Aziende in catene
Neanche il colpo all’industria esportatrice sveglia Camusso & Co.
L’industria italiana perde colpi. I dati negativi sulla produzione, resi noti dieci giorni fa, trovano ora conferma in quelli sul fatturato e sugli ordinativi. Non si tratta solo di una fluttuazione mensile, ma dell’emergere di una tendenza. L’indice del fatturato mostra per maggio una flessione dello 0,6 per cento per il mercato domestico e dell’1,9 per l’estero. Per il trimestre marzo-maggio sul precedente la flessione è dello 0,7 per l’interno e dello 0,8 per l’estero. Dunque il problema non è tanto l’insufficienza di domanda interna quanto la perdita di competitività sui mercati internazionali. Non abbiamo tanto bisogno di flessibilità nelle regole sul deficit, per vendere di più in Italia, quanto di una maggiore efficienza e quindi flessibilità nel mercato del lavoro e di più credito.
Per il mercato del lavoro ciò che importa è il comportamento delle organizzazioni sindacali e delle grandi imprese, del nostro capitalismo provinciale che non riesce a sbarazzarsi delle nostalgie neocorporative, vedi Alitalia. Dopo avere ottenuto rilevanti sostegni pubblici per gli esuberi, i sindacati si sono impantanati in una vertenza sul contratto nazionale del trasporto aereo che non era necessario chiamare in causa, dato che le compagnie minori si sono dimesse dall’organismo di settore in cui è rimasta solo Alitalia. Essa potrebbe procedere nel proprio contratto solo con chi ci sta, senza che tutti i sindacati siano d’accordo. Gli investitori non capiscono tale bizantinismo. Sbaglia Susanna Camusso che lanciando l’allarme sulla crisi industriale chiede politiche d’investimento di settore. Semmai bisogna lasciare alle aziende il governo dei propri fattori produttivi.
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