La deterrenza in crisi di Israele

Redazione

In Israele circola una battuta: “I palestinesi lanciano missili da cento dollari e causano danni da tre milioni. Israele lancia missili da 500 mila dollari che fanno boing”.

    In Israele circola una battuta: “I palestinesi lanciano missili da cento dollari e causano danni da tre milioni. Israele lancia missili da 500 mila dollari che fanno boing”. Sarcasmo cupo, che però spiega bene l’umore nell’establishment e nell’opinione pubblica dopo la strage dei tre studenti ebrei da parte degli islamisti. Mentre Israele ammassa truppe al confine con Gaza come dimostrazione di forza, si parla già di tregua e cessate il fuoco fra Gerusalemme e Hamas. Yedioth Ahronoth, il maggiore giornale in lingua ebraica, commenta così: “Non era mai successo che l’Israel defence forces non rispondessero al lancio di missili”. La flebile risposta al terrore dello stato ebraico ha lasciato apparire come compromessa la sua deterrenza. E soprattutto l’inerzia potrebbe aver scatenato l’orrenda vendetta popolare contro un ragazzo palestinese innocente (ma resta ancora da capire cosa sia avvenuto a Gerusalemme). Anziché colpire la centrale del terrore islamico, l’alveare di Gaza, il premier Netanyahu, il ministro della Difesa Ya’alon e il capo di stato maggiore Gantz sembrano aver optato per lo smantellamento dell’infrastruttura politica di Hamas in Cisgiordania. Dicono di voler “calmare la tensione”. Gerusalemme non conosceva un simile livello di violenza terroristica dentro i suoi confini dalla Seconda Intifada. Ma allora, Ariel Sharon mandò i carri armati dentro la casbah di Nablus e assassinò i mandanti delle stragi, compreso uno sceicco paralitico. Quell’operazione rese possibile il ritorno al negoziato. Oggi  la parola d’ordine è “restraint”. Parola afona che eccita i nemici della convivenza da entrambe le parti. L’appeasement genera sempre terrore.