Calcio e mercato

Perché l'arrivo di Tevez alla Juve è anche un tradimento

Redazione

Faceva tenerezza, Carlos Tevez, fasciato in abito scuro e imprigionato da un colletto troppo stretto, aggirarsi per lo Juventus stadium e il museo della Signora in compagnia del presidente Agnelli. Tevez che ventiquattr'ore prima era sbarcato a Malpensa istoriato d'anelli e orecchini, comodo nel suo maglione e con i jeans stropicciati come la sua vita e la sua carriera. Scriveva Borges che gli argentini "discendono dalle navi". Mille patrie e mille storie li hanno condotti sin lì. Ma se a quella lingua di terra poi decidono di legare le loro sorti, allora l'Argentina sa essere una madre generosa che accoglie, dimentica e perdona. Questa volta però, con Tevez sarà più difficile.

di Ronald Giammò

    Faceva tenerezza, Carlos Tevez, fasciato in abito scuro e imprigionato da un colletto troppo stretto, aggirarsi per lo Juventus stadium e il museo della Signora in compagnia del presidente Agnelli. Tevez che ventiquattr'ore prima era sbarcato a Malpensa istoriato d'anelli e orecchini, comodo nel suo maglione e con i jeans stropicciati come la sua vita e la sua carriera. Scriveva Borges che gli argentini "discendono dalle navi". Mille patrie e mille storie li hanno condotti sin lì. Ma se a quella lingua di terra poi decidono di legare le loro sorti, allora l'Argentina sa essere una madre generosa che accoglie, dimentica e perdona. Questa volta però, con Tevez sarà più difficile.

    Nato in una villa (la versione argentina delle favelas) alla periferia di Buenos Aires, Tevez non ha mai rinnegato le sue origini e oggi deve il suo soprannome, l'Apache, al barrio dove è nato 29 anni fa. Strade e polvere, a giocare con chi ha più anni di te. Stessi dribbling, stessa fame. Nessun arbitro e vediamo chi ne ha di più. Poi arriva l'osservatore venuto da lontano, il provino nel club per cui hai sempre tifato, ed ecco che il riscatto diventa un sogno che si realizza: l'esordio alla Bombonera con la maglia del Boca Jr. a 17 anni. La maglia numero 10 che era stata di Riquelme e ancora prima di Maradona. Nessuno stupore quindi che al suo arrivo a Torino l'Apache, investito della 10 che fu di Del Piero, non mostri nessun timore. Rispetto sì, ma se "ho indossato la maglia del Diego, potrò farlo anche con questa".

    Dimentica due cose però, l'Apache. La prima la scrisse Zlatan Ibrahimovic nella sua autobiografia: "Puoi riuscire ad uscire dal ghetto, ma tanto il ghetto non uscirà mai da te". Ed era prorpio per questo che l'argentino era così amato dai suoi connazionali. Perché lui, al contrario di Messi, a quel ghetto che porta dentro non aveva mai smesso di dare ascolto. Offendendosi, quando sentiva parlar male del suo Fuerte Apache; sciogliendosi, se invece doveva riferirne a chi vi si accostava senza pregiudizi; e continuando a giocare e parlare come se non se ne fosse mai andato. Come quella volta quando commentò la tresca di John Terry con la moglie del suo compagno di squadra Wayne Bridge: "Se una cosa del genere fosse accaduta dalle mie parti quello (Terry, ndr) avrebbe perso le gambe. Forse non sarebbe sopravvissuto". O quando si rifiutò di entrare in campo in coda a una partita già persa contro il Bayern Monaco e dovette aspettare sei mesi prima di rimettervi piede. E che dire di quando, dopo una doppietta ai rivali ed ex compagni del Manchester Utd, pensò bene di mettersi ad esultare con le mani alle orecchie e il dito davanti alla bocca.

    Certe radici bisogna continuarle ad innaffiare, altrimenti il legame rischia che si spezzi. E questa è la seconda lezione di cui Tevez si è dimenticato. La tenne Diego Armando Maradona davanti alle telecamere di Emir Kusturica. Raccontava dei suoi anni napoletani, el Diego, e della sensazione che “il sud non poteva vincere contro il nord”. Invece, prosegue el pibe nel suo racconto, “noi andammo a Torino e ne facemmo sei. Sai cosa vuol dire fare sei gol all’avvocato Agnelli?”. Evidentemente no, Tevez ancora non lo sa. Ma a vederlo così irreggimentato, a scambiar fredde parole di circostanza col suo nuovo presidente, e sfilare tra corridoi e bacheche concedendosi un sussulto solo sotto alla foto di Sivori, siamo sicuri che Carlitos abbia sentito voglia di allentarsi il nodo della cravatta e capito, come in un’epifania, che il vestito in cui si sentiva troppo stretto non era solo quello che altri avevano disegnato su misura per lui.

    di Ronald Giammò