Chi rallenta il miracolo messicano del “renziano” Peña Nieto
Il ministro delle Finanze del Messico, Luis Videgaray, ha fatto l’università al Mit di Boston. E’ un fatto strano per un paese, il Messico, la cui intellighenzia ha studiato tutta a Harvard o a Yale. Gli ultimi presidenti hanno tutti almeno un master in una delle due università americane – e per la leggenda nera dell’opposizione di sinistra questa è una delle prove più stringenti che chi comanda a Città del Messico è servo dei gringos. Alcuni dei predecessori di Videgaray (compreso l’attuale governatore della Banca centrale) hanno studiato nella Chicago dell’ortodossia liberista, ma mai nessuno al Mit.
Il ministro delle Finanze del Messico, Luis Videgaray, ha fatto l’università al Mit di Boston. E’ un fatto strano per un paese, il Messico, la cui intellighenzia ha studiato tutta a Harvard o a Yale. Gli ultimi presidenti hanno tutti almeno un master in una delle due università americane – e per la leggenda nera dell’opposizione di sinistra questa è una delle prove più stringenti che chi comanda a Città del Messico è servo dei gringos. Alcuni dei predecessori di Videgaray (compreso l’attuale governatore della Banca centrale) hanno studiato nella Chicago dell’ortodossia liberista, ma mai nessuno al Mit. Per questo, quando a marzo l’Economist ha fatto un lungo ritratto di Videgaray, definendolo “la mente dietro alle grandi riforme economiche del presidente Peña Nieto”, lo ha chiamato “l’uomo del Mit”, per dire che il nuovo corso del Messico è anche filosofico, che la visione del nuovo governo si discosta dalle basi ideologiche della generazione di tecnocrati che l’aveva preceduto, che avevano fatto del Messico un paese di stabilità e bassa inflazione, ma dalla crescita anemica. Anche Peña Nieto si discosta dalla tradizione dei suoi predecessori, lui in America non ha mai studiato, ha preferito le solide università messicane, e in campagna elettorale ha usato quest’argomento per accentuare la sua diversità. A marzo sempre l’Economist guardava a questa diversità con perplessità quando Videgaray, che secondo alcuni è la vera mente politica dietro al governo di Peña Nieto, diceva che sì, il Messico è un’economia di mercato, ma che il governo deve contribuire a perfezionare l’economia perché i mercati, specie quando intrappolati in mille pastoie come quello messicano, “non si liberalizzano da soli”.
Peña Nieto è in carica da circa un anno e mezzo. In questi mesi il suo record impressionante di approvazione di riforme gli è valso le foto di copertina nelle riviste di mezzo mondo. All’inizio della sua legislatura da presidente ha stipulato un accordo di coalizione, il Pacto por México, con i due partiti d’opposizione, il Pan di centrodestra e il Prd di sinistra, e ha approvato la riforma della forma dello stato, quella dell’istruzione, quella elettorale, quella fiscale e bancaria, dell’energia, delle telecomunicazioni, dell’antitrust. Quasi tutte queste riforme hanno chiesto cambi nella Costituzione, alcune, come quella dell’istruzione, hanno provocato uno scontro aspro con i sindacati (che dal Pri, il partito del presidente, erano abituati a ricevere più mazzette che critiche), altre hanno distrutto alcuni tabù, come la riforma energetica che consente l’ingresso dei privati dentro al settore petrolifero, uno dei simboli del nazionalismo messicano finora tenuto sotto (inefficiente) regime di monopolio statale.
L’entusiasmo nei confronti di Peña Nieto è altissimo. Gli investitori sono deliziati, Moody’s ha alzato il rating del Messico ad A (meglio dell’Italia), i giornali sono tornati a parlare di “tigre azteca”, un vecchio cliché che non si sentiva dagli anni Novanta. Peña Nieto, giovane e molto mediatico, lontano dalle abitudini di una politica ritualizzata come quella messicana, personifica il cambiamento in corso, come accade con il premier italiano Matteo Renzi e a quello francese Manuel Valls è considerato come uno degli esponenti della nuova generazione di politici di centrosinistra (anche se in Messico in pochi definirebbero il Pri, un vecchio leviatano della politica, come propriamente di sinistra), anagraficamente e ideologicamente diversi dai predecessori.
Sono in molti però a predicare prudenza prima di gridare al miracolo messicano. Le riforme di Peña Nieto, seppur grandiose, hanno un grosso problema: sono state approvate dal Parlamento in via definitiva nella loro forma generale, ma quasi tutte mancano ancora delle “leyes secundarias”, dei provvedimenti attuativi, e al momento sono inattive, o quasi. E’ dalle leyes secundarias che dipende il successo delle riforme di Peña, ed è a esse, più che ai princìpi generali espressi nel testo iniziale, che gli analisti guardano. In questi giorni sono in discussione due delle riforme più importanti della legislatura, e il loro percorso difficile ha fatto capire agli investitori che per il Messico la via dell’innovazione è ancora lunga, e che molti dei vecchi nemici non sono ancora sconfitti.
[**Video_box_2**]Nelle settimane scorse la riforma delle telecomunicazioni, importante in un paese dove sia la televisione sia la rete telefonica sono in un regime di quasi monopolio (quest’ultima è nelle mani di Carlos Slim, che ora vuole entrare anche nel business televisivo), è stata attaccata dall’opposizione di sinistra, che si è rifatta a vecchi cliché (la vicinanza storica tra il Pri e Televisa, il principale canale televisivo del paese, che risale ai tempi della dittatura e che è un classico con cui la sinistra attacca qualsiasi presidente), ma che è stata aiutata dal governo quando ha inserito tra le leggi attuative anche alcuni provvedimenti facilmente strumentalizzabili sulla restrizione e l’uso da parte del governo dei contenuti su internet. Centinaia di ragazzi dalle università hanno manifestato davanti al palazzo presidenziale a Città del Messico e davanti alla sede di Televisa contro le leggi “censorie”, l’hashtag #penavsinternet è diventato virale, l’immagine del presidente ha subìto un colpo, e fino a che i provvedimenti su internet non sono stati ritirati tutto il lavoro del governo è stato a rischio.
Per un altro provvedimento, quello sull’Antitrust, le critiche sono arrivate da destra. L’opposizione di centrodestra (e ieri sul Wall Street Journal Mary O’Grady) definisce la “ley de Competencia económica”, approvata dal Parlamento venerdì, contraria al mercato perché con le sue norme di antitrust aggressive rischia di essere punitiva per le aziende che hanno troppo successo – con il risultato, paradossale, che un governo accusato di essere al soldo dei poteri forti viene condannato per un progetto che questi poteri li aggredisce troppo duramente. Anche O’Grady ha fatto riferimento all’educazione “eclettica” di Videgaray e ha commentato con preoccupazione le idee sul mercato che il ministro aveva già raccontato all’Economist.
Rallentate da un percorso legislativo tortuoso, boicottate dalle corporazioni e dai gruppi di interesse, le riforme del governo messicano impiegheranno anni per entrare tutte a regime. Ma nel frattempo Peña Nieto e Videgaray devono trovare il modo di sostenere un’economia ancora molto fragile. Le previsioni di crescita al 3,9 per cento del pil potrebbero essere viste al ribasso, mentre gli investimenti pubblici provocheranno per l’anno prossimo un aumento del deficit. Quello del miracolo messicano è un progetto che richiede una lunga preparazione.
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