Dagli al libero scambio
Esagerato stracciarsi le vesti: gli Stati Uniti spiano anche Israele. Lo ha detto Maariv Dany Yatom, ex capo del Mossad, che ha dimenticato di ricordare che anche Israele spia gli Stati Uniti. Perché “gli stati non si amano”, ripeteva Henry Kissinger. Conferenze di pace, trattati di amicizia, vertici tra leader con forti bevute e scambi internazionali di barzellette (come a Mosca, tra Breznev e Nixon nel 1972) o di complimenti. Niente da fare: il mattino dopo, tutti sobri per forza e ciascuno a difendere i propri interessi, e chi conosce più segreti dell’altro si trova in vantaggio.
di Alessandro Corneli
Esagerato stracciarsi le vesti: gli Stati Uniti spiano anche Israele. Lo ha detto Maariv Dany Yatom, ex capo del Mossad, che ha dimenticato di ricordare che anche Israele spia gli Stati Uniti. Perché “gli stati non si amano”, ripeteva Henry Kissinger. Conferenze di pace, trattati di amicizia, vertici tra leader con forti bevute e scambi internazionali di barzellette (come a Mosca, tra Breznev e Nixon nel 1972) o di complimenti. Niente da fare: il mattino dopo, tutti sobri per forza e ciascuno a difendere i propri interessi, e chi conosce più segreti dell’altro si trova in vantaggio. Con il Datagate, gli Stati Uniti hanno fatto sapere al resto del mondo che dispongono di un vantaggio competitivo tecnologico nella cyberguerra, al tempo stesso militare ed economica, che ha preso il posto della Guerra fredda fondata sulla mutua distruzione (nucleare) assicurata. L’obiettivo è sempre lo stesso: aumentare la propria potenza/influenza, ridurre o contenere quella degli avversari/concorrenti: nel mondo globalizzato, termini come “amico”, “nemico” o “alleato” non hanno più corso.
Le ultime rivelazioni di Edward Snowden, attraverso il Guardian (35 leader mondiali intercettati dalla Nsa), sono cadute in un momento delicato nei rapporti tra Stati Uniti ed Europa, impegnati nella realizzazione del progetto Ttip – Transatlantic Trade and Investment Partnership – ovvero un’area di libero scambio che produrrebbe quasi la metà del pil mondiale e oltre un terzo del volume degli scambi. La sproporzione tra lo scandalo Snowden – che in realtà amplifica le polemiche suscitate nel 1998 dalle notizie sull’esistenza dell’analogo sistema Echelon – e il progetto Ttip fa pensare che, nonostante il presidente del Parlamento europeo, il socialdemocratico tedesco Schulz, abbia subito chiesto l’interruzione dei negoziati, al massimo si avrà un rallentamento. Anche perché il suo buon esito annacquerebbe nel vasto Atlantico la potenza della Germania che non si può contenere tra il Mare del nord e il Mediterraneo.
Forse l’idea del Ttip è nata proprio con questo obiettivo: impedire il consolidarsi di un’egemonia tedesca sull’Europa con l’inevitabile conseguenza di trasformare questa in una “fortezza”. Helmut Kohl colse al volo l’occasione del collasso dell’Urss per “comprare” da Mosca la Germania est e convinse i suoi alleati europei che la riunificazione della Germania, saldamente democratica, avrebbe portato alla “europeizzazione della Germania” e non alla “germanizzazione dell’Europa”. Per dimostrare la sua buona fede, rinunziò al marco. Per parecchi anni ci si è cullati nell’idea della europeizzazione della Germania, ma la crisi finanziaria ed economica, iniziata nel 2007 negli Stati Uniti, ha dimostrato che stava prevalendo l’ipotesi alternativa. Su questo sfondo è maturata l’idea del Ttip. Se l’Europa è troppo piccola e debole per “gestire” la potenza (economica) tedesca, allora si può tentare di diluirne il peso in un contenitore enormemente più vasto. Prospettiva gradita, oltre che agli Stati Uniti, al Regno Unito, all’Italia e alla stessa Francia che si è resa conto della propria incapacità di tenere il passo con il vicino d’oltre Reno. Infatti le convergenze tra Parigi e Washington sono cresciute negli ultimi anni: dalla Libia al Libano e alla Siria, che implicano anche una discreta collaborazione a livello di intelligence.
Infine, anche la Germania è interessata al successo del Ttip perché, secondo una recente inchiesta condotta dal Wall Street Journal tra le 19 più grandi imprese manifatturiere tedesche, nel prossimo anno queste concentreranno i loro investimenti per il 43 per cento nei mercati emergenti, per l’11 per cento negli Stati Uniti, per il 15 per cento in patria e per il 5 per cento nel resto d’Europa. Anche per Berlino, quindi, l’Europa attuale, e soprattutto l’Eurozona dove non vuole pagare i debiti di alcuni né avallare gli Eurobond, sta stretta. Le trattative sul Ttip quindi riprenderanno. Il vero nodo da sciogliere sarà il rapporto tra dollaro ed euro, ma per questo c’è tempo, nonostante la fretta cinese.
di Alessandro Corneli
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