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Farli smammare non funziona. Breve guida per capire i troll

Redazione

“Mi stai trollando?”. 
E' una domanda che viene posta molto spesso nelle discussioni online: potete incontrarla nei forum, su YouTube, Twitter e qualsiasi blog. È un interrogativo importante perché veicola la vera natura del troll, la sua costante e morbosa ricerca di credibilità agli occhi delle sue vittime. Un troll può fingere di supportare la vostra tesi, può darvi consigli errati spacciandoveli per imperdibili dritte, vi può sfottere con maestria; ma non è mai cattivo.

    “Mi stai trollando?”. 
E' una domanda che viene posta molto spesso nelle discussioni online: potete incontrarla nei forum, su YouTube, Twitter e qualsiasi blog. È un interrogativo importante perché veicola la vera natura del troll, la sua costante e morbosa ricerca di credibilità agli occhi delle sue vittime. Un troll può fingere di supportare la vostra tesi, può darvi consigli errati spacciandoveli per imperdibili dritte, vi può sfottere con maestria; ma non è mai cattivo. Il suo obiettivo è alzare polveroni, tirare a sé più utenti possibile per poi mettersi comodo e godersi lo spettacolo della trollata, l’aurora boreale del web. Il bottino finale ha un nome: lulz (variazione del termine “LOL”), la risata sconquassata e ai danni altrui, l’erba gatta di ogni troll.

    I troll esistono e infestano la conversazione digitale: sono personaggi arcaici di internet e per questo la rivista accademica The Fibreculture Journal ha dedicato il suo ultimo numero (scaricabile gratuitamente da qui) proprio a loro. Si chiama “Troll Theory” ed è una collezione di saggi e ricerche che dismette i panni polemici e si limita a ragionare sull’esistente.

    Come sempre, si parte da una definizione. Secondo il quasi-autorevole Urban Dictionary, il trolling è “l’arte di far arrabbiare le persone deliberatamente e intelligentemente, utilizzando il dialogo. [...] non si tratta di fare commenti maleducati. Gridare parolacce a qualcuno non è trollare: è solo flaming, e non è divertente”. Ciò dovrebbe bastare a far cambiare idea a quanti su Twitter gridano al “troll” quando vengono ripresi o offesi da sconosciuti. Non è così. Quelli sono hater, o semplici utenti arrabbiati. Qui invece, l’abbiamo detto, stiamo parlando di “arte”.

    Fauna “ubiqua e invisibile” (nella definizione di Whitney Phillips), oggi i troll prediligono due ambienti in particolare: la bacheca /b di 4chan e i gangli meno mainstream di Reddit. Il primo è l’image board dedicata al “random” del sito 4chan.org, un sovrarregno in cui ogni utente è “Anonymous” (da cui il gruppo di hacktivism) e le regole non esistono: qui gira materiale pedopornografico e immagini truculenti, qui sono nati i migliori meme di internet – una convivenza tra alto e basso, lecito e illecito senza precedenti. Il secondo è il suo cugino dalla faccia più pulita e candida: attivo politicamente, altruista, pieno di Gif buffe ma anche di sezioni (dette subreddit) dedicate alla condivisione di immagini di minorenni (come quella dominata dall’utente Violentacrez, “il più grande troll del web”, svelato nel 2012 da Adrian Chen di Gawker).

    Ai primordi dell’era digitale, i “troll” erano moderatori dei forum Usenet che si divertivano a dare pessime indicazioni ai nuovi arrivati. Col tempo, la figura ha assunto spessore maggiore: “In quanto troll”, spiega l’introduzione della rivista, “un soggetto afferma la totale padronanza della cultura di internet [...]. Esalta la propria diversità in un gioco a posizioni che muove e accumula capitale sociale, tecnologico e culturale. Si fa burattinaio mantenendo il controllo delle proprie emozioni e interrogando gli altri sullo stato delle altrui convinzioni: ‘u mad?’” Ovvero: sei arrabbiato? Ti ho forse turbato? Oh, non volevo farlo.

    Alla base dello strano humour apprezzato dai troll c’è la “logica dei lulz”, la risata ai danni altrui, “l’utilizzo di umorismo e antagonismo per agitare le reazioni più cariche di rabbia e cambiare tono e contenuto della conversazione”. Azione e reazione: ogni troll esperimenta e attende, sistema trappole e le fissa da lontano. Sembra avere un sacco di tempo a sua disposizione.

    Un saggio di Andrew Whelan, ricercatore della Università di Wollongong, in Australia, spezza il trolling in tre parti: nella prima esso consiste in “una minaccia alla sfera pubblica, dove per sfera pubblica si intende un dialogo deliberatamente democratico”, che diventa “panico morale, precisamente il tipo di panico morale che i media hanno su se stessi”, e infine rimane “un rischio che deve essere corso”.
           
    Democrazia. Panico morale. Rischio. Ma c’è di più. Come ha raccontato Gabriella Coleman, antrolopologa impegnata nello studio della cultura hacker, “le azioni orientate ai lulz attaccano il nostro consenso sulla politica e l’etica, le nostre vite [...] e l’inviolabilità del mondo come lo conosciamo; i troll invalidano quel mondo suggerendo la possibilità che i geek di internet [sic] lo possano distruggere”. Non è quindi un caso che dal ventre del lulz sia nata LulzSec, organizzazione di hacker fuoriuscita da Anonymous che in pochi mesi del 2011 ha seminato il panico in un certo mondo attaccando il sito della Cia, il network della Playstation (Sony) e la News Corp. di Murdoch. Tre giganti di tre mondi diversi messi in ginocchi nel nome del lulz. L’energia del trolling è distruttiva – e ha il vizio di puntare in alto.

    E chi c’è più in alto del Commander-in-chief Barack Obama? Nel corso della campagna elettorale presidenziale del 2012, si sono diffuse su internet molte immagini che mostravano Obama in comportamenti poco patriottici: in un’immagine lo si vedeva fermo, le mani giunte, durante il saluto alla bandiera nel Giorno dei Veterani. Una foto falsa, che divenne meme trollone (qui un esempio) per arrivare dalle parti di Fox News ed esplodere nella blogosfera vicina la destra statunitense. The Fibreculture Journal dedica al cortocircuito propaganda-trolling un lungo saggio, intitolato appunto “Trolling Obama” il cui autore, Benjamin Burroughs dell’Università dell’Iowa, mette in fila questa e altre bufale: immagini in cui il presidente sembra fare il saluto comunista o pare stringere la mano in modo sospetto (comunista, of course). Strane catene di Sant’Antonio in cui gli Usa sembrano essere scivolati in un incubo socialista in cui tutti parlano spagnolo. Barack Obama è stato definito il primo “presidente da meme”, e a ragione; questo è il rovescio di quella medaglia. Il trolling del presidente, continua il saggio, “è facilitato dalle caratteristiche tecno-culturali dei meme, che si diffondono grazie la loro forma mimetica e un parziale anonimato”. In alcuni casi sono immagini prodotte da troll, palesemente ironiche, il cui destino virale è però già segnato. (Succede qualcosa di simile in Italia con il gruppo Facebook Siamo la Gente, il Potere ci temono, i cui fotomontaggi assurdamente cospiratori fanno spesso breccia tra le file turbo-grilline).

    La rivista torna spesso sul rapporto tra trolling e politica. Ciò non sorprende, in tempi in cui si straparla di democrazia del web, sognando una democrazia deliberativa (forma di governo nella quale la volontà del popolo viene espressa dal popolo stesso e non per via elettorale) perché i troll sono il nemico di questo sistema. Ci vivono dentro, lo usano, guadagnano la sua fiducia e poi lo attaccano. “Per essere considerati legittimi deliberatori, i soggetti devono internalizzare le regole di questa particolare forma di comunicazione” democratica, scrive Lincoln Dahlberg. I troll hanno questa caratteristica: si rifiutano di farlo.

    #smammatroll, quindi? Non proprio. La regola rimane sempre la stessa: “Don’t feed the trolls”, ma perlomeno cercate di capirli. Sono qui e resteranno.