La trappola di Ginevra 2

Redazione

Il sindaco di Damasco, Bishr Sabban, si è fatto seguire dalle telecamere della tv di stato siriana, la settimana scorsa, mentre andava nel distretto di Barza, nella periferia della capitale, che ha subìto l’assedio delle forze del regime per quasi tutto il 2012 e che ha infine siglato una tregua perché i residenti stavano morendo di fame. L’80 per cento di Barza è andato distrutto sotto i bombardamenti dell’esercito del rais, Bashar el Assad, che da quasi più di un anno difende il suo palazzo, a Damasco, tenendo lontani a suon di “barrell bombs” i ribelli che avanzano.

di Paola Peduzzi e Daniele Raineri

    Il sindaco di Damasco, Bishr Sabban, si è fatto seguire dalle telecamere della tv di stato siriana, la settimana scorsa, mentre andava nel distretto di Barza, nella periferia della capitale, che ha subìto l’assedio delle forze del regime per quasi tutto il 2012 e che ha infine siglato una tregua perché i residenti stavano morendo di fame. L’80 per cento di Barza è andato distrutto sotto i bombardamenti dell’esercito del rais, Bashar el Assad, che da quasi più di un anno difende il suo palazzo, a Damasco, tenendo lontani a suon di “barrell bombs” i ribelli che avanzano. Il sindaco della capitale, nel suo tour tra le macerie, ha detto che la cosa più importante, ora, è ricostruire, rimettere in piedi Barza, togliendo il velo alla “strategia delle tregue” applicata da Assad nei sobborghi di Damasco bombardati e assediati per mesi: serve a rafforzare il regime, a veicolare il messaggio cui tengono molto i russi – stiamo combattendo contro i terroristi, e abbiamo persino un volto umano, non vogliamo che il popolo siriano soffra, siamo qui per proteggerlo – e a consolidare la sopravvivenza di Assad.

    Quel che accade intorno a Damasco, con tanti villaggi che hanno resistito e che ora sono costretti alla resa perché non arriva più nemmeno un convoglio con su qualcosa di commestibile, sarà replicato in scala più grande a Montreux, al Palace Hotel, dove da domani inizia la conferenza di pace sulla Siria nota come “Ginevra 2” (sull’esito di Ginevra 1 soprassediamo). Ammantando il suo contributo con parole che suonano bene alle delicate orecchie occidentali – aiuto umanitario, cessate-il-fuoco – Assad sta replicando su scala globale la truffa che ha messo in piedi a due passi da casa: vendere come tregua un altro periodo di assedio, giusto il tempo di guadagnare il terreno perduto, prima di rivendersi come interlocutore unico per negoziare la pace in Siria. Ci stanno cascando tutti, in questa sceneggiatura studiata con gli iraniani e i russi: i servizi segreti stranieri, compresi gli americani che nonostante tutto sono quelli più presenti sul campo assieme ai francesi, stanno iniziando a prendere contatto con i servizi di Assad per avere informazioni sullo Stato islamico, su Jabhat al Nusra, sul Fronte islamico. Cioè gli agenti occidentali, per orientarsi e per orientare la strategia occidentale, usano le informazioni fornite da Assad. Il quale, grazie alla regia di Vladimir Putin, sta riposizionandosi come unico baluardo contro il terrorismo degli estremisti jihadisti.

    Il piano è così perfetto che le Nazioni Unite guidate da Ban ki-moon preferiscono avere a Montreux gli iraniani piuttosto che l’opposizione ad Assad. Gli Stati Uniti hanno chiesto di ritirare l’invito a Teheran, ma fino a qualche giorno fa il segretario di stato, John Kerry, diceva che coinvolgere l’Iran non era sbagliato. L’indecisione americana ha già dato il peggio di sé con la non-guerra dell’agosto scorso: c’era bisogno di un altro pasticcio diplomatico pubblico?
     

    Le vittime sacrificali. Ahmed Jarba è il capo della Coalizione nazionale siriana delle forze dell’opposizione e della rivoluzione (Etilaf), vale a dire del Consiglio politico che rappresenta il Jaish al Hur, l’esercito della libertà: i primi a impugnare le armi quando nel 2011 il governo siriano aveva deciso che il modo migliore per disperdere le manifestazioni di protesta era sparare. Sono i ribelli protodemocratici che piacciono all’occidente, ma il loro organo politico è l’accozzaglia più patetica di oppositori prodotta dai tre anni di guerra in Siria. Hanno una capacità di condizionare e di rappresentare quello che succede sul terreno molto scarsa. Secondo un’arguzia araba sono quelli che combattono nei fanadiq (gli hotel) e non nelle khanadiq (le trincee). E’ precisa. Non volevano andare a Ginevra a farsi massacrare – diplomaticamente parlando – dal blocco di pietra Assad-più-Russia, ma sono stati costretti con la forza da Stati Uniti, Francia, Arabia Saudita e Turchia. Quest’ultima ha usato il ricatto finale: se Jarba e i suoi non fossero andati, avrebbe chiuso la frontiera con la Siria, essenziale per gli spostamenti dei ribelli. Anche così, quando la partecipazione è stata messa ai voti, 44 delegati su 120 si sono ritirati dal Consiglio e hanno minacciato di dimettersi piuttosto che approvare la missione in Svizzera. Jarba, sunnita, 45 anni, cranio lucido, appartiene al clan degli Shammar, una tribù araba che si estende anche in Iraq e Arabia Saudita e proprio da Riad sarebbe consigliato. Il governo assadista e i suoi partner si preparano da mesi alle trattative, gli uomini di Jarba hanno avuto soltanto quattro giorni di tempo e si dice si stiano sottoponendo a sedute disperate di diplomazia for dummies, come studenti in ritardo per gli esami. Si presentano chiedendo che il presidente Bashar el Assad si dimetta dal suo incarico e lasci il potere a un organo di transizione, di cui anche loro chiedono di fare parte. Capiscono già in partenza che non otterranno nulla e che sono le vittime sacrificali dello show.

    La pistola di Obama. L’ex capo del Pentagono, Bob Gates, ha detto al Wall Street Journal in un’intervista sul suo nuovo, perfido memoir, che stabilire “la linea rossa” sull’utilizzo delle armi chimiche in Siria è stato “un errore serio”: “Dicevo sempre al presidente che, se carichi la pistola, poi devi avere la volontà di sparare”. Oggi sappiamo che Obama non voleva nemmeno caricarla, la pistola, che quelle “linee rosse” sono uscite nell’impeto di un discorso, non erano state condivise con i consiglieri. E’ quello il momento in cui la strategia americana in Siria ha iniziato a collassare? Se l’è chiesto Micheal Weiss in un articolo (bellissimo) pubblicato su Politico Magazine: quando è successo? “E’ stato a dicembre scorso, quando gli islamisti hanno umiliato i ribelli sostenuti dagli americani conquistando quel poco di forniture che l’America aveva dato loro? E’ stato a settembre, quando Obama ha telegrafato la sua riluttanza nel rispettare la sua stessa linea rossa dopo che il regime siriano ha usato armi chimiche contro il suo stesso popolo? E’ stato nei mesi ancora prima, quando l’Amministrazione ha silenziosamente e misteriosamente smesso di dare seguito alla sua stessa promessa di armare direttamente i ribelli? O la strategia è collassata già nell’agosto del 2011, quando Obama disse che Assad se ne doveva andare, tranne poi non fare nulla perché ciò accadesse?”. L’indecisione di Obama sulla questione siriana è testimoniata dal fatto – riportato dalla Reuters – che il team creato dal presidente con l’unico obiettivo di trovare una strategia per la Siria è durato circa 18 mesi, alla fine del 2012 era già stato smantellato. Ora Obama vuole che negozino le parti coinvolte, a Montreux, per ottenere un piano di transizione al potere di Damasco. Ma le aspettative sono state abbassate: “All’inizio la Conferenza di pace era stata concepita come un momento per formare un governo di transizione”, ha detto alla Cnn un funzionario del dipartimento di stato. “Ma sappiamo che ottenere progressi politici otto mesi dopo è ben più faticoso”. La Conferenza di pace “è tutto quel che abbiamo”, ripetono al dipartimento di stato, bisogna farla funzionare.

    Il dinoccolato di Damasco. Il più grande trucco giocato all’umanità dal diavolo è stato convincerlo della sua inesistenza. Ma anche Assad è stato un tiro non da poco. Il dinoccolato di Damasco sembrava uno studente in confronto agli altri rais, come Gheddafi o Mubarak, ma si presenta in Svizzera quasi già da vincitore. Ha dosato l’escalation dell’orrore con accortezza ed è riuscito a passare dagli arresti arbitrari e dalle sparizioni dei dissidenti al lancio di missili balistici Scud contro le sue stesse città senza che la comunità internazionale reagisse. C’è stato soltanto un sussulto dopo la strage di civili con il gas nervino alla periferia della sua capitale nell’agosto 2013, ma è durato poco. Assad ha resistito per quasi tre anni, eliminando l’opposizione moderata e liberando dalle prigioni i jihadisti fino a quando la sua retorica – non è una rivolta contro di me, è un attacco di terroristi – non ha cominciato ad avverarsi. Assad è il capo di una minoranza privilegiata che pur di non cedere il suo status e pur di non  concedere libere elezioni ha massacrato chi protestava, e per farlo ha chiamato anche le milizie libanesi di Hezbollah. Ora cerca a Montreux la rilegittimazione definitiva agli occhi della comunità internazionale. Era un pariah, è riuscito a riarrampicarsi fuori dalla fossa.

    Gli eredi di al Qaida. Sheikh Abu Bakr al Baghdadi è il leader dello Stato islamico dell’Iraq e Sham (dove Sham sta per il Levante, la grande Siria), il gruppo militare erede di al Qaida in Iraq. Quando si legge che in Iraq ci sono stati ottocento morti al mese o che sulla città di Fallujah sventolano di nuovo le bandiere nere di al Qaida, è per la guerra lanciata simultaneamente dal sunnita Baghdadi contro il governo alawita di Assad a Damasco e contro il governo dello sciita Nouri al Maliki a Baghdad, ma questa gigantesca guerra di religione per ora resta sottotraccia, poco spiegata sui media, nascosta dietro a notizie più politiche come la Conferenza di pace a Ginevra. La sua posizione sui negoziati è questa: ha scomunicato il Consiglio nazionale siriano e i ribelli che vi partecipano, dichiarandoli bersagli per i suoi uomini. In questo momento è impegnato in una lotta senza quartiere contro gli altri gruppi ribelli – incluso il Fronte islamico (vedi prima), il che aumenta le probabilità di successo di Assad. 

    La Russia interpreta “il popolo siriano”. Il 7 gennaio scorso la Pravda di Mosca ha pubblicato un commento di Timothy Bancroft-Hinchey sulla Conferenza di pace sulla Siria dal titolo “Un test per la diplomazia”. La premessa è: “Senza il sostegno dall’esterno da parte dell’occidente, in particolare dalla Nato e dall’asse Fukus (Francia, Regno Unito, Stati Uniti), aiutato dai sempre volenterosi Qatar e Arabia Saudit (in parte anche dagli Emirati arabi), la crisi siriana non esisterebbe”. Per fortuna c’è il presidente Vladimir Putin, che “combatte il terrorismo, non lo sostiene, arma, finanzia, ed equipaggia”. La guerra al terrorismo è il messaggio che i russi veicoleranno a Montreux, con l’obiettivo di rafforzare Assad: combattiamo tutti contro l’estremismo. Dopo un incontro con la controparte siriana e iraniana, venerdì scorso, il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, ha definito questa linea d’azione: il conflitto in Siria è portato avanti da combattenti stranieri soldati del jihad internazionale che non hanno alcun diritto di determinare il futuro del popolo siriano. Piuttosto è il regime di Assad, che bombarda città e villaggi per combattere il terrorismo, l’unico che si muove a favore del “popolo siriano”. Lavrov sta ben attento a non fare distinzioni all’interno dell’opposizione ad Assad: sono tutti estremisti che vanno combattuti, “il primo desiderio del popolo siriano è di vincere contro il terrorismo”. I russi pianificano di chiedere un cessate il fuoco ad Aleppo e l’invio di peacekeeper, ulteriore legittimazione del ruolo di Assad, aperto anche all’aiuto umanitario, contro i combattenti del jihad internazionale.

    Le pedine dei sauditi. Quando l’Arabia Saudita ha capito che Obama avrebbe lasciato che la Siria bruciasse senza muovere un dito e che i ribelli nazionalisti-moderati-non-programmaticamente-opposti-alla democrazia erano stati ormai consunti dalla brutalità della guerra civile, ha puntato le fiche sul Fronte islamico – al Jabhat al Islamiya. E’ il frutto della fusione recente – fine novembre 2013 – tra sette gruppi salafiti jihadisti molto forti, con un numero di uomini stimato tra i quarantamila e i sessantamila. Ne fanno parte il gruppo più forte ad Aleppo (Liwa al Tawhid) e il gruppo più forte nei dintorni di Damasco (Jaysh al Islam). Pochi giorni fa, colpo di scena: è uscita la notizia che anche il Fronte islamico si sarebbe seduto al tavolo di Montreux. Falso: non ne hanno mai avuto l’intenzione e considerano chi ci va un collaborazionista, intrappolato in un gioco geopolitico altrui. Hanno snobbato tutti i tentativi del segretario di stato americano, John Kerry, di includerli. I capi sono tutti islamisti, alcuni liberati nel 2011 da Assad – che voleva così ravvivare la minaccia di al Qaida. Nel loro caso, l’impresa non è riuscita. Si sono fermati prima, la trasformazione in qaidisti completi non è compiuta, hanno obiettivi nazionali, tra i quali sicuramente non c’è il fiorire di una democrazia jeffersoniana. Quando Hassan Abboud, uno dei loro capi militari, tornò a casa dopo la scarcerazione, fu accolto dalla figlia piccola in lacrime. “Non ti preoccupare, faremo piangere loro lacrime di sangue”, le disse. All’Arabia Saudita vanno bene: loro volevano sponsorizzare un gruppo che fosse 1) forte da potersi battere contro Assad 2) non qaidista, perché al Qaida è sempre una minaccia alla casa regnante dei Saud. Nota: si è scoperto che uno dei loro leader è Abu Khalid al Suri, che combatteva con Zawahiri e Bin Laden in Afghanistan. Ricordate la teoria dei sei gradi di separazione? Soltanto sei strette di mano al massimo ci separano da qualsiasi altro essere umano sulla terra, compreso Barack Obama o il Papa. Grazie al Fronte islamico, i gradi di separazione tra John Kerry e Ayman al Zawahiri sono ancora meno.

    Il sogno svizzero dell’Iran. La Svizzera è il paese dei balocchi per il presidente iraniano Hassan Rohani. Da quando è stato eletto, nel giugno scorso, da quel piccolo frammento di terra nel cuore dell’Europa gli arrivano soltanto buone notizie. A Ginevra è stato siglato l’accordo “storico” con gli americani sul programma nucleare di Teheran, entrato ufficialmente in vigore ieri con l’annuncio, da parte dell’Iran, dello stop alle centrifughe che arricchivano l’uranio al 20 per cento e con l’allentamento delle sanzioni da parte dell’occidente. A Montreux, domani, ci sarà una Conferenza di pace che è stata studiata apposta – con i russi e il regime di Damasco – per prolungare la vita di Assad, che è uno degli obiettivi primari della strategia siriana dell’Iran: il ruolo di Teheran è considerato diplomaticamente tanto cruciale, che il segretario generale dell’Onu Ban ki-moon ha rivolto un invito formale all’Iran per presentarsi alla Conferenza di pace, mettendo in pericolo la fattibilità stessa dei negoziati. “Non accettiamo precondizioni”, ha fatto sapere la portavoce del ministero degli Esteri iraniano, accettando l’invito dell’Onu e stabilendo subito i rapporti di forza. L’America ha chiesto all’Onu di ritirare l’invito, ma è facile pensare che se la posizione americana fosse stata chiara, non ci sarebbe stato questo pasticcio diplomatico in pubblico. Per coronare il tour svizzero, poi c’è Davos, che inizia sempre domani: non è ancora stata confermata la presenza di Rohani, ma già solo l’invito è l’occasione per l’Iran di farsi bello per attirare investimenti stranieri (tra gli invitati c’è anche Benjamin Netanyahu, premier israeliano, e i due vengono sempre citati assieme, come una par condicio tutta nucleare). L’intervento di Rohani è previsto per giovedì e, secondo la Reuters, è l’atto secondo del piano del presidente iraniano per far tornare il suo paese sul palcoscenico internazionale. Addio isolamento, addio ulteriori sanzioni (Obama dice che porrà il veto su qualsiasi iniziativa al riguardo da parte del Congresso americano) e benvenuto al piano studiato dall’entourage di Rohani per creare una fruttuosa competizione tra europei e americani in modo da ottenere gli accordi migliori. Riferendosi al mercato iraniano, gli analisti internazionali parlano di “gold rush”.

    L’indifferenza di Jabhat al Nusra. Sheikh Abu Mohammad al Joulani è il capo del Jabhat al Nusra, il fronte dell’aiuto, il gruppo che rappresenta al Qaida in Siria. Per il giovane Joulani (33 anni) la Conferenza di Montreux sarà soltanto una notizia qualsiasi tra l’apertura del telegiornale e le previsioni del tempo. Sul terreno non cambia nulla. Joulani, che faceva parte di al Qaida in Iraq, agisce tenendo sempre ben presenti le lezioni imparate durante la disfatta irachena di al Qaida nel 2007-2008: è essenziale che la gente sia dalla tua parte. Per questo ordina che il gruppo si comporti come un’evoluzione istruita e trattenuta di al Qaida in Iraq: niente video di decapitazioni o attacchi suicidi contro luoghi di culto o progetti fantastici sul Califfato prossimo venturo. Tanto che un esperto sentito dal Foglio, Pieter van Ostaeyen, fa notare che nell’intervista di cinquanta minuti concessa ad al Jazeera il giovane leader usa la parola “rifaq”, che in arabo vuol dire compagno d’armi, camerata, invece che mujaheddin o fratelli o altro. Tutta questa saggezza non ha impedito che Jabhat al Nusra finisse nella lista americane dei gruppi terroristi internazionali.

    Quelli che non c’entrano. Il segretario delle Nazioni Unite, Ban ki-moon, ha invitato alla Conferenza di pace di Ginevra per trovare una soluzione ai tre anni di guerra civile in Siria anche Australia, Bahrein, Belgio, Grecia, Lussemburgo, Messico, Olanda, Corea del sud e Vaticano. Ma non si sa perché.

    di Paola Peduzzi e Daniele Raineri