Ricominciamo da Kerry

Redazione

I negoziati fra Israele e Autorità palestinese che si sono riaperti ieri dopo tre anni di silenzio con una cena al dipartimento di stato dureranno, almeno nelle intenzioni, circa nove mesi. E il segretario di stato, John Kerry, ambisce al ruolo di nutrice in un travaglio che sotto il suo predecessore, Hillary Clinton, non è arrivato nemmeno vicino alle doglie. Dal suo insediamento a Foggy Bottom l’ex candidato alla presidenza ha lavorato senza posa alla restaurazione delle condizioni per sedersi nuovamente attorno a un tavolo, e il voto del governo israeliano sulla progressiva liberazione di 104 prigionieri palestinesi nel corso dei negoziati è il primo frutto apprezzabile delle sei visite di Kerry nell’area.

    I negoziati fra Israele e Autorità palestinese che si sono riaperti ieri dopo tre anni di silenzio con una cena al dipartimento di stato dureranno, almeno nelle intenzioni, circa nove mesi. E il segretario di stato, John Kerry, ambisce al ruolo di nutrice in un travaglio che sotto il suo predecessore, Hillary Clinton, non è arrivato nemmeno vicino alle doglie. Dal suo insediamento a Foggy Bottom l’ex candidato alla presidenza ha lavorato senza posa alla restaurazione delle condizioni per sedersi nuovamente attorno a un tavolo, e il voto del governo israeliano sulla progressiva liberazione di 104 prigionieri palestinesi nel corso dei negoziati è il primo frutto apprezzabile delle sei visite di Kerry nell’area. Quello del segretario è stato un lavorio a fari spenti, un esercizio di “shuttle diplomacy” portato con la cautela necessaria per avvicinarsi a una questione infiammata senza bruciarsi prima ancora di cominciare a discutere. Nella gerarchia dei dossier sul tavolo di Kerry il processo di pace ha scavalcato rapidamente molte posizioni, scalzando anche i sanguinosi rivolgimenti egiziani gestiti in prima battuta dal Pentagono e dai consiglieri della Casa Bianca.

    Come previsto dal farraginoso copione del processo di pace, la fase preliminare serve per fissare i paletti della discussione, stabilire le precondizioni del dialogo e valutare la buona volontà delle parti, circumnavigando per il momento la sostanza, cioè i confini, gli insediamenti israeliani in Cisgiordania, la sicurezza di Israele, la questione dei profughi e tutti gli altri attriti che hanno fatto collassare ciclicamente i negoziati. Per gli inviati israeliani e palestinesi a Washington l’incontro di ieri ha segnato l’inizio di una complessa fase di studio, ma per Kerry si tratta di un test politico decisivo, il precipitato pubblico di una preparazione condotta a fari spenti. Kerry ha fatto un investimento enorme sul dossier dove l’Amministrazione Obama non ha portato a casa nulla nemmeno quando il presidente ci ha messo la faccia mentre Hillary tentava di raccogliere i cocci della trattativa. L’ambiziosa nutrice di questa incerta gravidanza ha ottenuto la nomina di un nuovo inviato speciale (il senatore George Mitchell aveva lasciato il posto circondato da una nuvola di disillusione), Martin Indyk, che durante l’Amministrazione Clinton è stato a lungo ambasciatore in Israele. Indyk, che ha ottenuto il gradimento di Netanyahu e Abu Mazen, gestirà per conto del dipartimento di stato la dimensione day-by-day di una trattativa che dopo le informalità inaugurali si sposterà in medio oriente.

    La grande incognita dell’investimento politico-diplomatico di Kerry riguarda il ruolo di Barack Obama. Il presidente è rimasto scottato dal fallimento del 2010 arrivato dopo tanti discorsi e photo opportunity, e per il momento si attiene al protocollo del temporeggiamento che è la guida della sua politica estera, specialmente nel secondo mandato. Ma come ricorda un ex consigliere di Mitchell, Shibley Telhami, “il tentativo va oltre il ruolo che spetta a Kerry, e a un certo punto il presidente dovrà intervenire. Se fossi Kerry non scaverei troppo in profondità senza avere un impegno chiaro di Obama a sostenere il mio tentativo. Non sono certo che Kerry abbia già ottenuto queste garanzie”. In un certo senso, però, è proprio l’assenza di una rete di salvataggio a stimolare le fregole politiche del segretario di stato.
    Kerry è alla ricerca di un successo diplomatico che possa riecheggiare nell’orizzonte della legacy, una vittoria che sia necessariamente accompagnata dall’aggettivo “storico”. Per propiziarla ha scelto di iniziare con le trattative a porte chiuse e il lavoro dietro le quinte, senza la foga – anche mediatica – di un Henry Kissinger. Sul sito del magazine Foreign Policy l’esperto di diplomazia Bruce Van Voorst sostiene che proprio l’approccio timido, scevro di aggressività e determinazione, è l’anticamera del fallimento del tentativo kerryano; Van Voorst ingrossa le fila della fazione pessimista sull’ennesima rinascita dei dialoghi, fazione stracolma di ex negoziatori disillusi, politici scottati e ministri del governo Netanyahu che senza giri di parole dicono che il conflitto è “insolubile”.
    ***

    Benjamin Netanyahu è il primo a credere che gli accordi di pace con i palestinesi scoppieranno come una bolla di sapone, ma è il primo a sapere che gli accordi di pace sono una necessità – per mostrare agli Stati Uniti buona volontà nei confronti del rais palestinese Abu Mazen, per dare una risposta ad anni di inattività sul fronte del dialogo, per prendere tempo. Il passo più lungo Bibi Netanyahu l’ha fatto sabato notte, quando una burrascosa riunione di gabinetto ha deciso la liberazione di 104 prigionieri palestinesi o legati al terrorismo palestinese (ancora non è chiara la sorte di alcuni arabi di cittadinanza israeliana) detenuti in Israele da prima del 1993, anno degli accordi di Oslo. Alcuni dei prigionieri liberati erano stati condannati all’ergastolo per crimini come aver lanciato bombe incendiarie su un autobus (nel 1988; morirono una donna, i suoi tre bambini e un soldato) o aver assassinato civili israeliani disarmati. “Non è facile per me, non è facile per i ministri, non è facile per le famiglie delle vittime”, ha detto Netanyahu dopo la decisione, condizione indispensabile imposta dall’Autorità palestinese e caldeggiata da John Kerry per dare il via ai negoziati di pace, fermi da tre anni. Alla liberazione si sono detti favorevoli tredici ministri, con sette contrari e due astenuti. I prigionieri saranno liberati in quattro tranche secondo modalità decise da una commissione apposita, i loro nomi saranno resi pubblici 48 ore prima per consentire petizioni e obiezioni dell’Alta corte di giustizia.

    Netanyahu sa che questa mossa gli costerà infinite grane politiche: per molti esperti, il premier israeliano si trova nella stessa posizione che toccò ad Ariel Sharon prima della decisione del ritiro da Gaza, nel 2005. Allora, tra i critici più scatenati dell’ex generale, c’era proprio Bibi Netanyahu che, da ministro delle Finanze, minacciava un giorno sì e l’altro pure di dimettersi davanti alla prospettiva di un ritiro di Israele da Gaza – lo fece nell’agosto 2005, trasformandosi nel principale avversario di Sharon dentro al partito e contribuendo alla sua uscita dal Likud. Adesso è Netanyahu a dover sopportare il fuoco di chi lo accusa di cedere ai terroristi, con la differenza che il premier non dispone della forza politica che Sharon aveva allora: non c’è nessuna Kadima da fondare, oggi. I falchi aspettano, convinti che i negoziati di pace incontreranno un fallimento tanto clamoroso da non richiedere il loro contributo, ma alcuni segnali non sono incoraggianti per Netanyahu: dei sette ministri che sabato hanno votato contro il rilascio dei prigionieri, due appartenevano al suo partito. E ieri Zeev Elkin, viceministro degli Esteri e uno degli avversari più tosti del premier all’interno del governo, ha detto al Times of Israel che Netanyahu sta andando contro la volontà degli elettori del Likud, ma che ammira il fatto che il premier sia disposto a sostenere quello che ritiene giusto (i negoziati di pace con i palestinesi) anche a costo di pagare un prezzo politico: Elkin, e tanti altri con lui (il movimento in favore dell’espansione degli insediamenti è oggi maggioritario alla Knesset), contribuiranno volentieri alla riscossione.

    Liberare 104 prigionieri e terroristi è stato un passo azzardato (e sbagliato, secondo molti analisti) per Bibi. Ma da oggi, quando il ministro della Giustizia Tzipi Livni (accompagnata da Yitzhak Molcho, consigliere personale di Netanyahu) e il capo dei negoziatori palestinesi Saeb Erekat si incontreranno a Washington, il premier inizierà a circostanziare ogni singola azione, muovendosi con la massima prudenza possibile. E’ di lunedì scorso l’annuncio di un disegno di “basic law”, legge dal valore simile a una norma costituzionale, che consenta al governo di sottoporre a referendum popolare ogni accordo stipulato durante i negoziati e ogni decisione presa su confini, territori, insediamenti purché nell’area di sovranità di Israele (sono quindi esclusi i territori contestati di Giudea e Samaria). Incalzato anche dal leader dell’ultradestra (e ministro dell’Economia e del commercio) Naftali Bennett, che aveva promesso le sue dimissioni se non fosse passata la legge sul referendum, Netanyahu ha imposto al disegno di legge una corsia preferenziale: sarà discusso dalla Knesset domani, potrebbe diventare legge già la settimana prossima. E’ evidente il tentativo del premier di mettersi al riparo dagli attacchi legittimando qualsiasi scelta futura mediante l’approvazione popolare (“ogni accordo che non sia approvato dai cittadini non merita di essere firmato”, ha detto). Per ora i sondaggi dicono che la maggior parte degli israeliani è favorevole alla creazione di uno stato palestinese, ma che i contrari hanno opinioni molto più salde e agguerrite. Potrebbe bastare uno stallo a Washington per far pendere la bilancia dall’altra parte. E i falchi lo sanno.
    ***

    Soltanto Kerry, Netanyhau e Abu Mazen sanno come è stato superato lo scoglio su cui naufragò nel 2010 la “storica ripresa delle trattative tra Israele e Anp senza precondizioni” annunciata da Obama alla fine dell’agosto del 2010: il congelamento degli insediamenti israeliani. Testimoni raccontarono che Abu Mazen, ascoltando alla televisione le parole del presidente americano che assicurava che era stata eliminata la precondizione palestinese del blocco degli insediamenti,  scaraventò in una crisi d’ira l’apparecchio contro un muro della Mukata. Ma ora, dopo che Netanyahu ha costruito centinaia di nuovi insediamenti, Kerry è riuscito a trovare una formula di mediazione, così come ha trovato qualche escamotage per aggirare la posizione palestinese che inchiodava la trattativa ai “confini del giugno 1967” (richiesta condivisa da molti governi europei, ma priva di senso, perché prima della Guerra dei sei giorni non esisteva nessun confine formale tra Israele, Cisgiordania e Gaza, ma soltanto una linea armistiziale provvisoria siglata nel giugno del 1948, che Ben Gurion aveva chiesto di trasformare in confine internazionale, incontrando la ferrea opposizione dei paesi arabi).

    Abu Mazen si presenta ora alle trattative in una posizione di forza mai vista nei confronti di Hamas, ma in una posizione inedita di debolezza interna nei confronti della dirigenza dell’Anp. L’improvvisa espulsione dal potere di Mohammed Morsi e dei Fratelli musulmani in Egitto priva Hamas di un formidabile alleato e addirittura rischia di mettere il gruppo palestinese che governa nella Striscia di Gaza in una situazione di pericolo a fronte dei feroci attacchi che ora provengono dal Cairo. Le Forze armate egiziane accusano Hamas di avere inviato “centinaia di terroristi” nel Sinai in appoggio alle organizzazioni qaidiste e islamiste che hanno compiuto innumerevoli attentati dal 3 luglio a oggi. Non solo, hanno chiuso quasi tutti i tunnel del contrabbando tra Gaza e l’Egitto e ora hanno messo sott’accusa Morsi per la sua evasione dal carcere negli ultimi giorni del regime di Hosni Mubarak “con l’aiuto di terroristi di Hamas”. Per la prima volta nella storia, Hamas non trova più nell’Egitto un elemento di mediazione con Abu Mazen, ma un avversario frontale. L’inedita debolezza di Hamas (che ovviamente rifiuta questa ripresa di negoziati) toglie una fondamentale sponda a quei dirigenti dell’Anp critici sui negoziati. Ma Abu Mazen soffre anche di una forte crisi di autorità nella sua stessa Ramallah, in Cisgiordania. Il suo “storico successo” per l’ammissione della Palestina alle Nazioni Unite come “stato osservatore non membro” nel novembre 2012 ha avuto conseguenze nulle, e da mesi il governo dell’Anp è di fatto vacante. 

    Dopo essersi liberato il 18 aprile scorso del troppo popolare premier Salam Fayyad (che aveva rotto la tradizione di corruzione dello stato palestinese), contrario al riconoscimento della Palestina all’Onu, al riavvicinamento con Hamas e alla precondizione del congelamento degli insediamenti, Abu Mazen si presenta oggi alle trattative addirittura senza un responsabile del suo governo. Il 3 giugno infatti ha nominato nuovo premier il tecnocrate Rami Hamdallah, che però si è dimesso venti giorni dopo, a causa dei contrasti sulla politica economica con i vicepremier Mohammed Mustafa (capo del Palestinian Investment Fund, legato a Salam Fayyad) e Ziad Abu Amr. Da allora la crisi dell’esecutivo palestinese è rimasta aperta. Ramdi Hamdallah continua a essere premier, ma dimissionario. Le storiche divisioni politiche della Anp  si sono evolute in nuove fratture sulla politica economica, con conseguenze ancora da verificare sull’approvazione o no di un eventuale accordo di pace.