Sergio Marchionne (foto LaPresse)

In difesa dello sciopero

Redazione

E’ ragionevole pensare che le controversie tra i lavoratori di Grugliasco e l’azienda avrebbero potuto essere affrontate e risolte senza il ricorso a una forma di lotta, come lo sciopero, che ha perso di efficacia a causa dell’usura che ha subìto in decenni di esasperazioni del conflitto.

E’ ragionevole pensare che le controversie tra i lavoratori di Grugliasco e l’azienda avrebbero potuto essere affrontate e risolte senza il ricorso a una forma di lotta, come lo sciopero, che ha perso di efficacia a causa dell’usura che ha subìto in decenni di esasperazioni del conflitto. Però se si è arrivati a quel punto, probabilmente, è anche perché non si è attivato un canale di comunicazione efficace tra lavoratori e azienda, un canale che è comunque necessario e che per la verità aveva consentito a Sergio Marchionne di ottenere l’assenso della maggioranza dei lavoratori sul suo piano di ristrutturazione della Fiat e di fusione con Chrysler. Questa volta, però, Marchionne ha scelto di reagire con una specie di proclama che, in sostanza, punta soltanto a isolare la protesta dei lavoratori in sciopero, accusandoli indirettamente di “lavorare per la concorrenza”.

 

Alcune frasi di Marchionne suonano come un attacco non a questo o a quello sciopero, ma al diritto di sciopero in quanto tale: leggere che “non esiste nessun altro paese in Europa o nel mondo che permetta a una minoranza di danneggiare i diritti di tutti gli altri, specialmente il diritto al lavoro”, suscita una reazione polemica anche in chi non ha affatto la passione delle agitazioni sindacali. Naturalmente sarebbe utile ammodernare le relazioni sindacali, stabilire norme e filtri che evitino di esasperare conflitti che possono essere superati con forme arbitrali o anche solo con un impiego meno avaro del buon senso. Ciò detto, resta il diritto sacrosanto dei lavoratori a protestare astenendosi dal lavoro e perdendo il salario corrispondente. Dire che non bisogna abusare di un diritto, anche perché in quel modo si finisce col perdere gli effetti sperati e si rischia di diventare controproducente, è del tutto diverso dal proporsi di abolire un diritto che è basilare per mantenere aperta la dialettica sociale, che è un carattere essenziale di uno stato liberale moderno. Gli appelli alla collaborazione hanno un valore soprattutto se sono rivolti a una volontà libera di accettarli, altrimenti appaiono come una sorta di costrizione corporativa di cui non è proprio il caso di avere nostalgia, specialmente in una fase di internazionalizzazione così esplicitamente riconosciuta e abilmente praticata da Marchionne. La sua esperienza internazionale, però, dovrebbe avergli insegnato che, seppure in forme diverse, il conflitto sociale è una componente permanente, che concorre con l’opposta esigenza della collaborazione produttiva per mantenere la competitività. Trovare e gestire un equilibrio non paralizzante tra queste due tendenze è il compito del manager, compito che Marchionne ha svolto con efficacia e che non dovrebbe essere immiserito in uno scivolone retorico di sapore vagamente autoritario.

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