Ve lo meritate, il lepenismo
Chi l’avrebbe mai detto che quell’uomo che cadeva da un palazzo di 50 piani nel prologo de “L’Odio”, commentando a ogni piano “fino a qui tutto bene, fino a qui tutto bene”, fosse in realtà il corpo esausto della vecchia Francia moralista, custode dei valori della République. Il problema non è la caduta, ma l’atterraggio. Dove a godersi lo spettacolo ci sarà una raggiante Marine Le Pen ormai stabilmente accampata a ridosso della cittadella del potere. In un ultimo incrocio di sguardi, prima dello schianto finale, sicuramente il corpo in caduta libera penserà: “Ma come è potuto accadere?”.
di Adriano Scianca
Chi l’avrebbe mai detto che quell’uomo che cadeva da un palazzo di 50 piani nel prologo de “L’Odio”, commentando a ogni piano “fino a qui tutto bene, fino a qui tutto bene”, fosse in realtà il corpo esausto della vecchia Francia moralista, custode dei valori della République. Il problema non è la caduta, ma l’atterraggio. Dove a godersi lo spettacolo ci sarà una raggiante Marine Le Pen ormai stabilmente accampata a ridosso della cittadella del potere. In un ultimo incrocio di sguardi, prima dello schianto finale, sicuramente il corpo in caduta libera penserà: “Ma come è potuto accadere?”. A spiegarglielo ci proverà Pierre-André Taguieff, uno dei maggiori politologi europei, direttore di ricerca al Centro nazionale francese per la Ricerca scientifica e docente all’Istituto parigino di Studi politici. Il 15 maggio è uscito in Francia “Du diable en politique. Réflexions sur l’anti-lepénisme ordinaire” (Cnrs, 400 pp., 22 euro), in cui Taguieff racconta alla rive gauche il suo più grande fallimento: l’incomprensione totale e infine suicida del lepenismo montante.
“La sinistra francese – ci spiega lo studioso – utilizza sempre la retorica della demonizzazione, anche se essa ha fallito. Si continua a lanciare imprecazioni e a sgranare cliché: ‘Il Fn non è cambiato’, ‘Il Fn avanza camuffato’ etc. La maggior parte degli attori politici, degli editorialisti e degli intellettuali di sinistra persevera, senza dar mostra della minima immaginazione, nel discorso della denuncia e dello smascheramento, pretendendo di svelare ‘il vero volto del Fn’, lasciando intendere che esso sarebbe ‘fascista’ e ‘razzista’. Lo stesso ritornello è ripetuto da trent’anni. Questi riflessi condizionati ideologici sono pietosi”. La demonologia repubblicana sconfina presto e volentieri nella psicopatologia, laddove il lepenismo, oltre che eternamente cangiante, diventa anche ubiquitario: “C’è un altro stereotipo – spiega Taguieff – che è di moda a sinistra: la denuncia della ‘deriva a destra’ (droitisation) della società francese, della quale ‘l’ascesa’ del Fn sarebbe la prova. Ma l’argomento della deriva a destra, supponendo l’esistenza di una egemonia delle ‘idee di destra’ (che restano da definire), permette anche agli eredi residuali del comunismo e del goscismo di mettere sotto accusa la politica della sinistra al potere, ovvero di negarle la sua identità ‘di sinistra’. Così, Manuel Valls rappresenterebbe la ‘deriva a destra’ del Partito socialista. Gli ambienti neogoscisti, in particolare, il cui antirazzismo settario si traduce in uno strano partito preso immigrazionista (ovvero l’elevazione della causa degli immigrati a causa universale), accusano la sinistra di governo di fare una politica ‘neoliberale’ (uno dei nuovi volti del diavolo), di abbandonare ‘il popolo’ (o le ‘classi popolari’) in vantaggio dei ricchi e di scivolare verso la xenofobia o il razzismo anti immigrati, allineandosi alle presunte posizioni del Fn. Da qui i nuovi cliché argomentativi: la sinistra imita la destra, che a sua volta imita l’estrema destra. Detto altrimenti: le ‘idee del Fn’ (per parlare come i sondaggisti) avrebbero ‘contaminato’ l’insieme del campo politico.
La Francia sarebbe in stato di lepenizzazione avanzata. Un tale discorso è cieco rispetto alla realtà ideologico-politica: non solo il Fn è ostile tanto al ‘neo liberalismo’ che al Partito di sinistra di Jean-Luc Mélenchon o al Npa, ma pretende di incarnare la causa del popolo, anzi di monopolizzarla. Si denuncia con una continua litania la ‘deriva a destra’ senza sapere di che si sta parlando. Di quale ‘destra’ si parla? Del liberalismo, del tradizionalismo reazionario o del conservatorismo? E, nel dettaglio, di quale liberalismo e di quale conservatorismo?”.
Inutile cercare un senso che non c’è, in ogni tempo l’inquisizione ha saputo proporre un uso crudelmente sottile della logica aristotelica: “Al cuore della demonizzazione classica del Fn – continua Taguieff – si trova un sillogismo, tematizzato o meno, così formulabile: ‘Il Fn è di estrema destra; l’estrema destra è razzista (e/o antisemita); il Fn è razzista (e/o antisemita)’. Nella seconda proposizione, ‘razzista’ può essere rimpiazzato da ‘fascista’ o ‘nazista’, il che permette di concludere che il Fn è un partito ‘fascista’ o ‘nazista’. ‘F come fascista, N coma nazista’, recita uno slogan emblematico (e derisorio) dell’antilepenismo goscista. Ma si tratta di un anatema, non di una dimostrazione”. Sullo sfondo c’è il graduale slittamento del paradigma antifascista dalla politica alla religione. Un’oasi di mistica nell’oceano del disincanto. E’ quello che Taguieff definisce neo-antifascimo: “Chiamo ‘neo-antifascismo’ l’appello a lottare contro ‘il fascismo’, ritenuto la minaccia principale che pesa sulla democrazia, nell’assenza di ogni fascismo osservabile. Il neo-antifascismo, macchina da denuncia dei ‘fascismi’ immaginari, sopravvive nell’antilepenismo redentore, eretto a metodo di salvezza, che non ha niente a che vedere con una lotta intellettuale e politica contro il Fn condotta in buona fede, consapevole delle cause e preoccupata della propria efficacia. Dopo il 1945, la trasmissione della cultura antifascista ha generato un sistema di rappresentazioni e di credenze centrato sulla paura fantasmatica della ‘rinascita’ o della ‘risorgenza’ del fascismo. Il neo-antifascismo ordinario postula che ‘il fascismo’ non cessa di rinascere o di minacciare di rinascere. Esso continua a immaginare nuovi fascismi minacciosi di fronte ai quali chiama alla ‘resistenza’. Questi fascismi inventati gli permettono di costruire l’odioso nemico contro il quale pretende di lottare e che dà un senso al suo impegno. Il neo-antifascismo tende dunque a ridurre l’impegno politico in democrazia a una vigilanza permanente contro una minaccia fascista immaginaria. Questa politica fantasmatica è una impolitica”.
Ciò che è caratteristico del neo-antifascismo, non è “il fatto che chiama a lottare contro il ‘fascismo’, ma la sua propensione ad accusare ogni avversario o contraddittore di essere legato in qualche maniera con il ‘pericolo bruno’, di imitare le proposte tipiche di quest’ultimo, di prendere da lui in prestito un tema, una analisi o una rivendicazione, di mostrare accondiscendenza nei suoi riguardi etc. A quel punto, il cerchio della demonizzazione non cessa di allargarsi. Sospettata di essere ‘contaminata’ dall’estrema destra o di ‘imitarla’, la destra liberale e moderata entra nel cerchio delle entità demonizzabili. Ma l’estensione del campo della demonizzazione è senza limiti. Quando mostra un certo senso del reale, un gusto troppo pronunciato per la verità o un certo spirito di responsabilità, la sinistra stessa è demonizzabile”. Antifascismo senza fascismo, la nuova inquisizione è anche stalinismo senza Stalin, senza l’Urss e senza il gulag, ma con gli stessi meccanismi psico-politici: “Il neo-antifascismo è stato uno strumento di creazione continua del consenso di base nelle democrazie pluraliste. Istituiva un assoluto nello spazio del relativo. Insufflava un surrogato di trascendenza nella prosa di un mondo strettamente pragmatico. Legittimava la formazione implicita, non dichiarata, dei ‘fronti repubblicani’. Ma, soprattutto in Francia, l’operazione è stata fatta a beneficio della sola sinistra.
E’ lei che, di fronte a ogni figura del diavolo, aveva il ‘consenso in pugno’ (Philippe Muray) quando si trattava di vincere le elezioni. Sottomessa a un perverso ricatto della virtù e ansiosa di non mostrarsi mentre ‘perde la propria anima’, la destra ha per molto tempo seguito a ruota. In futuro potrebbe non essere più così. Il neo-antifascismo ha per molto tempo costituito il più frequente modo di demonizzazione dell’avversario, in Francia come nella maggior parte dei paesi occidentali. Denunciare l’avversario come ‘fascista’ o ‘nazista’ significava delegittimarlo in maniera massimale. Ma ormai il re è nudo. E’ sempre più evidente che il neo-antifascismo è ciò che resta del comunismo sovietico negli spiriti. La sua sconfitta, in quanto strategia anti-Fn, è totale. Il suo principale effetto perverso è eloquente: la demonizzazione ha permesso al Fn, utilizzando la stigmate del suo statuto di escluso demonizzato, di affermarsi contro tutti gli altri partiti, per presentarsi come una alternativa seducente”.
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Christopher Lasch, ribaltando il monito aristocratico di Ortega y Gasset sulla ribellione delle masse, preconizzò la ribellione delle élite. Salottiera per definizione e per stereotipo, la Francia ha sperimentato già negli anni Venti il “tradimento dei chierici” di cui parlava Julien Benda. Di questa casta intellettuale che tradisce la propria funzione di avanguardia autodesignata del maurassiano pays réel, l’antilepenismo è l’espressione massimale e terminale. Per Taguieff “ci sono in effetti tre France estranee e ostili le une rispetto alle altre: la Francia urbana delle élite mondializzate, la Francia periferica delle classi popolari (comprendente una parte importante delle cosiddette classe medie), la Francia delle banlieue dove si concentra la popolazione proveniente dall’immigrazione. Il sentimento di alienazione affligge particolarmente i cittadini che abitano la Francia periferica e che si percepiscono prima di tutto come francesi. Costoro si sentono odiati dalle élite nomadi che vivono in un mondo post nazionale, abbandonati o negletti da una classe politica rivolta verso l’Europa e in situazione di concorrenza con gli immigrati venuti dal Maghreb o dall’Africa sub-sahariana. Questo sentimento di alienazione può prendere la forma del doppio sentimento di essere spossessati e colonizzati. Ciò costituisce certamente una delle più forti motivazioni per votare Fn. La sinistra non comprende la situazione e rifiuta di prenderla in considerazione, perché per far questo dovrebbe togliere i suoi occhiali ideologici. Essa ha perso le classi popolari, ma non si chiede mai perché. Pone i suoi dogmi sopra a tutto il resto, presentendo oscuramente di essere impotente di fronte al proprio declino. Per loro è certamente più comodo stigmatizzare i cittadini ‘lepenizzati’ o ‘destroidi’ che si allontanati dalla sinistra”.
Qualcosa di simile, in verità, lo conosciamo anche da queste parti. Cosa è stato in fin dei conti l’antiberlusconismo se non l’ironia e il disprezzo di una parte d’Italia verso un’altra, tale da impedire alla prima di formulare una alternativa credibile e vincente alla seconda? L’antiberlusconismo – che spesso si è in effetti crogiolato con giochi di sponda parigini – non è forse gemello omozigote dell’antilepenismo? “Sì, in effetti”, ammette Taguieff. Che aggiunge: “In Francia, dalla metà degli anni Ottanta, l’antilepenismo è l’oppio delle élite. Costituisce la bevanda ideologica che le solleva e le addormenta, confortandole nell’idea che appartengano al campo del Bene. L’antilepenismo, inoltre, gioca il ruolo di surrogato di un programma politico. Esso maschera l’impotenza intellettuale della sinistra, privata delle illusioni mobilitanti del comunismo. ‘Socialismo’ non è che una parola vuota, una etichetta a malapena identificante, una bandiera scolorita. L’ossessione antilepenista, inoltre, conduce a porre le proposizioni lepeniste al centro del dibattito politico, il che equivale a una sconfitta intellettuale dei partiti di destra e di sinistra”.
Ma attenzione: “La differenza principale tra antilepenismo e antiberlusconismo è che il primo ha totalmente fallito. Questo scacco è prima di tutto quello della sinistra, che negli anni 1984-85 aveva creduto, creando un mostro repulsivo (di ‘estrema destra’ o di ‘destra estrema’), di essersi dotata dell’arma decisiva contro la destra. E, di fatto, grazie a un Fn forte, la sinistra ha esercitato un ricatto permanente sulla destra liberale, sospettata continuamente di avvicinarsi al ‘diavolo’ lepenista. Ma, ormai, l’arma si è rivolta contro il Partito socialista, che si è dovuto confrontare con un neo-lepenismo attrattivo per le classi popolari”. La secessione del popolo dalla sinistra è in effetti il problema dei problemi, sperimentato in forma decisamente meno sistematica, in Italia, anche in alcuni exploit leghisti e comunque al centro delle ossessioni, per esempio, di un Michele Serra, che non riesce a capacitarsi del perché, nei film di Checco Zalone, tutti i personaggi progressisti siano inevitabilmente ricchissimi e stronzissimi.
In Francia il Front national ha saputo non solo porsi come sindacato etnico e nazionale, comprendendo il dramma dei petit blanc, ma ha anche spostato l’asse dei suoi contenuti ideologici e programmatici a sinistra del Partito socialista, creando un rompicapo praticamente insolubile per l’antilepenismo isterico, basato per definizione sul riduzionismo e la semplificazione brutale della realtà. “Il Fn – continua Taguieff – è una formazione politica divenuta inclassificabile nei termini di destra o sinistra. Si tratta di un movimento nazionalista la cui specificità risiede nello stile populista del suo leader e fondatore, Jean-Marie Le Pen, di cui la figlia Marine ha preso il testimone spostando nettamente a sinistra il programma economico e sociale del partito. Non è una novità nella storia delle dottrine politiche: dalla fine del XIX secolo, la maggior parte dei movimenti nazionalisti combinano nei loro programmi motivi e argomenti ideologici improntati a tutte le tradizioni politiche, dal tradizionalismo controrivoluzionario all’anticapitalismo rivoluzionario, passando per il conservatorismo e il socialismo. Ogni nazionalismo si situa per principio al di là dell’opposizione tra destra e sinistra. E’ un tratto che il nazionalismo alla francese ha ereditato dal bonapartismo, il cui appello al popolo va di pari passo con l’obbiettivo di un raggruppamento interclassista, trasfigurato dalla comunità nazionale, incarnazione del nuovo sacro politico”. Decisamente troppo complesso, per gli unti del Bene assoluto. Meglio ricondurre l’ignoto al noto, la realtà all’ideologia, la politica alla vigilanza. Il resto andrà da sé. Fino a qui tutto bene. Fino a qui tutto bene.
di Adriano Scianca
Il Foglio sportivo - in corpore sano