Per Zemmour il mariage pour tous è la terza tappa dell'utopia progressista
A distanza di un mese dal via libera del Consiglio costituzionale francese alla legge sul matrimonio gay, approvata il 23 aprile dal Parlamento di Parigi, la Corte suprema americana ha bocciato il Defence Marriage Act (Doma), la legge federale che definisce matrimonio solo quello tra uomo e donna. La sentenza storica per la comunità gay americana non sorprende Eric Zemmour, intellettuale, giornalista e polemista che il Foglio ha incontrato per una lunga chiacchierata alla sede del suo quotidiano, il Figaro: “La sentenza americana è la vittoria del progressismo politically correct sulla tradizione, come in Francia”, dice.
di Mauro Zanon
Parigi. A distanza di un mese dal via libera del Consiglio costituzionale francese alla legge sul matrimonio gay, approvata il 23 aprile dal Parlamento di Parigi, la Corte suprema americana ha bocciato il Defence Marriage Act (Doma), la legge federale che definisce matrimonio solo quello tra uomo e donna. La sentenza storica per la comunità gay americana non sorprende Eric Zemmour, intellettuale, giornalista e polemista che il Foglio ha incontrato per una lunga chiacchierata alla sede del suo quotidiano, il Figaro: “La sentenza americana è la vittoria del progressismo politically correct sulla tradizione, come in Francia”, dice. Con tono quasi rassegnato Zemmour aggiunge: “In ‘Le Premier Sexe’ (2006) – pubblicato in Italia con il titolo ‘L’uomo maschio’ per le Edizioni Piemme, ndr – avevo già anticipato tutto”. E’ la vittoria dell’utopia progressista contro la tradizione. “Il mariage pour tous è la prova del definitivo passaggio da una società di tipo patriarcale, fondata sui valori tradizionali e sulla famiglia, a una società femminilizzata, devirilizzata, nella quale l’uomo assomiglia sempre più alla donna”.
Una trasformazione che è in atto in Europa fin dagli anni Settanta, e, negli Stati Uniti, fin dagli anni Venti, da quando cioè ha cominciato a imporsi l’idea che la riuscita personale è più importante della famiglia. “Dal momento in cui il matrimonio non ha più rappresentato la base per fondare una famiglia e costruire una società, riducendosi a mero patto d’amore, l’ordine patriarcale ha iniziato a sgretolarsi inesorabilmente, aprendo le porte alla sentimentalizzazione del matrimonio voluta dalle femministe, e al matrimonio omosessuale”. E ancora: “Il matrimonio d’amore, il divorzio di massa e il matrimonio gay sono le tre tappe di uno stesso percorso, che porta dritti verso l’adozione della procreazione medicalmente assistita e della Gpa (‘gestation pour autrui’, gravidanza per conto terzi, ndr). E’ già tutto scritto a livello giuridico”.
In un’Europa alla deriva, la virilità sopravvive soltanto nelle banlieue, dove l’uomo islamico non ha ancora rinunciato al potere maschile. In quelle stesse banlieue, come Montreuil, Zemmour è nato, alla fine degli anni Cinquanta, nella stessa estate in cui il generale De Gaulle fu nominato presidente del Consiglio. Ma era un’altra banlieue e, soprattutto, un’altra epoca. “Sono nato e cresciuto in una Francia che non aveva ancora provato sulla sua pelle gli effetti deleteri di un’immigrazione incontrollata, come quella cui assistiamo da ormai quarant’anni. Con l’approvazione della legge sul ricongiungimento famigliare del 1976, che consentì agli immigrati presenti regolarmente sul territorio francese di farsi raggiungere dalla loro famiglia, cambiò tutto. La mia era un’altra banlieue, che non ha nulla a che fare con quella attuale”. E De Gaulle era presidente della Repubblica. La Quinta. “Con De Gaulle, c’era ancora una struttura gerarchica della società, fondata sui valori tradizionali e sulla famiglia, e non c’era ancora il divorzio di massa, che ha distrutto il matrimonio come istituzione. Il decennio gollista fu una parentesi incantata, felice, l’ultima della Francia. Certo, all’epoca non ci eravamo resi conto che in realtà si trattava di una illusione, ma è anche vero che se la Francia è diventata una delle più influenti potenze del mondo è per merito di De Gaulle”. Questo nostalgico del gollismo, bonapartista di origine ebreo-algerina, è stato incasellato dalla stampa nella galassia dei “néo-réacs”, i nuovi reazionari, accanto a Robert Ménard, giornalista pied-noir e fondatore di Reporters sans frontières, Ivan Rioufol, suo collega al Figaro, e Eric Brunet, presentatore e saggista.
“Sono il rappresentante di una generazione ambivalente, che ha goduto in prima persona dei piaceri e del vento di libertà, apparente, portato da quella stagione di fermento politico-culturale che era stata il ’68 – dice Zemmour ricordando i suoi anni con i capelli lunghi – Ma allo stesso tempo ne constato oggi gli effetti perversi”. Ai tempi del college inizia ad appassionarsi alla storia e a Napoleone e alla letteratura (“quando ho letto ‘Illusioni perdute’ di Balzac, la mia vita è cambiata. Sognavo di essere Lucien de Rubempré”, dice), poi studia a Sciences Po e sogna di entrare all’Ena, la scuola dell’eccellenza francese. Ci prova, ma fallisce due volte, “l’umiliazione della mia vita”, ricorda, perché “la politica è sempre stata una forte tentazione, alla quale, per ora, non ho mai ceduto”. Ma, sussurra, “potrebbe accadere un giorno”. Chissà. Per ora è ancora una delle firme del Figaro Magazine, anche se nel 2010 rischiò quasi il posto quando su Canal+ disse: “I francesi immigrati vengono fermati dalla polizia più degli altri perché la maggioranza dei trafficanti di droga sono neri e arabi”. Indignazione, sgomento e accuse dalla gauche: tutto, per sua fortuna, si risolse con una lettera di scuse, e l’ipotesi di licenziamento fu archiviata. L’anno scorso, un nuovo caso. Alla radio, a Rtl, dove ogni mattina, alle 7,15, dà il buongiorno ai francesi con la sua trasmissione “Z comme Zemmour”, tre minuti per commentare l’attualità, che quel giorno era la nuova legge contro le molestie sessuali e l’abolizione del tribunale penale per i minori, promossa dalla Guardasigilli Christiane Taubira. “La ministra è dolce e compassionevole, come una mamma con i suoi figli – ha incalzato Zemmour – Quei poveri figli delle periferie che rubano, spacciano, torturano, minacciano, violentano, e qualche volta pure uccidono”. E ancora: “Christiane Taubira ha già scelto chi sono le vittime e i carnefici. Le donne e i giovani delle banlieue stanno nel campo dei buoni. Gli uomini bianchi in quello dei cattivi”. Troppa libertà per un réac ai tempi di Hollande. E così la direzione di Rtl ha ridotto i suoi appuntamenti mattinali, con buona pace dell’esecutivo socialista.
E’ dalla seconda metà degli anni Ottanta – “nel 1981 ho votato Mitterrand, ma già nel 1985 avevo abbandonato la gauche, che aveva abdicato di fronte alle forze liberali, mettendo in primo piano il femminismo, l’ideologia gay e l’antirazzismo” – che Zemmour azzanna i profeti della gauche benpensante e “droitdelhommiste” alla Bernard-Henri Lévy, e le femministe acidule e cattedratiche alla Clémentine Autain. Ed è sugli ultimi quarant’anni di storia che sarà basato il suo prossimo libro, per il quale – come confessa in anteprima al Foglio – si è ispirato, nella forma, a “Patria” di Enrico Deaglio. “Racconterò il saccheggio, la depredazione avvenuta negli ultimi quarant’anni. La distruzione dell’ordine tradizionale della società, a opera del nichilismo sessantottino. Un ordine che potrà essere rifondato, solo se saremo in grado di attingere ai valori del nostro passato glorioso”. Sarà la continuazione del nostalgico viaggio intrapreso in “Mélancolie française”, pubblicato nel 2010, nel quale Zemmour raccontava la storia della Grande France. Una Francia nella quale oggi non si riconosce più, come rivela, prima di lasciarci, il suo ultimo e malinconico sussulto bonapartista: “La France dont je rêve est morte en 1815, à Waterloo”.
di Mauro Zanon
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