione al regime di Bashar el Assad assieme all’ormai decotto impegno a una soluzione negoziata alla conferenza di pace Ginevra 2. I tentennamenti e le preoccupazioni della comunità occidentale sulle armi ai ribelli hanno creato ulteriori spaccature in una galassia che, secondo stime del regime, sarebbe composta da più 3.500 diversi gruppi.

    Beirut. La marcia indietro di Barack Obama sull’ipotesi di una “no fly zone” in Siria non sorprende i ribelli siriani, che continuano però a chiedere aerei da guerra. Dal G8 arriva la notizia di un aiuto finanziario all’opposizione al regime di Bashar el Assad assieme all’ormai decotto impegno a una soluzione negoziata alla conferenza di pace Ginevra 2. I tentennamenti e le preoccupazioni della comunità occidentale sulle armi ai ribelli hanno creato ulteriori spaccature in una galassia che, secondo stime del regime, sarebbe composta da più 3.500 diversi gruppi.

    “Dateci i coltelli”. Il capo dell’Esercito siriano libero, Salim Idris, dice all’occidente: “Mandateci armi in vista dell’imminente battaglia di Aleppo”. I giovani disertori invece dicono: “Delle promesse degli Stati Uniti non sappiamo che farcene”. “Vogliono darci armi ora? Non ci crediamo”, spiega Ala Eddin, membro della brigata Liwa al Tawhid di stanza ad Aleppo da oltre un anno. “Di che tipo di armi abbiamo bisogno? Di coltelli”, risponde ironico. Chiunque combatte dall’inizio contro il regime non ha fiducia nelle promesse degli Stati Uniti perché “appare evidente che c’è un interesse internazionale a prolungare la guerra”, prosegue il disertore ingegnere esperto di radiofrequenze. “Finalmente l’occidente e Israele vedono i due loro grandi nemici combattersi tra di loro”: il riferimento è al partito sciita libanese, Hezobollah, e ad al Qaida, presente in Siria con la milizia Jabhat al Nusra. “Durante la battaglia di Qusayr nessuno ha parlato di noi, dell’Esercito siriano libero – rimprovera Firas Abu Mussah, appeno riparato  a Tripoli in Libano – Tutti i media hanno parlato di al Nusra e Hezbollah, mentre noi venivamo circondati”.

    Il nemico è sciita. Il sunnita Yusuf al Qaradawi, seguito da 60 milioni di spettatori nella sua trasmissione su al Jazeera Arabic, ha definito Hezbollah il “Partito di Satana” invece che il partito di Dio. Sulla stessa linea anche il mufti saudita Abdulaziz al Shaikh che ha bollato Hezbollah come male assoluto. Gli sciiti appaiono in questo momento nemici religiosi ben “peggiori degli ebrei”. Vedere sventolare le bandiere sciite (con su scritto Ya Hussain) nelle moschee sunnite di Quasayr è stato troppo per la comunità sunnita. Non a caso anche il presidente egiziano, Mohammed Morsi (paladino dell’islam sunnita), ha annunciato lo scorso 15 giugno il ritiro del proprio ambasciatore a Damasco.

    Le armi necessarie. “Assad sta vincendo e Obama è chiamato a prendere una posizione, subito – spiega Ala Eddin – Se davvero gli occidentali ci dovessero fornire le armi, lo farebbero con il contagocce, la quantità minima che servirebbe per bilanciare di nuovo le forze in campo”, spiega l’ingegnere a sostegno della sua tesi sulla “guerra lunga”. I ribelli hanno bisogno di artiglieria e armi pesanti. Quelle leggere le hanno già: le ottengono dai paesi del Golfo o le comprano al mercato nero siriano e libanese. Chiedono mortai, lanciamissili, razzi anticarro, carri armati, stinger Fim-92 per abbattere gli aerei. E poi munizioni, che normalmente i ribelli pagano a caro prezzo nel mercato nero turco e libanese. Secondo quanto riferito dalla Reuters, l’Arabia Saudita avrebbe già cominciato circa due mesi fa a fornire missili terra-aria ai ribelli siriani. I lanciarazzi terra-aria a spalla sarebbero stati ottenuti da fornitori in Francia e Belgio. Parigi inoltre avrebbe pagato per il trasporto delle armi consegnate ai ribelli. Ma tutto questo avviene ancora su piccola scala. Quello che i ribelli chiedono è un aiuto che faccia la differenza.

    Chi è il “moderato” Salim Idriss. Il problema è capire in mano a chi finirebbero queste armi. Gli Stati Uniti sono in contatto con il leader dell’Esercito siriano libero Salim Idriss, considerato un “moderato” anche dal senatore repubblicano John McCain, sostenitore di un intervento americano a sostegno dell’opposizione ad Assad, che lo ha incontrato segretamente a fine maggio nel nord della Siria controllato dai ribelli. Idriss è stato definito da McCain uomo “moderato che condivide in parte i nostri stessi valori e combatte gli stessi nemici”. Ma chi è Idriss? E’ un ufficiale di 55 anni che ha disertato solo a luglio del 2012. Ingegnere militare, (parla correntemente inglese e tedesco oltre all’arabo), originario di un paesino vicino Homs, ha studiato a Damasco. E’ stato eletto capo di stato maggiore del consiglio militare dell’Esercito siriano libero il 7 dicembre scorso ad Antalya, nel sud della Turchia. I due terzi dei voti che lo hanno eletto provenivano dalle file di militari vicini a gruppi salafiti e dei Fratelli musulmani: Idriss però dichiara di non avere nessuna appartenenza politica.  All’indomani dell’inserimento del gruppo qaidista Jabhat al Nusra nella lista delle organizzazioni terroristiche mondiali, a novembre scorso, Idriss definì la decisione degli Stati Uniti “affrettata”. Sul terreno di fatto esiste un’alleanza “per abbattere un nemico comune” tra l’Esercito siriano libero e Jabhat al Nusra. Alleanza che traballa lì dove i qaidisti agiscono di prepotenza sopraffacendo i ribelli nelle zone di loro maggiore interesse: lo stato islamico di Raqqa, vicino all’Iraq, è stato proclamato dai qaidisti dopo una feroce battaglia contro una brigata dell’Esercito siriano libero. Qaidisti e ribelli minimizzano i loro dissapori ma il conflitto c’è ed è serio. Qaidisti e islamisti siriani hanno una visione diversa della Siria post Assad: i primi vogliono continuare a combattere gli sciiti e gli infedeli ovunque, per raggiungere il sogno di uno stato islamico di Siria e Iraq. I secondi vogliono sì la sharia, ma nel rispetto delle altre minoranze religiose (su cui non verrebbe imposta) e all’interno dei confini siriani. In altre parole vorrebbero finire di combattere e ricostruire il paese.