Guerra di stato alla povertà
Dai titoli dei giornali americani non si evince con chiarezza il risultato della guerra alla povertà lanciata da Lyndon Johnson cinquant’anni fa. Per la sinistra più radicale è stata una vittoria sostanziale che va completata con una guerra alle diseguaglianze economiche; per i conservatori è stata l’ennesima estensione delle intrusive inefficienze dello stato assistenzialista. Parte del problema, non della soluzione. Per Barack Obama la guerra alla povertà offre l’occasione per riposizionarsi a sinistra sui temi economici, tanto per non essere tagliato fuori dalla montante sinistra radical che si fa avanti un po’ ovunque fra lotte per il salario minimo e atrabiliare retorica antisistema.
Dai titoli dei giornali americani non si evince con chiarezza il risultato della guerra alla povertà lanciata da Lyndon Johnson cinquant’anni fa. Per la sinistra più radicale è stata una vittoria sostanziale che va completata con una guerra alle diseguaglianze economiche; per i conservatori è stata l’ennesima estensione delle intrusive inefficienze dello stato assistenzialista. Parte del problema, non della soluzione. Per Barack Obama la guerra alla povertà offre l’occasione per riposizionarsi a sinistra sui temi economici, tanto per non essere tagliato fuori dalla montante sinistra radical che si fa avanti un po’ ovunque fra lotte per il salario minimo e atrabiliare retorica antisistema. Vedi alla voce Bill de Blasio. Ieri la Casa Bianca ha spiegato che la guerra alla povertà ha avuto successo ma non è finita: “Dobbiamo raddoppiare gli sforzi per assicurarci che la nostra economia funzioni per ogni americano che lavora. Dobbiamo aiutare le imprese con salari e benefit più alti, estendere l’accesso all’educazione e alla sanità”. Il rilancio dell’immagine presidenziale passa da una nuova guerra alla povertà su cui il Senato ha messo anche un piccolo sigillo votando a favore del ripristino dei sussidi per la disoccupazione. Alla Camera controllata dai repubblicani la misura difficilmente passerà, ma i sei franchi tiratori di destra hanno restituito il sorriso ai democratici.
Fra i dissidenti non c’era il senatore Marco Rubio, che in una sala di Capitol Hill dedicata a Lyndon Johnson ha pronunciato ieri un grande discorso sulla “mobilità sociale e il sogno americano”, risposta fatta di iniziativa privata e mercato alla “guerra federale alla povertà” decretata dai burocrati di Washington di ieri e oggi: “Dobbiamo togliere i fondi dallo stato federale e indirizzarli ai singoli stati, e allo stesso tempo incentivare il lavoro attraverso crediti fiscali per chi guadagna meno”, ha detto, sfidando il modello dei sussidi proposto da Obama. Quello di Rubio è uno dei tentativi conservatori di rispondere all’offensiva retorica sulle diseguaglianze economiche e su un sistema di sussidi per i soggetti più deboli che ha affaticato una ripresa già lenta e un mercato del lavoro sconfortante se depurato dalla cortina fumogena delle statistiche. A un’agenda politica che si riduce a mettere mano alle casse pubbliche, Rubio oppone una guerra alla povertà che fa leva sul mercato.
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