Un algoritmo ti cambia la vita, ed è Facebook a decidere come
C’è l’algoritmo di Google, quello che decide se il tuo sito deve apparire alto o basso nelle ricerche su internet, c’è quello di Amazon, che decide quali libri metterti sotto gli occhi mentre fai shopping. Infine c’è l’algoritmo di Facebook, quello che modella la tua personalità.
C’è l’algoritmo di Google, quello che decide se il tuo sito deve apparire alto o basso nelle ricerche su internet, e ci sono storie infinite di business distrutti perché un bel giorno Google decide di fare un aggiustamento all’algoritmo, il tuo sito finisce nel limbo oltre pagina due e tu smetti di esistere su internet, ché se la gente non ti trova su Google, scordati che ti possa trovare in qualsiasi altro modo. C’è l’algoritmo di Amazon, che decide quali libri metterti sotto gli occhi mentre fai shopping, e qui il problema è per le case editrici, perché se non esisti nell’algoritmo di Amazon non esisti nella più grande libreria del mondo. Poi c’è l’algoritmo di Facebook, quello che modella la tua personalità.
Nel gennaio 2012 un gruppo di “data scientist” assunti da Facebook ha scelto a caso quasi 700 mila persone, 689.003 per l’esattezza, e per una settimana ha condotto un esperimento di “contagio emozionale”. Gli scienziati hanno modificato l’algoritmo di Facebook, quello che decide quali post mostrare nella bacheca degli utenti, in quale ordine e con quanta evidenza, per dividere i soggetti in due gruppi: ad alcuni Facebook ha mostrato soprattutto post di carattere positivo, ad altri post negativi e deprimenti. Il contagio emozionale è avvenuto quando gli utenti che si sono trovati la bacheca piena di contenuti positivi hanno iniziato a scrivere post allegri, quelli con la bacheca piena di contenuti deprimenti post depressi. Nessuno dei 700 mila soggetti dell’esperimento ha mai saputo che per una settimana un gruppo di ricercatori aveva manipolato il loro Facebook fino a quando, una settimana fa, i risultati della ricerca sono stati pubblicati in un saggio su “Proceedings of the National Academy of Sciences” e hanno provocato una polemica gigantesca.
Il problema non sono tanto i risultati dell’esperimento. Quelli sono intuitivi, e confermano ciò che molti altri studi hanno già rilevato: Facebook può modificare la nostra personalità. Con il suo algoritmo può decidere cosa dobbiamo vedere sulla nostra bacheca, alterare il nostro punto di vista su un argomento, suggerirci cosa pensare di una materia. Il problema è nel fatto stesso che l’esperimento sia stato condotto, che l’ipotesi di scuola sia diventata realtà: Facebook ha davvero modificato la nostra personalità. Almeno una volta – ma chissà quante altre. E’ tutto legale: nelle Condizioni per l’utilizzo di Facebook, quel contratto di novemila parole che firmiamo quando ci iscriviamo al servizio, c’è un comma in cui l’utente cede a Facebook la facoltà di fare “analisi dei dati, testing e ricerca” con le sue informazioni personali. Gli autori insistono sul fatto che lo studio è stato approvato da una commissione esterna e non ha violato la privacy di nessuno, alcuni dicono che il solo fatto di portare le persone a scrivere post positivi o negativi non significa che le loro personalità e il loro umore siano stati modificati. Ma da alcuni giorni quasi tutte le reazioni sono scandalizzate, Katy Waldman ha scritto su Slate che Facebook ha reso intenzionalmente tristi migliaia di persone, l’attivista per la privacy Lauren Weinstein su Twitter ha chiesto provocatoriamente quante persone Facebook abbia ammazzato – l’ipotesi è improbabile, ma se riempi di post negativi la bacheca di una persona depressa non impossibile. E se Facebook decidesse di vendere le sue capacità di influenza a un partito politico? Facebook lavora al suo algoritmo da anni, lo aggiusta in continuazione per sperimentare il dosaggio perfetto tra post, pubblicità, contenuti editoriali (in media l’algoritmo può scegliere tra 1.500 possibili contenuti tutte le volte che apriamo il nostro profilo), il dosaggio che ci terrà attaccati al computer, ci farà cliccare sulla pubblicità e condividere tutti i nostri dati. E’ l’arma migliore di Mark Zuckerberg, e nessuno sa come funziona davvero.
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