Horror arabo per Obama

Redazione

Ieri lo Stato islamico ha preso altre due città irachene, dopo avere conquistato tutta la parte ovest di Mosul due giorni fa. Una è Baiji, una città-raffineria che qualche anno fa era anche la sede di un’importante base militare americana.

di Daniele Raineri e Paola Peduzzi

Ieri lo Stato islamico ha preso altre due città irachene, dopo avere conquistato tutta la parte ovest di Mosul due giorni fa. Una è Baiji, una città-raffineria che qualche anno fa era anche la sede di un’importante base militare americana. I suoi abitanti si sono svegliati e hanno scoperto che nella notte le forze di sicurezza avevano abbandonato i checkpoint e che una colonna di sessanta mezzi di guerriglieri stava facendo il suo ingresso. L’altra è Tikrit, luogo di nascita del dittatore Saddam Hussein e anche centro di potere dei clan sunniti. Anche lì le forze del governo centrale hanno opposto una resistenza quasi nulla, e il governatore è caduto prigioniero.

 

 

Lo scopo dello Stato islamico coincide con il suo nome: creare un territorio governato da un solo Califfo secondo il modello dei primi compagni del profeta Maometto, uno stato che torni a governare secondo quello che considerano il canone dell’islam vero e si espanda seguendo un modello ultraviolento di proselitismo armato (“chi non è con noi allora è contro di noi e merita di morire”). Lo Stato islamico sta riuscendo e sta creando uno spazio non riconosciuto da nessuna carta ma ormai ampio più della Crimea, o del Qatar o del Bahrein. Il fatto che sia stato ritagliato da una zona arida a cavallo tra Iraq e Siria, per di più in preda alla violenza negletta della rivoluzione siriana, lo aveva finora protetto dall’attenzione dei media. Ora però sta diventando difficile da ignorare. Dal capoluogo di governatorato di Raqqa, in Siria, al capoluogo della provincia di Ninive, Mosul, in Iraq, un territorio ampio cinquecento chilometri è completamente in mano ai combattenti dello Stato. A questo spazio vanno aggiunte altre enclave, lungo il confine turco, attorno alla città di Aleppo, nella valle dell’Eufrate, nelle città di Fallujah e Abu Ghraib – a pochi chilometri dalla capitale irachena Baghdad – e a est nella provincia di Baquba, che confina direttamente con l’Iran persiano e sciita (quindi nemico).

 

 

Il fatto che in quarantott’ore siano cadute tre città sotto il controllo dello Stato islamico è una scena horror per la politica estera dell’Amministrazione americana in medio oriente. Il presidente americano Obama aveva una linea precisa sulla Siria: “Non aiutiamo i ribelli contro il presidente Bashar el Assad perché potremmo senza volerlo aiutare i jihadisti”. Una linea di pensiero molto apprezzata: nell’agosto del 2013, quando l’attacco con i missili contro Assad sembrava imminente, su Twitter circolavano foto di avieri americani che reggevano il cartello: “Non voglio essere l’aviazione di al Qaida”. Una parte del governo americano insisteva per aiutare i siriani moderati, almeno 14 mesi prima del massacro con il gas alla periferia di Damasco: l’allora segretario di stato Hillary Clinton, l’allora capo della Cia David Petraeus, l’allora capo del Pentagono Bob Gates, l’allora ambasciatore americano in Siria Robert Ford. Il presidente restò della sua idea. Sull’Iraq, Obama invece appoggia per riflesso automatico il primo ministro iracheno Nouri al Maliki, anche se quello trascura i sunniti, non concede loro lavori ed elettricità, soffoca le proteste con la violenza, li lascia ai margini e accende il loro malcontento (eufemismo). Il fatto che i sunniti potessero progressivamente essere indifferenti allo Stato islamico e non percepirlo come una minaccia, rispetto al governo, ora non dovrebbe sorprendere. Eppure la Casa Bianca ha approvato, concedendo armi, intelligence, elicotteri da guerra, caccia F-16. Se aiutare i ribelli siriani avrebbe aiutato lo Stato islamico, allora perché oggi lo Stato islamico è più forte che mai? Perché aveva altre fonti di finanziamento, altri sponsor, altri sostenitori. A trovarsi ridotti male sono i ribelli siriani, che da gennaio sono i soli a fare la guerra sul campo contro lo Stato islamico. L’Amministrazione Obama ieri ha promesso che manderà altri 300 missili Hellfire, milioni di armi leggere e accelererà l’invio dei caccia. Il problema era però prima. Ora è tardi. Come in Siria.

 

 

Nel 2006, all’atto della fondazione, lo Stato era un’utopia cruenta. Oggi contiene pozzi di petrolio e raffinerie, sia sul lato siriano sia su quello iracheno e – se esistesse agli occhi dell’occidente e non fosse sulla lista internazionale del terrorismo – potrebbe ambire a un posto nell’Opec. Dentro questa area, gli appartenenti allo Stato islamico si muovono senza più passaporti – alcuni li bruciano davanti alle telecamere in cerimonie collettive piene di sprezzo – e riconoscono come autorità soltanto i loro emiri, nominati dal comandante in capo, Abu Bakr al Baghdadi (che ora i media internazionali cominciano a definire “il jihadista più potente di tutti, anche più di Ayman al Zawahiri, il capo di al Qaida”).

 

 

L’espansione armata dello Stato ha creato un gruppo misto di nemici che in teoria si odiano fra loro, ma che in pratica metteranno da parte le divergenze per fronteggiare gli uomini di al Baghdadi, anche se collaboreranno da lontano: l’Iran e Israele, il governo siriano e i ribelli siriani, l’America e al Qaida, l’Arabia Saudita e l’Iraq, la Turchia e i curdi, e infine Israele. Lo Stato islamico è un nemico mortale di al Qaida perché la vecchia guardia ha capito che i nuovi vogliono prenderne il posto, di fatto. E’ nemico dei rivoluzionari siriani perché ha occupato grandi aree della Siria da loro strappate al controllo del presidente Bashar el Assad. Dell’Iran perché considera gli sciiti siriani come eretici pericolosi, meritevoli di essere uccisi. Dell’America perché annuncia nei video che la colpirà seguendo l’esempio di Osama bin Laden. Dell’Arabia Saudita perché minaccia la casa regnante dei Saud con l’idea e la pratica sovversiva dell’islamismo militante. Di Israele, perché vuole cacciare gli ebrei e riconquistare la terra. Del governo siriano, perché sono alleati dell’Iran e sono un ostacolo sulla via del Califfato. Della Turchia perché ospita la Nato e si oppone, dei curdi perché si oppongono e tra loro ci sono comunisti.

 

 

Lo Stato islamico introduce nei discorsi sull’islam politico una serie di temi dibattuti con ardore su internet. Si può dire che esiste anche se non ha il pieno controllo del suo territorio e del suo spazio aereo e gli aerei nemici possono sorvolarlo e colpirlo? Sì, alla stessa stregua degli stati infedeli, che non cessano di esistere anche se spiati da satelliti stranieri. Se lo Stato islamico è – appunto – uno stato (dawlah) e non un gruppo come tutti gli altri (jamaat), deve obbedire agli ordini del capo di al Qaida, l’egiziano Ayman al Zawahiri? No, uno stato non s’inchina a un gruppo e si deve considerare sciolto da ogni vincolo. Che fare dei confini nazionali che attraversano lo spazio controllato dallo Stato islamico? Devono essere ignorati, perché sono linee artificiali imposte dai colonialisti europei e sono state disegnate da Sykes e Picot – i cui nomi sono detestati sui forum del jihad (ieri su twitter i jihadisti di lingua inglese dello Stato islamico avevano l’hashtag #SykesPicotOver). E anche: gli uomini dello Stato islamico sono pericolosi devianti, con la loro mania di scomunicare chiunque non sia d’accordo con loro, e faranno la stessa brutta fine del Gia algerino, imploso per colpa della sua violenza, oppure sono i nuovi compagni del Profeta e stanno fondando il nuovo Stato islamico secondo l’ordine impartito da Maometto stesso, “aleikum bilSham”, andate nel Levante – dove con Levante s’intende la Siria?

 

 

All’indomani dell’attacco chimico di Assad contro il suo popolo, nell’agosto dello scorso anno, Edward Luttwak scrisse un articolo sulla Sunday Review del New York Times in cui spiegava che, a quel punto, “uno stallo prolungato” era “l’unico esito che può non danneggiare gli interessi americani”. Luttwak sosteneva che la sopravvivenza del regime di Assad sarebbe stata deleteria, ma anche la vittoria dei ribelli siriani sarebbe stata “estremamente pericolosa” per gli Stati Uniti e per i suoi alleati in medio oriente e in Europa a causa della presenza di numerosi gruppi islamisti che avrebbero cercato di costruire uno stato ostile all’occidente. Certo lo stallo può essere crudele, certo lo stallo si poteva evitare se ci si fosse impegnati in altro modo negli anni precedenti, quando ancora gli islamisti non avevano compreso la grande occasione che l’occidente stava loro concedendo, ma il realismo è, appunto, guardare la realtà così com’è, quindi “l’unico risultato che gli Stati Uniti possono incoraggiare è: un pareggio illimitato”. Così Luttwak consiglia all’Amministrazione Obama di rifornire i ribelli di armi soltanto quando Assad sembra forte, ma di fermare tutto non appena il regime sembra perdere terreno. Nessuno deve vincere, insomma, perché a quel punto l’unica alternativa possibile – e “chi se la prende con il cinismo passivo di Obama deve essere chiaro su questo” – è un’invasione americana che sconfigga sia Assad sia gli estremisti islamici variamente legati ad al Qaida.

 

 

Quando il New Yorker definisce Obama un “realista riluttante” in sostanza dice che il presidente americano ha accolto il consiglio fornito da Luttwak. La crisi siriana è stata affrontata da Washington come una questione d’efficienza: quanto è alto il prezzo dell’azione? Quanto quello dell’inazione? Anche nel momento di maggiore indignazione, anche quando infine l’azione è stata annunciata, il realismo ha riportato Obama sulla via dell’inazione. Che nelle parole del presidente assume la forma più diretta e comprensibile e perfino pop del “don’t do stupid shit”, non fare cazzate, ma che nella realtà si risolve in quel pareggio senza fine invocato da Luttwak. Negli ultimi mesi, da quando la strategia americana è risultata indigesta anche ai palati più cinici, Obama non ha fatto altro che giustificare l’inazione rivedendo al ribasso le sue ambizioni, e anche il ruolo dell’America nel mondo. A gennaio, in un’intervista al direttore del New Yorker David Remnick, il presidente aveva detto di non sentire l’esigenza di una nuova grande strategia, ma piuttosto di una comprensione dei fatti e di una reazione caso per caso. Uno dei suoi consiglieri più importanti (e chiacchieroni), Ben Rhodes, viceconsigliere per la sicurezza nazionale, l’ha messa così: “Per Obama, l’Iraq è stato definitivo, e ora anche la crisi siriana è vista attraverso quella lente. Abbiamo speso mille miliardi di dollari per tenere le truppe là per dieci anni, e non si può dire che c’è stata un’influenza positiva. Anzi, direi proprio che è il contrario”. Alla fine di aprile, il presidente ha detto che la sua politica estera “potrà forse non essere sexy” e “forse non risalta negli show della domenica mattina”, ma gli errori sono stati evitati. Obama si è dato una dottrina tutta sportiva in difesa dell’interesse americano, ispirata al baseball: “You hit singles, you hit doubles; every once in a while we may be able to hit a home run”, “a volte riesci a prendere la prima base, a volte prendi la seconda, ogni tanto puoi anche farcela a fare tutto il giro del diamante”. A volte vinci, a volte perdi, meglio il pareggio.

 

 

Nell’ultima stagione della serie tv “24”, c’è una vedova con un irresistibile accento british che mette figli e genero, variamente convinti, variamente feroci, variamenti scemi, al servizio della sua causa: suo marito, uno jihadista, è stato ucciso da un drone in un blitz americano e lei vuole vendicarlo dirottando i droni dell’esercito degli Stati Uniti e indirizzandoli contro una città europea. Quando il presidente americano viene informato del piano, chiede ai generali di tenere a terra tutti i droni, di non farli più volare. Ma quattro di questi velivoli non sono più sotto il controllo dell’esercito americano, sono già stati intercettati dalla vedova e sono nelle sue mani. Il presidente si tormenta tra la rabbia e la sorpresa e infine chiede al suo capo di stato maggiore se è davvero possibile che gli Stati Uniti siano riusciti a creare un sistema di difesa che può finire fuori dal controllo dei suoi stessi creatori. Il capo di stato maggiore abbassa lo sguardo, “Yes, sir”.

 

 

I droni sono l’emblema della politica estera di Obama. Laddove il presidente ha deciso che l’impegno militare americano non si sarebbe più realizzato attraverso i “boots on the ground”, la lotta al terrorismo è stata condotta prevalentemente attraverso attacchi con i velivoli senza pilota. In Pakistan, in Afghanistan, in Yemen, in Somalia, i droni americani hanno colpito i target della “kill list” di Obama, molti civili e anche un cittadino americano diventato predicatore di al Qaida la cui uccisione ha causato più di un tormento legale agli Stati Uniti. Quando l’opposizione alla politica dei droni è diventata protesta di fronte alla sede della Cia, l’Amministrazione ha deciso di ridimensionarla (a dire il vero Obama ne ha pubblicamente annunciato la fine, ma non è andata così), ma senza escogitare un nuovo modo per contenere la minaccia jihadista. Adesso, in questa serie di eventi che credevamo impensabili e che poi sono diventati realtà, gli iracheni chiedono a Obama di poter usufruire dei droni. Nel novembre e nel dicembre scorsi alcuni aerei senza pilota americani disarmati hanno sorvolato la provincia di Anbar per otto settimane (era il risultato della visita a Washington del premier Maliki, all’inizio di novembre) per fornire informazioni agli iracheni sui movimenti dello Stato islamico. Ma il gruppo di al Baghdadi ha continuato ad avanzare. E ora Baghdad chiede di nuovo: dateci i droni. Armati.

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