La rivoluzione deve attendere
La riforma della Pubblica amministrazione di Matteo Renzi – a meno di significativi interventi parlamentari al disegno di legge delega approvato ieri dal governo – non è destinata a passare alla storia come “rivoluzionaria”.
La riforma della Pubblica amministrazione di Matteo Renzi – a meno di significativi interventi parlamentari al disegno di legge delega approvato ieri dal governo – non è destinata a passare alla storia come “rivoluzionaria”, ossia volta a incidere sulla natura burocratica dello stato, sulla sua lentezza, sulle complicazioni, le rigidità o ad aumentare l’efficienza della macchina pubblica riducendone drasticamente i costi. Il decreto sulla semplificazione approvato ieri dal Consiglio dei ministri accanto al ddl delega, secondo quanto annunciato in serata dal premier Renzi, contiene norme sul “ricambio generazionale” con “l’obiettivo di creare 15 mila posti con la modifica dell’istituto di trattenimento in servizio”; dimezza inoltre il monte ore dei permessi sindacali. Ma ciò che [**Video_box_2**]per ora manca è soprattutto una forma di privatizzazione dei contratti del pubblico impiego, affinché il rapporto di lavoro statale sia simile a quello tra azienda e dipendenti privati. In primo luogo per i dirigenti. E’ poi discutibile che i funzionari, per la parte della retribuzione collegata al risultato, saranno compensati con criteri legati alla dinamica del prodotto interno lordo e con premi forfettari annuali. Per le attività non dirigenziali, la riforma non prevede una forma di retribuzione legata al rendimento. Mancano forme di flessibilità efficaci, come quelle riguardanti una vera mobilità del personale, su cui si era accesa una discussione tra governo e sindacati (lo spostamento di un dipendente di cinquanta chilometri è acqua fresca).
L’attenzione del governo, per il momento, sembra concentrarsi sul benessere sociale dei burocrati, piuttosto che sulla loro efficienza. Lo testimonia l’enfasi posta sulla “conciliazione dei tempi di vita e di lavoro nelle amministrazioni pubbliche” (con riferimento anche alla possibilità di svolgere una parte del lavoro a domicilio, mediante tele-lavoro parziale o integrale). Insomma non infila il bisturi dove ci sarebbe bisogno. Dov’è la riduzione dei costi a parità di risultati o, almeno, il miglioramento di questi ultimi a parità di costi? Se ne desume che sarà molto difficile ricavare da questo decreto l’aggressione della spesa pubblica preventivata nel documento di programmazione economica (4,5 miliardi, nel 2014, 17 nel 2015, 32 nel 2016). Se Renzi non aggredisce il moloch statale non c’è modo di mantenere le promesse.
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