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In Iraq Maliki vince le elezioni ma ora deve cercare degli alleati
In Iraq il primo ministro Nouri al Maliki si è aggiudicato la maggioranza dei voti dopo le prime elezioni presidenziali dal ritiro delle truppe americane dal paese. Secondo i primi dati parziali (quelli definitivi sono attesi nelle prossime settimane), il partito sciita del primo ministro uscente ha ottenuto almeno 93 seggi. Maliki ha distanziato così i rivali sciiti guidati da Muqtada Sadr, che ha raccolto 28 seggi, e il Supremo consiglio islamico dell'Iraq, al quale sono andati 29 seggi.
Leggi anche Raineri e Peduzzi Senti l'Iraq come viene giù
In Iraq il primo ministro Nouri al Maliki si è aggiudicato la maggioranza dei voti dopo le prime elezioni presidenziali dal ritiro delle truppe americane dal paese. Secondo i primi dati parziali (quelli definitivi sono attesi nelle prossime settimane), il partito sciita del primo ministro uscente ha ottenuto almeno 93 seggi. Maliki ha distanziato così i rivali sciiti guidati da Muqtada Sadr, che ha raccolto 28 seggi, e il Supremo consiglio islamico dell'Iraq, al quale sono andati 29 seggi.
Sebbene la vittoria di Maliki sia netta (solo a Baghdad ha raccolto oltre un milione di consensi), potrebbe non essere sufficiente per creare una coalizione di partiti che appoggi la sua candidatura come premier. Secondo la costituzione irachena, infatti, sono necessari i due terzi dell'assemblea parlamentare per eleggere il nuovo primo ministro. Il Supremo consiglio islamico dell'Iraq, così come gli sciiti di Mukhtada Sadr, si oppongono invece alla rielezione per un terzo mandato di Maliki.
Riproponiamo di seguito l'articolo scritto alla vigilia delle elezioni da Daniele Raineri e Paola Peduzzi, "Senti l'Iraq come viene giù", su Maliki e la sua sfida di mantenere unito il paese.
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L’ufficio di Nouri al Maliki, premier dell’Iraq, è una stanza disadorna, senza umanità e priva di finestre, perché così i vetri non possono infrangersi se scoppia una bomba lì vicino. E a Baghdad, di bombe ne scoppiano tante, di continuo, il 2014 è appena iniziato ma sembra già uno degli anni più violenti dell’ultimo decennio. Quando Maliki ha incontrato Dexter Filkins, reporter di guerra che non ha bisogno di presentazioni, s’è sentito uno scoppio, nell’ufficio, i bicchieri con dentro il tè hanno tremato, dopo un attimo di silenzio – racconta Filkins sul New Yorker – Maliki ha chiamato un suo collaboratore: “Vai a vedere di cosa si tratta”. Era una delle otto esplosioni che, soltanto in quel giorno, colpirono Baghdad.
Maliki è candidato alle elezioni parlamentari di domani (le prime senza la supervisione degli americani), vuole conquistare il terzo mandato dopo otto anni al potere e c’è chi dice che, se dovesse farcela, “non se ne andrà più”. Lui resta impassibile di fronte a ogni speculazione, dice che se lo merita, un altro incarico, perché è riuscito in un’impresa difficile, “ho tenuto unito l’Iraq”. Il premier è un sessantenne di poche parole che ha studiato teologia e letteratura araba, che voleva fare l’insegnante, che ama le formalità, si presenta in pubblico quasi esclusivamente in giacca e cravatta, parla sempre con lo stesso tono di voce e il corpo immobile, “non sorride mai, non dice mai ‘grazie’, non l’ho mai sentito dire ‘scusa’”, come ha detto, senza voler essere troppo malevolo, un suo collaboratore. Maliki è il simbolo della “rinascita sciita”, che è anche il lascito più grande della guerra contro Saddam Hussein degli americani e dei loro alleati: era dal Diciottesimo secolo che gli sciiti, in questa terra di Mesopotamia, non guidavano un esecutivo. E Maliki stesso è il lascito più grande della guerra contro Saddam Hussein: fu proposto nel 2006 da un analista della Cia all’allora ambasciatore americano a Baghdad, Zalmay Khalilzad, che doveva fornire a Washington un’alternativa all’“incompetente” ex premier Ibrahim al Jaafari e all’altro uomo forte del momento, Ali Adeeb, che però era iraniano. Maliki allora non lo conosceva nessuno, ma era “pulito”, secondo l’intelligence americana, ed era “un duro”. Continua a leggere.
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