Ultimo varo per l'azienda navale Fincantieri di Castellammare di Stabia (Foto La Presse)

Alitalia e Fincantieri, i carrozzoni si rilanciano col mercato

Redazione

Il passaggio a Etihad e la quotazione (parziale) dei cantieri navali provano che “privatizzare” si può. Sentito Poste e Rai?

Roma. Con i suoi tifosi e detrattori, quella di Alitalia con Etihad è però – lo ha scritto ieri il Foglio – “una privatizzazione vera e giusta”. Più della prima dei capitani coraggiosi (che pure ebbe il pregio di togliere l’ex compagnia di bandiera dal piè di lista delle aziende pubbliche e dal marcamento a uomo di partiti e sindacati). Ma da che cosa si riconosce una privatizzazione?
In Alitalia una quota strategica della proprietà, ai limiti dei regolamenti europei, passa di mano e va sotto padrone. Il padrone è a sua volta una compagnia statale, e secondo i puristi la privatizzazione non c’è? Beh, per l’Italia è come se ci fosse: quello stato non è il nostro. E in fatto di business aereo ha dimostrato di saperci fare: non ragiona da carrozzone pubblico, benché abbondino dollari e carburante, ma in una stringente logica manageriale. Questo farà bene anche agli azionisti residui di Alitalia: privati industriali, banche, le Poste (quelle sì pubbliche e chiamate lì come il cavolo a merenda da Enrico Letta), Air France-Klm. Anche il 16 per cento del gruppo franco-olandese è ancora dello stato, che nomina con criteri amicali i suoi top manager. Restano gli esuberi: che a ben vedere costituiscono la prova provata della privatizzazione. Alitalia ha 13.700 dipendenti contro i 19 mila di Etihad, e passeggeri più che doppi. Ma è un’illusione ottica: la compagnia di Abu Dhabi fattura 6,1 miliardi di dollari e ha un utile di 62 milioni; Alitalia fattura 3,6 miliardi e ne perde mezzo. Per inciso, anche Air France è in profondo rosso: chi si comporta da padrone privato?

 

Ma in questi giorni un altro simbolo delle vecchie partecipazioni statali viene rimessa agli onori del mondo: la Fincantieri debutta il 3 luglio a Piazza Affari, la quotazione riguarda per ora solo una quota minoritaria, il resto rimane alla Cassa depositi e prestiti che l’ha rilevata assieme alla Fintecna, l’ultima mutazione dell’Iri. La Cassa ha già versato al Tesoro dieci miliardi per Fintecna, Sace e Simest, e dunque il ricavato, stimato in 1,8 miliardi, andrà alla ricapitalizzazione dell’azienda, che per tre anni non darà dividendi. L’obiettivo è soddisfare sei miliardi di commesse e strapparne altre alla concorrenza asiatica: Fincantieri è rimasto l’ultimo produttore navale dell’occidente. Insomma è il caso di dire che naviga in mare aperto, senza sussidi pubblici. Per arrivarci è stata però fatta pulizia: i 3,8 miliardi di fatturato erano 2,8 tre anni fa; l’utile di 85 milioni un rosso di 124, soprattutto i sei miliardi di ordini erano 1,9. La Fincantieri ha certo pagato la crisi, ma anche un’organizzazione obsoleta con 2.500 dipendenti e due impianti storici (Castellammare di Stabia e Sestri Ponente) di troppo. Anche in questo caso, se non privatizzazione totale, è lecito definirla operazione di mercato.

 

Che dire invece di ciò che si vuol fare per le Poste e la Rai? Per le prime, che operano in monopolio e con potere condiviso con i sindacati, la privatizzazione sarebbe in realtà una cogestione, che non lascia presagire né veri piani industriali né innovativi modelli di business. Eppure non è che lo Poste possano campare di rendita: il retail del risparmio è esercitato in convenzione per la Cassa depositi e prestiti, il settore merci è sempre più insidiato da colossi come Amazon. Per un gruppo di ben 144 mila dipendenti è logico chiedersi: “Where is the beef”, senza un po’ di mercato? Ancora peggio la Rai: a Viale Mazzini, con il doppio di dipendenti di tutti i concorrenti privati messi assieme, debiti per 800 milioni, non si arretra di un millimetro né sulle ventitré sedi regionali né sulle quattro reti generaliste, un’anomalia in Europa. Da anni si discute di privatizzazione della controllata Rai Way, ora si parla di un suo collocamento parziale in Borsa. Ma, appunto, non c’è privatizzazione senza tagliare i rami secchi, senza padroni e senza profitto. Anche l’Alitalia insegna.